Belli. Sonetti. La religione cattolica. “L’anno santo” 7 novembre 1832
E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.
Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.
Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
L’anno santo 7 novembre 1832
Arfine, grazziaddio, semo arrivati
All’anno-santo! Alegramente, Meo;
Er Papa ha spubbricato er giubbileo
Pe ttutti li cristani bbattezzati. 4
Bbeato in tutto st’anno chi ha ppeccati,
Ché a la cusscenza nun je resta un gneo!
Bbasta nun èsse ggiacobbino o ebbreo,
O antra razza de cani arinegati. 8
Se leva ar purgatorio er catenaccio;
E a l’inferno, peccristo, pe cquest’anno,
Pòi fa, ppòi dì, nun ce se va un cazzaccio. 11
Tu vva’ a le sette-cchiese sorfeggianno,
Méttete in testa un po’ de scenneraccio,
E ttienghi er paradiso ar tu’ commanno. 14
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).
Alla fine, grazie a Dio, siamo arrivati all’Anno Santo! Allegria, Bartolomeo; il Papa ha pubblicato il giubileo per tutti i cristiani battezzati. In tutto questo anno beato chi ha peccati sulla coscienza, perché non le resta neanche un neo! Basta non essere giacobino o ebreo, o un’altra razza di cani rinnegati. Al purgatorio viene tolto il catenaccio; e all’inferno, per Cristo, per quest’anno, puoi fare tutto, puoi dire tutto, non ci si va per niente (non ci va nessun manigoldo). Tu fai la visita di sette chiese privilegiate (visita rimunerata dai papi con infinite indulgenze) salmodiando, mettiti in testa un po’ di cenere di bucato, e avrai il paradiso al tuo comando.
Analisi. Penso che questa volta si possa costruire una sequenza intrecciata: la prima quartina e l’ultima terzina (le procedure dell’anno santo), la seconda quartina e la prima terzina (la sostanza dell’anno santo). Vediamo.
In principio c’è l’indizione del giubileo. Il papa Gregorio XVI indisse un giubileo straordinario per celebrare il diciottomillesimo anniversario del sacrificio di Cristo. Il popolano zelante e ortodosso esprime tutta la sua soddisfazione: l’anno santo porterà in città tanti pellegrini, si faranno affari, tutti potranno godere di entrate supplementari. Ma c’è anche la gioia per i guadagni spirituali, si crede veramente nelle indulgenze, nelle facilitazioni per evitare o almeno diminuire le punizioni del Purgatorio ( “ché a la cusscenza nun je resta un gneo”, v. 6). La rima in A, semo arrivati / tutti li cristiani battezzati, esprime compiutamente questo aspetto, arricchito da quei dettagli antisemiti, antigiacobini e integralisti dei versi 7 e 8 (“bbasta nun èsse ggiacobbino o ebbreo/o antra razza de cani arinegati”). Nella strofa finale c’è lo spettacolo teatralizzato: il plebeo va solfeggiando a far visita alle chiese canoniche privilegiate, simula gli atti di pentimento e diventa padrone del Paradiso. Il successo di questo sonetto è confermato dal Pascarella che nella “Scoperta dell’America”, qualche decennio dopo, riprese integralmente il primo verso.
Nella prima terzina c’è la sintesi teologica popolarizzata: con meraviglioso realismo “se leva ar purgatorio er catenaccio” e tutte le anime –con le speciali indulgenze- volano in cielo e l’inferno resta vuoto per tutto l’anno (mi ricorda il “Sarà ogni giorno Natale e festa tutto l’anno” dell’Anno che verrà di Lucio Dalla.
Il giorno dopo, l’8 novembre, Belli scrive: Li frati d’un paese
Senti sto fatto. Un giorno de st’istate
Lavoravo ar convento de Ggenzano,
E ssentivo de sopra ch’er guardiano
Tirava ggiù bbiastime a carrettate; 4
Perché, essenno le ggente aridunate
Pe ccantà la novena a ssan Cazziano,
Cerca cqua, cchiama llà, cquer zagristano
Drento a le scelle nun trovava un frate. 8
Era viscino a nnotte, e un pispillorio
Già sse sentiva in de la cchiesa piena,
Cuanno senti che ffa ppadre Grigorio. 11
Curze a intoccà la tevola de scena,
E appena che ffu empito er refettorio
Disse: “Alò, ffrati porchi, a la novena”. 14
Senti questo fatto. Un giorno di questa estate io lavoravo nel convento di Genzano (una cittadina dei Castelli Romani), e sentivo che di sopra il padre guardiano tirava giù carrettate di bestemmie. Perché, essendo arrivata molta gente in chiesa per cantare la novena di San Cassiano (martire, è il 13 agosto), cerca qua, chiama là, quel sagrestano dentro le celle non trovava neanche un frate. S’avvicinava la notte e ormai nella chiesa piena si sentiva tutto un confuso bisbigliare, quando senti che fa padre Gregorio. Corse a far rintoccare la “tegola” della cena (la si usava al posto della campana), e appena il refettorio si fu riempito, gridò: “andiamo, frati forchettoni, andiamo alla novena”.
Gennaro Cucciniello