Caro Tom Wolfe, ma quali radical chic?
In un’intervista pubblicata su “Repubblica” lo scrittore americano rivendicava la sua definizione di “ricchi di sinistra che hanno tradito il popolo”. Ma cosa fanno invece i ricchi di destra?
In questo articolo, uscito nel quotidiano “la Repubblica” di venerdì 5 gennaio 2018, Michele Serra risponde alle osservazioni di Tom Wolfe, pubblicate sempre su “Repubblica” il 2 gennaio: un atto d’accusa dello scrittore Usa contro i “progressisti al caviale” che avrebbero spianato la strada a Trump: “Una sinistra che adora l’arte contemporanea, si identifica in cause esotiche ma disprezza i bifolchi dell’Ohio”.
Nella bella intervista di Alexandre Devecchio, pubblicata qualche giorno fa su questo giornale, lo scrittore americano Tom Wolfe –icona del dandismo conservatore e acuto osservatore dei nostri tempi- ha buon gioco nella riproposizione, sempre brillante anche se un po’ ripetitiva, del suo fortunato anatema socio-satirico, quello sui radical chic. Il precedente è arcinoto. Wolfe coniò il termine quasi mezzo secolo fa (1970), in occasione di una festa, molto ben frequentata, che il grande compositore ebreo newyorchese Leonard Bernstein (quello, tra l’altro, di West Side Story) diede per raccogliere fondi in favore delle Pantere Nere, movimento marxista e terzomondista piuttosto tipico di quei tempi infiammati. Ricchi di sinistra, racconta Wolfe, che “offrono champagne a quelli che li impiccheranno”. Non li impiccarono poi (furono piuttosto parecchi leader e militanti di quei movimenti a finire male, tra galera, droghe, rapine “politiche” e derive di vario genere). Ma rimasero impiccati, Bernstein e i suoi amici artisti e intellettuali, alla spietata definizione di Wolfe.
Il termine perse con il tempo ogni specifica mira contro le ristrette cerchie di ottimo censo e di facile radicalismo, per diventare generico dileggio di qualunque posizione politica che risulti irritante per il pensiero reazionario. Nella vulgata di destra è diventato “radical chic” tutto ciò che odora di solidarismo (è per lavarsi la coscienza!) o di amore per la cultura (è per umiliare la gente semplice!) e ovviamente di critica del populismo (è disprezzo per il popolo!). Più in generale, il termine è semplicemente perfetto per ridurre quel vasto e disorientato mondo detto “sinistra occidentale” a una ipocrita cricca di potenti con la puzza sotto il naso che hanno perduto ogni rapporto con “il popolo”.
Lo hanno perduto? Quantitativamente non del tutto, se è vero che Hillary Clinton ha avuto due milioni di voti più di Trump (ma non erano cinque?, ndr). Non solo il voto dei professori di Harvard, delle lesbiche del Village e degli amanti dell’arte contemporanea, dunque: come, forse per sua comodità dialettica, sembra pensare Tom Wolfe. Qualitativamente invece, sì, quel rapporto appare profondamente compromesso: quanto basta a Wolfe per dire, avendo ragione, che i rednecks dell’Ohio (ovvero i bifolchi) non si sentono minimamente rappresentati dal partito democratico, e con essi quasi l’intera working class (la classe operaia) degli Usa, specie quella bianca, dunque esclusa dalle premure dei radical chic per le minoranze. La questione è nota e gigantesca, e non occorre qui tentare il (vano) riassunto di tutti i deficit di linguaggio, di identità e soprattutto di progetto che minacciano di affondare la sinistra occidentale. Importa, però, arricchire il dibattito di un ulteriore elemento, che a me sembra determinante, eppure è costantemente omesso.
L’elemento, ridotto all’osso, è questo: ammesso e concesso che i liberal, per i bifolchi dell’Ohio, abbiano fatto poco e male, che cosa fa, per i bifolchi dell’Ohio, Tom Wolfe? Ho la presunzione di conoscere la risposta: non fa assolutamente niente, e non perché sia malvagio o distratto, ma perché per la destra –quella vera (quella scettica sulla natura umana, e sui destini della società)- le condizioni del popolo non costituiscono un problema di speciale urgenza. Il popolo, alla destra, va benissimo così com’è. Che il bifolco dell’Ohio sia un derelitto sovrappeso che mangia porcate, che sappia poco o niente del mondo, che il suo livello di istruzione sia infimo e il suo reddito scarso, infine che abbia votato per un presidente che cercherà di levargli anche quel poco di assistenza sanitaria che Obama gli aveva concesso, non è cosa che possa turbare un grande reazionario come Wolfe. I suoi vestiti bianchi, le sue ghette, la sua cultura, la sua deliziosa divertita albagia non ne risultano intaccati. Lui, a differenza di Bernstein, non è gravato dai sensi di colpa del ricco di sinistra: perché, fortunato lui, è un ricco di destra.
Se la sinistra patisce la “questione popolare” è per una ragione fondante: perché l’eresia marxista (parente nemmeno troppo lontana dall’eresia evangelica) fu costruita sul concetto che “gli ultimi saranno i primi”, idea sconsiderata e vaniloquente quanto si vuole, ma articolata –nei secoli- in una serie poderosa di attività organizzative, scuole, sindacati, partiti, società di mutuo soccorso, che avevano tutte, ma proprio tutte, lo scopo di “cambiare il popolo”. Cambiarlo! Migliorarne non solamente lo stato economico, ma anche la cultura, la dignità, la coscienza di sé, perché il popolo avrebbe dovuto diventare classe dirigente. Che questa intenzione virtuosa, infarcita di buona volontà e di pedagogismo ( e di radical chic come le dame fabiane che nell’Inghilterra di fine Ottocento assistevano i poveri e i carcerati) abbia assunto forme irritanti o patetiche, fallimentari o ridicole –perfino un cocktail di beneficenza nell’attico di Bernstein a Manhattan- è fuori di dubbio. Se a Tom Wolfe e ai suoi lettori fa piacere –e sicuramente gliene fa- possiamo anche aggiungere che quel tentativo è stato sconfitto, e le condizioni immutate del bifolco dell’Ohio ne sono la lampante dimostrazione: di più, il bifolco dell’Ohio avrà la consolazione (che il populismo gli concede volentieri, in cambio del suo voto) di sentirsi, lui sì, un vero americano e un bravo patriota, a differenza dei dem che, come è noto, sono tutti banchieri sfruttatori o professori ebrei sputasentenze.
Serve ribadire che il bifolco dell’Ohio non è una novità, non è il prodotto guasto dello snobismo dell’establishment dem. Il bifolco dell’Ohio, nei secoli, è una permanenza, una condizione di partenza, un grado zero della libertà di giudizio e di scelta; in sostanza, è un servo del caso, non un artefice del proprio destino.
Se si è di destra questa permanenza viene vissuta, con pieno diritto, come lo stato naturale delle cose: c’è poca gente in gamba che ce la fa, il resto è solo massa anonima, e va lasciata in pace.
Se no, ci si espone al tragico errore (il comunismo) o al ridicolo (la raccolta di fondi per quelli che ti impiccheranno) o più comunemente al sentimento dell’impotenza e della sconfitta, come tantissimi di sinistra, nel mondo. Il rischio è di una sola parte, quella che voleva, ed è un azzardo quasi pazzesco, cambiare l’uomo. La destra vince, in questo momento, perché non rischia un bel niente. Le basta, per tener buono il bifolco dell’Ohio, deridere i radical chic.
Michele Serra