Inseguendo Rimbaud
Harar, in Etiopia, fu il rifugio dove il poeta si lanciò in deliranti traffici. Armi, avorio, forse schiavi.
Un grande inviato, Giovanni Porzio, scrive questo articolo su un pezzo tormentato d’Africa, andando alla ricerca di testimonianze e reperti di Arthur Rimbaud, grande poeta decadente francese. Il testo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 4 agosto 2017, alle pp. 96-99.
Da poco è stato pubblicato il volume, “Opere” di Arthur Rimbaud, a cura di Olivier Bivort, Marsilio, pp. 856, euro 20, traduzione di Ornella Tajani, con testo a fronte. E ancora: la casa editrice Les Saints Pères ha pubblicato, in mille copie numerate, i “Manoscritti” di Rimbaud.
Gennaro Cucciniello
L’ultimo rifugio di Arthur Rimbaud, il luogo da dove sognava di tornare “con membra di ferro, la pelle scura, l’occhio furente” e da cui invece ripartì in fin di vita su “una barella coperta da una tenda”, è una remota cittadina sull’altopiano etiopico che sovrasta i torridi deserti dell’Ogaden e della Dancalia.
Harar, fondata nel X secolo, è uno dei più antichi insediamenti urbani dell’Africa orientale e la quarta città santa dell’Islam dopo la Mecca, Medina e Gerusalemme, con oltre ottanta moschee all’interno dei bastioni medievali che racchiudono il borgo di Jugol. Le facciate delle vecchie case sono ora rivestite d’intonaci dai colori psichedelici, turchese, giallo, fucsia, malva, che nascondono i muri di pietra grezza e di argilla. Minareti e campanili sorgono a poca distanza l’uno dall’altro e i faranj, gli stranieri portatori di dollari, sono i benvenuti. Ma Harar non era così accogliente quando nel gennaio 1855 vi penetrò, primo europeo, Richard Francis Burton, l’esploratore inglese che con John Speke scoprirà le sorgenti del Nilo bianco.
Burton entrò nella “città proibita” dalla porta di Erer, una delle cinque da cui ancora oggi si accede, e vi trascorse una decina di giorni, ospite-prigioniero dell’emiro Abubakr, “tra gente che odia i forestieri, sotto il tetto di un principe fanatico il cui minimo cenno significava morte”. In “First Footsteps in East Africa” Burton narra di una popolazione sfigurata dal vaiolo e dalla lebbra, abbrutita dal consumo di birra, d’idromele e di foglie di khat, un arbusto ricco di alcaloidi dagli effetti euforizzanti, simile alla coca o alla benzedrina. Salva solo le donne “dai larghi occhi e dalla pelle chiara”, ornate di gioielli d’argento e corallo, con “le palpebre abbellite dal khol e mani e piedi dipinti di henna”. L’attività principale, conclude, è “il commercio di schiavi, di avorio, di caffè”.
Sono questi prodotti a spingere Rimbaud verso Harar. Nel 1869 l’apertura del canale di Suez ha accorciato di un terzo la distanza tra l’Europa e l’India: l’Africa orientale si apre al mercato mondiale, le potenze europee mirano al controllo del Mar Rosso. E al seguito delle guarnigioni militari arrivano i commercianti. Rimbaud è un’anima in pena. Ha pubblicato, con scarso successo, “Una stagione all’inferno” e ha in tasca le “Illuminazioni”, ma ha ormai rinunciato alla poesia. Ha rotto col suo amante Verlaine, che in un accesso di gelosia l’ha ferito a un polso con una rivoltella. Non sopporta il gretto ambiente piccolo-borghese di Charleville, nelle Ardenne, dove sua madre vive in una fattoria di campagna. Disgustato, lascia la Francia, gira per l’Europa, l’Asia, il Medio Oriente. A Cipro ha un lavoro precario, ma deve andarsene inseguito dall’accusa di aver causato la morte di un operaio. A ventisei anni approda infine ad Aden, in Yemen, dove accetta un impiego dalla ditta di un francese, Alfred Bardey, che lo spedisce in Abissinia a soprintendere le spedizioni di caffè e altre mercanzie.
Nel dicembre 1880, dopo aver attraversato il Golfo di Aden a bordo di un sambuco e dopo venti giorni a cavallo nel deserto somalo, Rimbaud entra nella città fortificata di Harar: vi passerà quasi cinque anni, in tre distinti periodi, fino alla sua morte nel 1891. Pensa di potersi arricchire. Harar è diventata un emporio commerciale dove, oltre al caffè, affluiscono merci preziose: armi, schiavi, oro, avorio, pellami, gomma, incenso, zibetto. Il poeta si illude forse di avere realizzato il sogno vagheggiato in gioventù: “Mi piaceva il deserto, le terre riarse, i banconi marci, le bevande tiepide. Mi trascinavo per le stradine maleodoranti, con gli occhi chiusi, e mi concedevo al sole, al dio del fuoco”. Impara l’arabo, l’amarico, l’oromo e il dialetto harari. Veste all’orientale. Mastica ogni giorno il khat. Si spinge a cavallo nell’entroterra sconosciuto dell’Ogaden, accompagna le carovane a Zeila, in territorio somalo, e a Gibuti. E per almeno quattro anni vive ad Aden e ad Harar con una donna, Mariam, un’abissina cristiana dello Scioa. Di lei resta una foto conservata nell’album di Bardey, oltre alle testimonianze di amici e conoscenti del poeta e alle parole dello stesso Rimbaud, che alla fine del 1885 scrive in una lettera al giornalista-esploratore Augusto Franzoj: “Ho mandato indietro quella donna senza indugio. Le darò qualche tallero, andrà a imbarcarsi sulla tartana di Ras Alì per Obock; e poi dove meglio le piacerà”. Nel ricordo di Francoise Grisard, la domestica della moglie di Bardey, Mariam “era alta e snella, un viso piuttosto bello, i lineamenti regolari; non troppo scura. Usciva solo di sera con il signor Rimbaud: era vestita all’europea e la loro casa era come quelle del posto. Le piaceva molto fumare sigarette”.
Il poeta non ha più tempo per lei. A Harar la concorrenza dei mercanti greci e italiani è spietata e Rimbaud, che sta acquistando armi e dromedari a Tagiura, crede di avere in mano l’affare della vita: una fornitura di “alcune migliaia di fucili a capsula” per il re dello Scioa e futuro imperatore Menelik II.
Sarà un mezzo fallimento. Quando la carovana raggiunge il sovrano a Entoto, nei pressi dell’odierna Addis Abeba, Menelik, che si è appena impadronito di Harar, si rivela un osso duro: sequestra la merce e costringe Rimbaud a vendere a prezzi ribassati, con una perdita del 60% sul capitale investito. Quanto al pagamento, il poeta-trafficante dovrà rivolgersi a Ras Makonnen, nuovo governatore di Harar (e padre del futuro negus Hailé Selassié) che non avendo denaro contante gli affida due lettere di credito da riscuotere nel porto coloniale italiano di Massaua. Alla fine Rimbaud riuscirà a incassare “poco più di 16mila franchi d’oro”, mentre le armi consegnate a Menelik saranno usate contro le truppe italiane nella battaglia di Adua del 1896.
Sfinito e sfiduciato, Rimbaud torna per la terza e ultima volta a Harar. I pochi europei che lo frequentano, il greco Sotiro, gli italiani Ottorino Rosa, Luigi Robecchi Bricchetti e il muratore Olivoni, lo descrivono triste e scontroso, precocemente invecchiato. Tre fotografie sgranate, le uniche immagini del poeta in Etiopia, rivelano un volto scavato e sofferente, consumato dalla fatica e dall’abuso di khat. Rimangono scritti sparsi: le lettere ai famigliari, quelle indirizzate a Bardey e al viceconsole francese, il resoconto della spedizione in Ogaden, un lungo articolo del 1887 per il giornale Le Bosphore égyptien.
Ci sono indizi che alla fine degli anni Ottanta, almeno in un’occasione, Rimbaud si sia dedicato alla tratta degli schiavi. In un dispaccio, inviato il 22 maggio 1888 al ministro degli Esteri italiano Francesco Crispi dal comandante Antonio Cecchi della compagnia Rubattino, si accenna a una grande carovana “recante dallo Scioa, via Harar, avorio e schiavi in numero rilevante. Accompagnava la carovana il negoziante francese Rembau (sic), uno degli agenti più intelligenti e attivi del governo francese in quelle regioni”.
Sono gli ultimi exploit. Nelle lettere, dove insiste che non può tornare in Europa perché “troppo abituato alla vita errante e libera”, cominciano ad affiorare i segni della malattia: “questo maledetto ginocchio destro che mi tortura”, “ho chiesto ad Aden una calza per varici”, “credo che la mia vita stia andando a rotoli”. Nel marzo 1891 è immobilizzato a letto e si deve arrendere. “Mi feci fare una barella coperta da una tenda”, scrive alla sorella Isabelle dall’ospedale di Marsiglia, “che 16 uomini trasportarono a Zeila in una quindicina di giorni”. Quando una nave lo riporta finalmente in Francia la gamba cancerosa deve essere amputata, inutilmente: morirà in novembre, a 37 anni, dopo un’estate passata a vagheggiare il ritorno nell’amata Harar dove lo aspettavano il fedele servitore Djami e Ras Makonnen, che si augurava di rivederlo “presto e in buona salute, se Allah lo vuole”.
Oggi Harar è invasa da antiquate Peugeot 404 e dai bajaj, i moto-risciò importati dall’India. Nei nuovi quartieri i cinesi costruiscono alberghi, stadi sportivi e spropositate opere di regime. Ma il Jugol non è molto diverso dai tempi di Rimbaud. Il mulino macina il teff, il cereale per la tradizionale injera. Al mercato sono in vendita spezie, incenso e grani di caffè. Le donne portano in testa pesanti fascine di legna e dalla campagna, su carretti tirati da asini, arrivano gli ortaggi che le contadine stendono sull’acciottolato dei vicoli. In via Makina Girgir i sarti cuciono stoffe con le “macchine che girano”, le vecchie Singer a pedale. E fuori le mura, nel villaggio dei lebbrosi, suor Irene si prende cura dei malati.
Di notte le woreba, le iene che ripuliscono i vicoli dall’immondizia, non sono solo un’attrazione per turisti. Gli abitanti le credono in contatto con il mondo degli spiriti e Rimbaud rischiò il linciaggio quando per liberarsi dei cani che orinavano sulle sue merci finì con l’avvelenare i sacri spazzini. Persino il grande suq del bestiame di Babile, sulla strada per Jijiga, è rimasto lo stesso, anche se i dromedari non servono più per le carovane e sono esportati in Arabia Saudita. Ma dell’emporio della ditta Bardey e dell’abitazione del poeta non ci sono più tracce nella Faras Magala, la piazza dei cavalli. Il ricordo di Rimbaud, che molti giovani confondono col Rambo di Sylvester Stallone, è quasi svanito anche dalla memoria di Seleshi Tegene, 102 anni, ex capotreno sulla ferrovia di Gibuti, ex insegnante ed ex cacciatore (“Ho ucciso sei leoni e due leopardi”) che ha conosciuto il vicerè Rodolfo Graziani ai tempi dell’occupazione italiana. “Rimbaud?”, dice, “trafficava armi con il re dello Scioa”.
Il caffè, coltivato ad Harar fin dal X secolo ed esportato a Mocha, sulla costa arabica del mar Rosso, era la merce di punta delle carovane di Harar. Oggi è stato soppiantato dalle piantagioni di khat, molto più redditizie perché producono tutto l’anno e richiedono meno lavoro. Ogni giorno tonnellate di ramoscelli avvolti in sacchi di tela bagnata affluiscono al mercato di Awaday, a nord della città. E una flotta di autocarri Isuzu –soprannominati “al-Qaida” per la guida spericolata degli autisti e i frequenti incidenti- parte a rotta di collo per il Somaliland o per l’aeroporto di Dire Dawa, dove il khat è imbarcato sui cargo in partenza per l’Oman, gli Emirati e Gibuti.
A resuscitare i fantasmi letterari sono i faranj: un discreto business per Harar. Ogni anno 26mila stranieri visitano il Centro culturale Arthur Rimbaud, inaugurato nel 2000 nella villa che apparteneva a un ricco commerciante indiano. Il curatore del museo, Abdunasir Abdulahi, non ha potuto allestire granché: un paio di autoritratti del poeta, qualche verso del Bateau ivre tradotto in amarico, immagini d’epoca, la foto di un impiegato scattata da Rimbaud nel suo magazzino. Ma c’è un altro scrittore-avventuriero che è approdato ad Harar 30 anni dopo l’autore della “Stagione all’inferno”: Henry de Monfreid.
Come Rimbaud, Monfreid –figlio di un pittore amico di Gauguin, Degas e Matisse- non sopporta la mediocre vita impiegatizia che conduce in Francia. E’ attratto dall’ignoto e dall’azione. A trentun’anni si lascia l’Europa alle spalle e sbarca a Gibuti. S’improvvisa pescatore, filibustiere, coltivatore di perle. Impara l’arabo e il somalo, si converte all’Islam e prende il nome di Ab del-Hay, lo “schiavo del Vivente”. A bordo del suo sambuco veleggia da un capo all’altro del mar Rosso vendendo armi alle tribù somale e yemenite in rivolta, sfuggendo ai pirati, contrabbandando hashish e cocaina, spiando i turchi per conto dei francesi.
A differenza di Rimbaud, Monfreid arriva tardi alla letteratura. Ha già oltrepassato la cinquantina quando lo scrittore e giornalista Joseph Kessel, inviato da Le Matin per realizzare un reportage sulla tratta degli schiavi, lo incrocia e ne resta affascinato. Kessel, autore di numerosi romanzi tra cui “Bella di giorno”, convince il riluttante Henry a mettere in pagina le sue straordinarie avventure.
“I segreti del Mar Rosso”, pubblicato nel 1931, è un bestseller: il primo della settantina di volumi lasciati da Monfreid alla sua morte, ultranovantenne, nel 1974. Libri in cui racconta l’odissea di una vita: le crociere in India per rifornirsi di hashish, l’inseguimento fino alle Seychelles di un carico di droga che gli è stato sottratto, le casse di armi seppellite nelle isole, i naufragi, il sole feroce. Senza tralasciare i contatti con Mussolini e la deportazione in un campo di prigionia britannico in Kenya. Non sorprende che Hugo Pratt abbia disegnato le copertine di tre romanzi di Monfreid, Né che Hergé lo abbia ritratto in una celebre striscia: è il capitano del sambuco e trafficante d’armi che ne “I sigari del Faraone” salva Tintin dal naufragio.
Sull’altopiano di Harar Henry si rifugia nei mesi più arroventati, a volte con i figli e la moglie tedesca Armgart, quando dormire nella fornace di Obock diventa impossibile. Si rilassa fumando oppio. A Dire Dawa mette in piedi un mulino, una centrale elettrica e una fabbrica di pasta. Ma la sua casa è sulla collina di Harawe, dove si arriva scarpinando su un sentiero che sale tra i manghi e le acacie. E’ un malconcio edificio rettangolare di pietra intonacata, col tetto di lamiera e pieno di crepe, dove abita la numerosa famiglia du un certo Mahmud Amhed. “Mio marito è fuori, nei campi di teff”, si scusa la signora Hindia Munir, che accende un braciere d’incenso per tener lontane le mosche e il puzzo di letame che esala dal cortile. Sulle colline i contadini scrutano il cielo irrimediabilmente vuoto, mentre le capre brucano i cactus e le stoppie riarse. Non piove da mesi, la semina è compromessa e i pozzi sono sorvegliati da uomini armati di mitra. Siccità e carestie sono endemiche nel nordest dell’Etiopia. E’ come ai tempi di Rimbaud e Monfreid non cessano le sanguinose faide tra Afar e Issa, somali e Oromo, pastori nomadi e coltivatori sedentari: in un campo profughi di capanne di plastica e stracci seimila sfollati attendono con angoscia gli aiuti alimentari e l’autobotte con l’acqua.
Il Corno d’Africa, in fondo, è sempre quello descritto da Monfreid: la guerra infuria in Somalia e in Yemen; a Gibuti s’importano tonnellate di armi per le basi militari americane, francesi, italiane, cinesi; il mare è infestato dai pirati; il commercio del khat e di altre droghe non è mai stato così florido. E i migranti, in fuga dai massacri o in cerca di un lavoro, continuano a percorrere le antiche piste delle carovane degli schiavi.
Giovanni Porzio