Metafisica e Gossip: la Francia di E. Cioran
I ritratti letterari del ‘700 esprimono il genio di un’intera civiltà. Lo scrittore rumeno riunì i migliori in un libro ora tradotto in italiano. Uno studioso ci svela i retroscena di un genere.
Nel “Venerdì di Repubblica” del 6 ottobre 2017, alle pp. 90-93, Benedetta Craveri commenta l’uscita in libreria di un’antologia di E. M. Cioran, “Antologia del ritratto. Da Saint-Simon a Tocqueville”, Adelphi, intervistando Claude Arnaud, romanziere e saggista.
Emil Cioran, rumeno, è stato esule a Parigi fin dagli anni Quaranta del Novecento; per nascita era cristiano ortodosso, figlio di un pope, amico di Mircea Eliade, grande storico delle religioni, professore a Chicago e anche lui rumeno emigrato. I due erano nati e cresciuti in Romania fra le due guerre mondiali: periferia estrema dell’Europa, paese in preda ai movimenti nazionalisti e radicalmente antisemiti.
Gennaro Cucciniello
Pessimismo apocalittico e rifiuto di qualsivoglia forma di appartenenza non impedivano a Cioran di essere uno spirito eminentemente curioso e un conversatore incantevole. Maestro del paradosso, il filosofo de “L’inconveniente di essere nati” rivendicava i piaceri della frivolezza e dichiarava giocosamente che ad interessarlo erano solo la metafisica e i pettegolezzi. Sono per l’appunto meditazione ontologica e fascinazione per la futilità all’origine di quell’autentico gioiello di Cioran che è la sua “Antologia del ritratto. Da Saint-Simon a Tocqueville” (Adelphi). Non meno trascinante di questa splendida galleria di una quarantina di ritratti (alla cui eleganza la traduzione di Giovanni Mariotti rende piena giustizia), dove alcuni tra i maggiori protagonisti della Francia del Settecento fanno a gara a strapparsi vicendevolmente la maschera), è il ritratto dell’intero secolo che Cioran ci restituisce nella sua introduzione.
Nonostante la diagnosi lucidamente impietosa di una civiltà artificiale, basata sulle apparenze, che ha perso il senso del sacro, del mistero, che vive di utopie e corre indifferente alla propria rovina, lo scrittore continua a subirne prepotentemente il fascino e il suo j’accuse è anche un esercizio di ammirazione. Non a caso è facendo sua la lezione di stile degli scrittori che figurano nella sua scelta e di cui denunzia l’eccesso di perfezione, la chiarezza disseccata, la non vita che Cioran si era deciso ad abbandonare la sua lingua natale –il rumeno- per diventare un maestro della prosa francese.
Il nome di Cioran attraversa anche tutta l’appassionante, vastissima antologia di circa cinquecento ritratti (“Portraits crachés. Un trésor littéraire de Montaigne à Houellebecq”, Bouquins Laffont, pp. 921, euro 32) scelti e commentati da Claude Arnaud, romanziere, saggista e ritrattista di talento. Lo abbiamo intervistato per farci da guida in questa forma letteraria in cui la Francia ha eccelso.
Claude Arnaud, lei scrive che il ritratto “illuminando la nostra umanità ci ha rivelato a noi stessi”: in che epoca prende forma la tradizione francese del ritratto scritto?
Prima del Rinascimento l’individuo non esiste: a dargli il benvenuto è il ritratto dipinto, in Italia e in Olanda. Nella letteratura francese Montaigne è il primo a considerarsi come un vero soggetto, sia pur contraddittorio e mutevole, ma bisognerà aspettare ancora un secolo per vedere altri dilettanti seguire il suo esempio. Sono le Preziose (le animatrici dei primi salotti letterari femminili nel ‘600, ndr) a prendere per prime la penna per rivendicare le qualità interiori delle donne, troppo spesso giudicate esclusivamente in base all’apparenza fisica e gli ipotetici difetti attribuiti loro dagli uomini.
Lei sottolinea il nesso tra emergenza dell’individuo e desiderio di auto-rappresentazione. Eppure, se seguiamo la linea di lettura di Cioran, l’arte del ritratto letterario si sviluppa in un contesto mondano che implica la capacità di conoscersi e di mettersi in scena e al tempo stesso di dissimularsi, di non svelarsi. Come coabitano queste spinte contrastanti?
Ritratto e autoritratto rispondono, in effetti, a un grande desiderio di affermazione di sé e, al tempo stesso, al timore di fragilizzarsi, mettendosi in scena. Ci si rende conto che ammettere qualche difetto, se accettabile, può servire a stemperare l’aggressività altrui, mentre attribuirsi troppe qualità –l’errore commesso dalle Preziose– comporta fatalmente la presa in giro. E questa strategia, a lungo andare, farà dei francesi un popolo di equilibristi oscillanti in permanenza tra auto-compiacimento e autocritica.
Si dice che i primi a intuire l’esistenza di quei “pensieri non pensati” di cui non abbiamo consapevolezza e a cui due secoli più tardi Freud darà il nome di inconscio, siano stati i giansenisti intenti a riflettere sull’esigenza di trasparenza richiesta dalla pratica della confessione. Qual è il contributo della religione al sapere psicologico dei ritrattisti?
Cristo è il primo individuo ad essere anche figlio di Dio: pur restando per sua natura necessariamente enigmatico, scopre –incarnandosi- la contraddizione inerente alla condizione umana e si interroga. Ciò nonostante Pascal e i giansenisti si ostinano a considerare “l’io detestabile”: fondamentalmente egoista, che non si augura che la morte altrui. Ma risulterà più facile uccidere Dio in noi che eliminare questo io maledetto. Ed è questo assassinio interiore che rivelerà la presenza del nostro inconscio.
Perché a partire dal XVII secolo il ritratto letterario viene considerato un genere tipicamente francese?
Perché la Francia è un paese ultracentralizzato dove, da Luigi XIV in poi, tutti quelli che contano vivono tra Parigi e Versailles e ambiscono tutti agli stessi posti. Così ciascuno studia i difetti del suo vicino e, scritto o parlato, il ritratto si fa presto tagliente come uno specchio infranto. I francesi potranno anche sbarazzarsi di Dio e poi del Re, ma continueranno a giudicarsi con un crescendo di durezza, instaurando la tirannide dell’auto-sorveglianza. Come Cioran aveva già splendidamente dimostrato, comporre un’antologia del ritratto significa necessariamente abbozzare un quadro della cultura francese.
Lei ha costruito la sua antologia in una prospettiva diacronica, a partire dai diversi contesti in cui si iscrivono i ritratti da lei scelti: la vita di società, la corte, la politica, la storia, il romanzo, ma mostra bene come la linea di separazione sia estremamente labile. Come evolve, da un contesto all’altro, l’arte del ritratto?
I racconti epici mostravano degli eroi chiamati a compiere delle azioni mitiche, ma a partire dalla fine del Rinascimento le storie hanno come protagonisti degli individui contraddittori e assai più vicini a noi. Vere o false che siano, queste storie mettono in luce la psicologia dei loro attori. I metodi di introspezione si perfezionano a un punto tale che, a partire dal XVII secolo, più nessuno si assomiglia: come mostra Molière, i “caratteri” stessi –l’ipocrita, l’avaro, il vanesio- si colorano di mille sfumature.
In che misura l’entrata in scena di nuove chiavi di lettura come la fisiognomica, la frenologia, la psicanalisi influiscono sulla ritrattistica letteraria?
Da Saint-Simon a Balzac, a Marguerite Duras, si sono cercate via via le cause delle nostre azioni nell’eredità familiare, nel contesto sociale, nell’inconscio individuale. Si è iniziato a descrivere dei caratteri psicologici e morali per poi accorgersi che anche i corpi “parlavano”. Si è supposto che una certa forma del cranio predisponesse al crimine, poi che si volesse uccidere il padre per il desiderio inconscio della propria madre. Ma i nostri comportamenti restano enigmatici: il vero mistero comincia dopo le spiegazioni.
Dopo aver ammirato la spietata lucidità con cui gli uomini del ‘700 si mettevano reciprocamente alla gogna, Cioran ha contribuito a rilanciare l’arte del ritratto con i suoi splendidi “esercizi di ammirazione”, come testimonia quello di Beckett che figura nella sua antologia. A suo giudizio è più difficile denunciare il lato oscuro delle persone o celebrarne le qualità?
Sono entrambi gli esercizi difficili e soltanto i ritrattisti più grandi sono capaci di passare dall’uno all’altro. Se Saint-Simon è il maestro assoluto del genere è perché i suoi mostri conservano sempre un quoziente di umanità e i suoi santi di idiozia. Il suo gigantesco Luigi XIV –che si estende lungo tutta la sua vita- è il ritratto di un autodidatta che fin da adolescente, memore dell’umiliazione della Fronda, si era imposto di imparare tutto del mestiere di re e, al tempo stesso, quello di un tiranno che aveva ridotto i suoi cortigiani a una condizione di atroce servilismo.
Sempre Cioran scriveva che “non c’è ritratto che non rinvii all’immagine di un gorilla smarrito” e lei rileva che il ritratto moderno si va progressivamente “rianimalizzando”. Sono numerosi gli scrittori contemporanei che preferiscono descrivere gli animali piuttosto che gli uomini. Cosa è successo?
Incoraggiati dalla psicanalisi, abbiamo finito per farci carico, assieme ai nostri desideri sessuali, della nostra parte di animalità. Ma al tempo stesso siamo andati via via scoprendo, alla scuola di La Fontaine e Buffon, la parte di umanità che connota migliaia di specie in via di estinzione per lo sfruttamento a cui sottoponiamo la terra. Il loro “silenzio” ce le fa apparire molto più misteriose di noi. Si cerca di sapere ciò che pensano e sentono, e ogni giorno si scoprono loro capacità nuove. Ormai solo le celebrità della nostra specie ci interessano quanto loro. Oggi sono soprattutto i film consacrati a farci il ritratto di pinguini, tartarughe, formiche e squali.
Quali sono per lei i ritratti più belli della sua antologia?
Nel campo del romanzo, il Vautrin di Balzac e il Charlus di Proust: due personaggi che non smettono di evolvere, di amorfizzarsi per meglio dissimulare una omosessualità palese. In campo storico, il Francesco I dell’ambasciatore veneziano Cavalli, il Mirabeau di Chateaubriand, il Pétain di De Gaulle. Per l’autoritratto, quello di Proust a 17 anni, un capolavoro di atroce lucidità. Ma anche quelli di Madame du Deffand e di Benjamin Costant –mascherato da Adolphe- sono magnifici.
Benedetta Craveri