Belli. Il Papa. “La scerta der papa”, 22 dicembre 1834. Un lavoratore manuale può diventare papa?

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Figura e immagine del Papa. “La scerta der papa”,  22 dicembre 1834. 

Roma è la città del Papa, del Vice-Dio. Scrivono i critici, sulla scia del nostro poeta, “che Dio stesso non si può concepire che come un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo prendersi gioco di loro, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio”. La crocifissione di Gesù non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso delle differenti e incolmabili condizioni sociali. La Città del Papa, col caravanserraglio delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo. La Città del Papa è nata sulla città di Romolo e Remo, dell’odio fratricida. Resta la capitale di un “mondaccio” su cui grava il peccato di Caino, che ha protestato invano contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio e l’ultra-raccomandato. Nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di alimentarsi; si è disuguali anche di fronte alla religione, il peccato dei poveri vale poco nel mercato delle indulgenze. E se mai si può pensare di uscire da questa città e da questo mondo, si troverebbe moltiplicata all’infinito la nostra storia sacra e profana. E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere”.

Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile.

E’ chiaro alla coscienza del nostro poeta che l’inattuabilità del progresso a Roma è dovuta all’onnipotenza del papa, il proconsole di Dio. E in tanti modi sono spiegati i simboli e le forme di questo immenso potere vòlto all’oppressione dell’uomo. Il sostantivo “papa” è in assoluto la parola più citata nei sonetti belliani, a rimarcare l’ossessiva presenza del Vicario di Cristo. Nella sua doppia natura di capo spirituale e politico, o –se si vuole- di capo politico in quanto spirituale, egli dovrebbe essere l’uomo più impegnato e sollecito a risolvere il problema della divisione in classi e dell’ingiustizia: invece è sempre uguale a se stesso, eterno e immutabile, chiuso nel suo sovrano disinteresse per l’umanità dolente, teso solo a realizzare il suo sogno di potenza. In margine al sonetto, “Cosa fa er papa?”, Belli scrive una nota che dovrebbe far accettare la scoperta eterodossia dei suoi versi all’eventuale opinione pubblica: “Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ Il luogo mio, il luogo mio che vaca / Nella presenza del Figliuol di Dio”, stendendo una cortina fumogena e nascondendosi dietro il severo giudizio di Dante.

A un sovrano di questo tipo quali sudditi possono corrispondere? Se lo scandalo irrimediabile è nella testa del corpo sociale, come meravigliarsi se poi nel popolo trionfano l’indolenza e l’apatia? Il papa proiettandosi nell’aldilà dà al Belli l’idea di Dio, il popolano romano proiettandosi nella storia diventa Caino, l’infelicità umana proiettandosi nell’eternità diventa l’ossessione dell’inferno. Non sarà una casualità inspiegabile ma lo Stato del Papa vedrà nascere nei suoi confini, nello stesso decennio, Belli e Leopardi, rappresentanti importantissimi, anche se diversi tra loro, del pessimismo di estrazione post-illuministica del XIX° secolo.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

Gennaro  Cucciniello

 

“La scerta der papa” 22 dicembre 1834

Sò ffornaciaro, sì, sò ffornaciaro,

sò un cazzaccio, sò un tufo, sò un cojone:

ma la raggione la capisco a pparo

de chiunque sa intenne la ragione. |4

 

Scejenno un Papa, sor dottor mio caro,

drent’a ‘na settantina de perzone,

e manco sempre tante, è caso raro

che ss’azzecchino in lui qualità bone. |8

 

Perché ss’ha da creà ssempre un de lòro?

Perché oggni tanto nun ze fa ffilice

un brav’omo che attenne ar zu’ lavoro? |11

 

Mettémo caso: io sto abbottanno er vetro?

Entra un Eminentissimo e me dice:

sor Titta, è Ppapa lei: vienghi a Ssan Pietro.

 

                                                           La scelta del Papa

Sono un fabbricatore di vetri, sì, sono un fornaciaio, sono un cazzaccio, sono uno stolidone, sono un coglione: ma la ragione la capisco come chiunque è capace di ragionare. Scegliendo un papa, caro il mio dottore che sputa sentenze, dentro una settantina di persone, e che non sono tante, è raro che possano trovarsi in lui buone qualità. Perché dev’essere scelto sempre fra i cardinali? Perché ogni tanto non si fa felice un brav’uomo che attende al suo lavoro? Supponiamo: io sto gonfiando il vetro? Entra in bottega un Eminentissimo e mi dice: signor Giambattista, è papa lei: venga a San Pietro.

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

L’architettura del testo è calcolata per sovvertire l’ordine consueto del sonetto. La prima strofa inquadra la situazione: siamo nel laboratorio di un vetraio e il protagonista, un arrabbiato artigiano, esplode in un’invettiva che non è un insulto al mondo ma un’orgogliosa rivendicazione di razionalità, si potrebbe dire illuministica. La seconda terzina (vv. 12-14) sembra quasi creare la realtà conseguente: il lavoratore è tutto intento ad “abbottare” il suo vetro, entra nella bottega un cardinalone, il miracolo si compie e la rima “vetro-Ssan Pietro” lo codifica. La seconda quartina (vv. 5-8) pone il problema in termini probabilistici: se la scelta avviene in un consesso ristretto, “drent’a ‘na settantina de perzone / e manco sempre tante”, è normale che il prescelto possa non essere il migliore. Stavolta l’artigiano discute con coraggioso ardimento con un interlocutore non definito, è solo un “sor dottor mio caro”. La prima terzina (vv. 9-11) ipotizza la via di fuga, una soluzione che esalta il lavoro come la suprema dignità dell’uomo e che sembra propugnare, in una visione utopistica, l’abolizione delle classi sociali. Anche questa volta la rima accompagna il contenuto con una formidabile antitesi: “ssempre un de lòro?/no!  un brav’omo che attenne ar zu’ lavoro?”. Quindi la metrica non costruisce una regolarità ripetitiva che modella il flusso verbale in un corpo solido ma delinea un percorso sinuoso, adatto a prefigurare un’ipotesi tanto ardita e sovversiva. Così, alla sinistra figura di un papa bersagliato dal Belli in una serie lunghissima di componimenti si contrappone questa figura di lavoratore umile e onesto ma orgoglioso e consapevole. La scena è di una sorprendente freschezza soprattutto se si pensa al quadro consueto che il poeta spesso ci propina: una Roma formicolante di truffatori e prostitute, osti e monsignori, vecchie devote e servitori, un grande ventre, città di passione e di disincanto, tramata in più da una noia che produce indifferenza e disattenzione. Bella nei monumenti, brutta ad altezza d’uomo.

Qui il suo sorriso è velato di agrume e sembra ricordarci una fulminante battuta del “fool” del “Re Lear”: “la verità è un cane da mandare a cuccia a frustate”. Si è abituato a usare la finzione letteraria per dire l’indicibile e colmare le lacune del reale, per scavare più a fondo nelle zone d’ombra della realtà e nei sentimenti dei personaggi.

Qualche giorno prima, il 18 dicembre 1834, Belli aveva scritto, sempre sul tema della figura papale, “L’elezzione nova” (v. analisi in questo stesso Portale). Il giorno seguente, il 23 dicembre, scrive ancora un testo sull’ingiustizia sociale:

 “La carità cristiana”

Ah, è carità cristiana avé scusato

Un vassallo fijol d’una puttana,

c’ha ttante zelle da mannà in funtana

quante so ttroppe pe morì impiccato? |4

 

Perché? Perch’è de nobbirtà romana?

Perché ttiè le carzette da prelato?

Perch’è ricco e ppò dà? Servo obbrigato

De la siggnora carità cristiana. |8

 

Ecco da che ne nasce c’a sto monno

Nun ze trova ppiù un parmo de pulito.

Perché la verità sse manna a ffonno. |11

Sta lègge Iddio nun ha ppotuto falla.

Iddio, sor bon cristiano ariverito,

vò che la verità stii sempre a galla. |14

 

Ah, è carità cristiana aver scusato un furfante figlio di puttana, uno che ha tante sozzure da mandare a lavare in fontana, quante ne basterebbero anche di meno per andare sulla forca? Perché? Per quale ragione? Perché è un nobile romano? Perché ha le calze da prelato? Perché è ricco e può fare qualche elemosina? Servo obbligato della signora carità cristiana. Ecco da che cosa nasce che a questo mondo non si trova più un palmo di pulito. Perché la verità viene mandata a fondo. Questa legge Dio non ha potuto farla. Dio, caro il mio signor buon cristiano riverito, vuole che la verità stia sempre a galla.

Gennaro  Cucciniello