L’Italia, nel 1450, fu alle soglie di una rivoluzione industriale?
Questa interessantissima analisi è un capitolo del saggio che Fernand Braudel scrisse, per l’edizione einaudiana della “Storia d’Italia”, “Dalla caduta dell’impero romano al secolo XVIII”, “L’Italia fuori d’Italia”, tomo II, pp. 2114-2116, Torino, 1974. Richiamo la suggestione di Braudel all’interno del dibattito stimolato dall’edizione del volume di Laterza, “Storia mondiale dell’Italia”, a cura di Andrea Giardina, novembre 2017.
Già Le Goff tempo fa aveva scritto che l’Italia medievale era stata al centro di un mondo in cui la cristianità era solo una parte, e che una delle sue originalità era stata proprio quella di essere alla cerniera di tre mondi: il cristiano latino, il cristiano greco e il musulmano. La frontiera fra questi tre mondi per lungo tempo è passata attraverso l’Italia. Così un’immagine completa dell’Italia medievale si poteva ottenere assumendo il punto di vista di Costantinopoli, di Damasco, di Tunisi, di Cordova. Ora, intorno al 1450, “l’universo dominato dalle economie e dalle intelligenze italiane è costituito dall’Europa, nel senso lato del termine, e in più dal Mediterraneo. Questo mare, nei suoi vasti spazi acquei, è sotto il controllo della ristretta penisola che lo taglia in due per dominarlo meglio, come se la geografia compiacente fosse al diretto servizio della sua grandezza, con tre civiltà soggiogate: Bisanzio, sfruttata fino all’osso; l’Islam, tenuto nelle sue coste, e talvolta attraversato; l’Occidente, inesauribile fortuna per l’Italia” (pp. 2101-2109).
Gennaro Cucciniello
Non dobbiamo certo entrare nei particolari né studiare i prodromi della crisi delle città-Stato italiane, le loro lotte fratricide, le trasformazioni a catena che le accompagnano. In questo primo Quattrocento siamo magari lontani dagli splendori del primo Trecento, ma il problema consiste nel vedere se l’Italia, quale è venuta formandosi, rimane il primo paese nell’imperfetto concerto europeo, il che è indubbio agli occhi di un economista, e se nel suo insieme essa procede e si sviluppa, fatto egualmente molto probabile.
In realtà, tutte le sue lotte, le sue trasformazioni –come avviene nelle reazioni chimiche- sono possibili soltanto con un dispendio di calore e di energia. In questo caso altresì anche se le prove precise di tale affermazione non sono a nostra disposizione, si è trattato –evidentemente- di un restauro, di un riassestamento della casa, di un rafforzamento dei suoi poli di sviluppo, le sue città, che sono enormi per quel tempo: Firenze, Genova, Venezia, Milano, Napoli. Certo, le loro guerre non sono sempre puro spettacolo o semplice insulto verbale; ma le armi da fuoco ancora non esistono. Una città viene presa o mediante un lungo assedio, che affama i suoi difensori, o per mezzo di un’astuzia, o per tradimento: basta che una delle porte venga sorpresa o consegnata. I condottieri sono veri e propri imprenditori di guerre sapientemente organizzate, di rado sanguinose. Qualche cavallo che fugge o che insegue un veloce avversario, alcune campagne che vengono arse o che si minaccia di ardere… Gian Galeazzo Visconti si lamentava (sarà stato sincero?) che la penna di Coluccio Salutati –l’umanista cancelliere della repubblica fiorentina, ardente polemista della seconda metà del Trecento- gli avesse nociuto più di trenta squadroni fiorentini. Insomma, quello che oggi chiameremmo “droles de guerre”. E retrospettivamente ce ne rallegriamo.
Del resto, che questa Italia sia in piena ascesa o ripresa di attività, in via di prendersi il vantaggio necessario alla sua grandezza, è inequivocabilmente stabilito dalle ricerche attuali degli storici. Per Renato Zangheri, fra il 1400 e il 1450 l’Italia ha addirittura sfiorato la rivoluzione industriale, e in ogni caso si è avviata in questa direzione (“Agricoltura e sviluppo del capitalismo”, in “Studi storici”, IX, 1968, pp. 531-563). In effetti una sorta di rivoluzione agricola si è compiuta, soprattutto in Lombardia, con lo sviluppo dei foraggi artificiali, dei prati irrigui, di nuove colture (il riso, il gelso), con un progresso decisivo dell’allevamento. A Milano e altrove, soprattutto a Firenze, si concentrano enormi masse artigianali qualificate (enormi per il tempo, beninteso). Fra il 1300 e il 1500 Milano e la Lombardia danno l’impressione di un destino a parte, che sfugge alle contemporanee regressioni europee: “c’è il senso di un’intensa attività costruttrice e rinnovatrice”, afferma C. M. Cipolla (“L’economia milanese alla metà del sec. XIV”, in “Storia di Milano”, Fondazione Treccani, v. VIII, p. 347)).
D’altra parte, in questi anni in cui si sviluppano e si dispiegano le avventure portoghesi e le imprese di Enrico il Navigatore, un intenso traffico di navi italiane moltiplica i servizi regolari. E’ questa una delle maggiori rivelazioni offerte dall’Archivio Datini, di cui è nota la fantastica ricchezza. Fra il 1394 e il 1407, per esempio, la nave di Polo Italiano compie quindici volte il viaggio fra Genova e Bruges e cinque viaggi nel Mediterraneo, una volta arrivando fino a Chio, da dove riparte per Bruges. E questo è solo un esempio fra tanti. Questi trasporti si moltiplicano e si fanno regolari, aprendo il ventaglio dei noli, le merci pagando ora a seconda del loro valore: questo consente il trasporto su lunghe distanze delle merci più voluminose e meno care, relativamente: grano, sale, legname, lana, cuoiami, ecc. E’ “la rivoluzione dei trasporti”, come rileva Federigo Melis. L’Italia popola allora i mari di grandi imbarcazioni: le caracche genovesi arrivano a 1200-1500 tonnellate, che è senza dubbio il limite non superabile nella costruzione di navi in legno: ancora nel sec. XVIII gli Indiamen inglesi, che raggiungono la Cina, non supereranno quasi tale tonnellaggio, che nel Quattrocento sembra colossale. Il giorno di San Martino del 1495 due di queste navi genovesi, alte come case, sono a Baia, vicino a Napoli, mentre i francesi sgombrano in fretta la capitale: secondo Commynes esse da sole avrebbero potuto rovesciare la situazione purché avessero mandato a terra i loro equipaggi, “perché bastavano le due navi per recuperare per il momento la città di Napoli”. Ma purtroppo per i francesi, esse non si arrischiarono nell’impresa.
Tuttavia la rivoluzione industriale non è avvenuta nell’Italia del sec. XV: ciò che mancò fu solo un numero sufficiente di uomini, oppure –come altri pensa- un mercato nazionale? E ancora, sarebbe stato necessario che l’unità della penisola venisse compiuta, magari a vantaggio di Milano, e ad esempio che Filippo Maria Visconti (1392-1447) riuscisse vincitore nel corso della sua profonda spinta verso l’Italia centrale. Perciò, retrospettivamente, si dovrebbe condannare la reazione repubblicana di Firenze, in generale ben vista dagli storici. Sia pure: ma l’Italia unita e anche in grado di resistere –supponiamo- al gigantismo politico dei suoi vicini, sarebbe stata in grado di sviluppare le nuove strutture di una rivoluzione industriale tanto tempo prima di quella inglese?
Non è facile rispondere brevemente a tale domanda, quantunque primordiale, che pone il problema della natura stessa della rivoluzione industriale; mi sembra però che questa implichi un insieme di condizioni che l’Italia non aveva allora a propria disposizione. Nondimeno, che si sia potuto evocare tale prospettiva, rivela di per sé la forza precoce dell’Italia e la profondità della crisi che ha vissuto durante la prima metà del sec. XV. Dappertutto va dileguandosi una storia comunale e signorile, sviluppatasi, nonostante tutto, sotto il segno di una certa libertà, di certe forme di vita limitate a un ambito ristretto, di una civiltà che scendeva fino al libero gioco delle arti e delle corporazioni. Parlare di una cultura antica, popolare, è forse dire troppo: ma ciò che ad essa seguirà sarà interamente aristocratico, principesco, avulso dall’antico quadro.
Fernand Braudel