Belli. Sonetti. L’insegnamento della grammatica. 8 aprile 1834

Belli. Sonetti. Gli intellettuali. “La lezzione der padroncino”

 

La “Commedia romana” di G. G. Belli ha trasfigurato per sempre la città del papa in un’immensa città poetica, realisticamente colta in tutta la sua vita sociale, politica, religiosa e culturale, nelle sue contraddizioni, nei suoi contrasti, nelle sue ipocrisie e ingiustizie, nella sua frenesia sensuale e nella sua miseria.

Nei suoi sonetti vibra non tanto l’ironia dell’intellettuale mefistofelico –insieme male assoluto e carognone da operetta- quanto l’immedesimazione emotiva del ritrattista nel soggetto. In quel popolo rozzo fino a livelli subumani –che lui ritraeva- scorreva l’antica grandezza di Roma. Si noti l’ampiezza biblica di certi versi, come la cacciata di Lucifero dal Paradiso: “… stese un braccio lungo seimila mijjia er Padreterno / e serrò er Paradiso a catenaccio”.

Il poeta osservava con affettuosa simpatia gli interni delle case povere ma anche con mordente allusività le azioni, tutte turpi o parassitarie, d’una plebe senza educazione e senza assistenza. Parlano i suoi vetrai quando uno di loro deplora che il papa sia scelto sempre tra i cardinali e s’immagina che possa toccare a lui di essere chiamato all’alta carica. “Mettemo caso: sto abbottanno er vetro./ Entra un Eminentissimo e me dice:/ “Sor Titta, è papa lei. Vienghi a San Pietro”. Parlano gli impiegati e i burocrati, gli artigiani e le casalinghe, i preti e i miscredenti: e il nostro poeta è come un confessore che riesce, tramite tutti questi interlocutori, a scoprire qualcosa di sé, gli angoli bui; una sorta di buona iena che, mangiando i suoi personaggi, nutre se stesso. E finiamo con Marco Aurelio, con la sua visione desolata dell’ineluttabilità della morte. Aveva scritto l’imperatore filosofo: “Molti granelli d’incenso cadono sulla medesima ara, uno prima, uno dopo. Ma non fa differenza”. Gli fa eco Belli: “L’ommini de sto monno so l’istesso / che vaghi de caffè nel macinino / ch’uno prima, uno doppo, un antro appresso / tutti quanti però vanno a un distino…”. Nella Introduzione alla sua “Commedia romana” Belli parla della “plebe di Roma come di cosa abbandonata senza miglioramento”. L’assenza nello Stato Pontificio di ogni possibilità di progetto di modernizzazione politica ed economica faceva sentire di più il male delle distanze sociali, incolmabili, e annullava ogni pur vaga promessa di qualche rimedio prossimo venturo che, se pur parzialmente e con lentezza, si stava realizzando nelle regioni del nord Italia. L’oppressione simbolica e materiale dei ceti poveri sarebbe stata più sopportabile se qualcuno sulla scena pubblica ne avesse fatto intravedere anche solo un parziale miglioramento, se le speranze di ascesa individuale o di gruppo fossero state un poco più realistiche. Ma non c’era a Roma nessun dibattito di idee, di impegno pubblico, di progetti politici e ideologici, insomma niente che potesse avvalorare un ruolo propositivo dei ceti intellettuali, se non quello di coltivare, immobili, archeologia e antiquariato. Per questo tanto più rilevante è il progetto di rappresentazione realistica integrale, romantica ma non populista, incapace di proporre modelli suggestivi e positivi, che elabora Belli. Duecentocinquanta anni prima circa Giordano Bruno aveva orgogliosamente ed eroicamente affermato di contro al tribunale dell’Inquisizione: “La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose”, pagando con la morte la sua coerenza. Il nostro poeta aveva più semplicemente scritto in un suo sonetto: “La Verità è com’è la cacarella, / che cquanno te viè ll’impito e tte scappa / hai tempo, fijja, de serrà la chiappa / e stòrcete e ttremà ppe rritenella. // E accussì, ssi la bbocca nun z’attappa, / la Santa Verità sbrodolarella / t’esce fora da sé dda le budella…” ( Vigolo, 886).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

                                                        Gennaro Cucciniello

 

La lezzione der padroncino                         8 aprile 1834

 

Mo hanno messo er più fijo grandicello

A la lingua itajana. Oh di’, Bastiano,

Si nun ze chiama avé pperzo er cervello

D’imparà l’itajano a un itajano.                                       4

 

Lo sento sempre co un libraccio in mano

Dì: “Er fraggello, ar fraggello, cor fraggello,

Der zovrano, er zovrano, dar zovrano”;

E ‘gnisempre sta storia, poverello!                                  8

 

Sarà una bella cosa, e quer che vòi;

Ma a me me pare a me che ste parole

Sò quell’istesse che dicemo noi.                                        11

 

Si ffussino indifficile uguarmente

Come che l’antri studi de le scòle,

Io nu ne capirebbe un accidente.                                     14

 

Metro: sonetto (ABAB, BABA, CDC, EDE).

Adesso hanno messo il figlio più grandicello a imparare la lingua italiana. Oh, dimmi, Sebastiano, se non si chiama aver perso il cervello d’insegnare l’italiano a un italiano. Io lo sento sempre con un grande libro in mano ripetere: “Il flagello, al flagello, con il flagello, del sovrano, il sovrano, dal sovrano”; e sempre questa storia, poverello! Sarà pure una bella cosa, e tutto quello che vuoi; ma a me mi sembra che queste parole sono quelle stesse che diciamo e ripetiamo noi. Se fossero difficili come gli altri studi delle scuole, io non ne capirei nulla.

 

Le quartine.

Un servitore colloquia con un amico e gli svela un segreto della vita della casa dei suoi signori che lo incuriosisce molto. La storia è semplicissima: lui vede che il signorino più grande della famiglia sta sempre a studiare con un libraccio in mano e lo sente ripetere una cantilena monotona che accosta con insistenza solo due parole, “flagello e sovrano”, e le declina nei modi più vari. Noi che abbiamo studiato l’analisi logica del discorso, propedeutica allo studio del latino, riconosciamo che il ragazzo sta declinando la “grammatica dei casi”: il soggetto, il complemento di termine, quello di mezzo, di specificazione, d’agente. E il servitore conclude: poverello!

Voglio far notare che la rima in A, fraggello-poverello, potrebbe diventare una chiave utile di interpretazione. Potenza della costruzione narrativa e limpidezza cristallina di una poesia pura e lapidaria.

Le terzine.

Il racconto scivola velocemente verso una conclusione un po’ banale. Ma è vertiginoso l’accostamento –che sembra solo furbesco- delle due parole che sono state lo scheletro della cantilena, fraggello / sovrano, la grave sciagura collettiva di avere quel tipo di padrone-tiranno. I romani, popolani soprattutto, chissà quante volte le hanno declinate bestemmiando e imprecando: “ma a me me pare a me che ste parole / sò quell’istesse che dicemo noi”.

Ecco il nostro Belli: un poeta che prima gioca, secondo il suo stile, tra verità e finzione, poi via via entra nei personaggi quasi con gelida determinazione fino a diventare quel signore eccentrico e malinconico che con tenacia civile spinge la poesia in un mistero doloroso, interessato alla solitudine inerme degli esseri umani senza privilegi e senza cultura.

 

Il giorno prima, il 7 aprile 1834, lo stesso nel quale aveva scritto quel tremendo sonetto intitolato “Li du’ generi umani”, Belli scrive un testo che affronta ancora il tema della scuola:

 

                                      Er maestro de l’urione

 

Dimme cojone a mannà ppiù Ffilice

Da quer zomaro là de don Nicola,

Che me l’ha ffatto addiventà un’alice,

E intanto m’arimane una bestiola:                                  4

 

V’abbasti mo sta buggiarata sola

Der zor maestro, che mi’ fijo dice

Che cert’antri regazzi de la scòla

Lui l’ha messi a studià ssu le radice.                                8

 

Ma che diavolo, cristo!, ce s’impara

Da ‘na radice, o rossa, o nera, o bianca?

Che ppizzica e ffa ffà la piscia chiara.                             11

 

Io me fo maravija der Zovrano,

Che manna a ffà la scòla un faccia-franca

Nat’e creato pe morì ortolano.                                        14

 

Metro: sonetto (ABAB, BABA, CDC, EDE).

 

                                               Il maestro del rione

 

(A Roma ogni rione aveva il suo maestro, nominato dal governo). Chiamami coglione se io mando più mio figlio Felice da quel somaro di don Nicola, che me lo ha consumato e lo ha fatto diventare secco come un alice e intanto resta una bestiola ignorante. Vi basti adesso questa sola corbelleria del signor maestro, che mio figlio mi dice che alcuni altri ragazzi della scuola Lui li ha messi a studiare sulle radici (dei verbi e delle parole). Ma che diavolo, Cristo, s’impara da un ravanello, o rosso, o nero, o bianco? Che pizzica e fa fare la piscia chiara. Io mi meraviglio del Papa che manda a fare il maestro uno sfrontato ignorante, nato e cresciuto per morire ortolano.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello