Storia universale delle teste mozzate
Quella di Cromwell sepolta in un luogo imprecisato. L’età della ghigliottinan democratica. Fino agli orrori dell’Isis. I misteri di un rito antichissimo raccontati da un’antropologa inglese.
L’Isis, nella sua campagna di spettacolarizzazione mediatica, privilegia la morte del prigioniero per sgozzamento. Conta sull’effetto di sgomento e terrore generato nel sensibile Occidente dalla pratica efferata. Ora una giovane, mite, graziosa antropologa inglese, Frances Larson, ci ricorda, in un saggio di trecento pagine non privo di effetti splatter, che la civiltà occidentale non ha mai disdegnato l’esercizio della decollazione (“Teste mozze. Storie di decapitazioni, reliquie, trofei, souvenir e crani illustri”, tradotto da Luca Fusari per la Utet).
L’esposizione della testa del nemico –anche solo politico- vanta, nella storia dell’Occidente, e non solo nel suo immaginario- una tradizione. Il saggio della Frances si apre con la vicenda di Oliver Cromwell, che “rivela un aspetto poco noto del tessuto culturale che ci appartiene”. Nel 1661 il corpo imbalsamato del Lord Protettore, rivoluzionario fondatore della repubblica inglese, fu riesumato e sottoposto al rituale dell’esecuzione postuma. La Restaurazione monarchica volle esporre la sua testa perché tutti la vedessero e, infilzandola su un’asta lunga sei metri, fu innalzata sul tetto di Westminster, dove rimase per quarant’anni. Strappata da una tempesta, ricompare in un museo; nel Settecento diventò un cimelio per improbabili impresari che la mostravano a fini di lucro in teatrini improvvisati. Nel 1813 l’eminente naturalista Joseph Banks, che aveva partecipato al primo viaggio in Australia del capitano Cook, fu pregato di esaminare la testa, per evitarne il deterioramento; ma si rifiutò di lavorare sul “vecchio Scellerato Repubblicano”, che gli faceva ribollire il sangue. Intanto fu fatto divieto di esporre quella reliquia di una guerra civile; fu allora acquisita dalla famiglia Wilkinson; una foto ritrae ancora nel 1949 un suo membro che la inalbera. Solo nel 1960 la testa è stata seppellita, in un luogo segreto del Sidney Sussex College di Cambridge; i turisti vengono a meditare su una targa, che ricorda che “nelle vicinanze è sepolta la testa di Oliver Cromwell, ex Commoner di questo College”.
A lungo la decapitazione era stata nella nostra civiltà un privilegio per aristocratici. Il filantropo Guillotin, proponendo l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla pena capitale, suscitò l’irritazione del boia di Parigi Sanson: come si sarebbe comportato un popolano? Sarebbe stato “indispensabile tener fermo il condannato, per tagliar corto con le lungaggini”. Madame Toussaud raccontava di assistere alle esecuzioni rivoluzionarie al fine di operare il calco delle teste giustiziate per il suo museo delle cere, e di essere accorsa a realizzare le maschere mortuarie –indifferentemente- di Robespierre, di Luigi XVI e di Maria Antonietta.
La decapitazione, peraltro, osserva la saggista “ha goduto di un’attrattiva quasi erotica”. Colette ad esempio ne era affascinata, e sognava un balletto –mai realizzato- in cui danza una regina senza testa. Colette era una ballerina di irresistibile grazia (quanta roba, per sembrare nuda, commentava una nipote, sorvegliando le tute rosa portate in scena dalla scrittrice); e il progetto era un’evidente eco della leggenda biblica di Salomé e della sua danza dei sette veli –affascinato, il patrigno Erode offre alla fanciulla la testa di Giovanni Battista, richiesta da Erodiade, la madre di Salomé. Secondo la filosofa Julia Kristeva, Colette, che ha anche scritto il giallo “La donna decapitata” (in Italia, da Sellerio), intende decollare miticamente, con la regina ballerina, la madre Sido. Anche il poeta Mallarmé aveva rappresentato, in un sonetto dal ritmo martellante, la danza che fa coincidere amore e morte, intelligenza e sesso, “i piaceri che alla leggera chiamiamo fisici”. Anche nella vicenda di Giuditta la donna sorprende e liquida l’assiro Oloferne, e ne porta la testa tagliata in trofeo ai suoi; vedendola, l’esercito assiro fugge terrorizzato. Nel più vicino 1944 una copertina di Life mostrava una ragazza, Nattalie Nickerson, che guarda trasognata il teschio di un soldato giapponese, firmato da 12 commilitoni, che il fidanzato di stanza nel Pacifico le ha inviato in dono.
La leggenda nera del cranio del marchese de Sade –reliquia blasfema che sembra ancora ridere sotto le orbite cave- ha ispirato nel 1965 il film Il cranio maledetto di Freddie Francis, a sua volta basato su una novella di Robert Bloch. Più di recente, lo svizzero Chessex dedica un romanzo –a lungo proibito in patria, la Svizzera- all’Ultimo cranio del marchese de Sade (Fazi). Ma qui, il truculento erotismo non è invenzione, è storia: da quattro anni il divino avventuriero riposa nel parco di Charenton; è il 1818, il giardino è sottoposto a una vasta risistemazione. Ne approfitta un giovane aiuto-medico, il dottor Ramon, che ha conosciuto Sade e non lo ha dimenticato, e che approfitta dell’esumazione per impossessarsi del suo cranio. La frenologia è alla moda; Ramon è un allievo del dottor Gall, che invade l’Europa con la teoria che ci sia un legame tra la morfologia del cranio e la personalità. Il giovane dottore studia il suo tesoro, la vasta volta cranica e decreta che denota “benevolenza, nessuna combattività, pochi eccessi d’amore fisico: il cranio potrebbe essere quello di un Padre della Chiesa”. Ma la fama sulfurea di Sade non demorde: un Lapoujade, che accompagna in un giro di conferenze nel mondo il mitico cranio (o una delle sue tante copie), è affetto da impotenza: beve un pezzetto di cranio polverizzato e, dice la leggenda, la sua amante muore nella notte per eccessi amorosi.
L’epoca in cui si afferma in Europa il collezionismo –e quindi il mercato- delle teste cotte è a cavallo del Novecento. Fanno sensazione nei musei le tsantsas, le teste rimpicciolite per scavo e ebollizione (fino a renderle grandi come un pugno) dagli shuar, i cacciatori di teste della foresta tropicale delle Ande e dell’Amazzonia. Tra le teste a grandezza naturale dei maori della Nuova Zelanda si preferivano quelle tatuate con spirali e ricami. Il collezionista Horatio Robley si immortala in foto nel 1895, circonfuso di toi moko maori. “Era tipico di tante culture, e anche della nostra –dichiara la Larson- esibire le teste dei nemici”: come i cospiratori della Congiura delle polveri, impalate a Londra nel 1606. E’ del 1981 la foto-installazione dell’artista Damien Hirst a sedici anni, che ride, come per uno scherzo adolescenziale, accanto a una grossa testa tagliata, sul tavolo di un obitorio. Da allora, complice l’arte dell’epoca dell’Aids, siamo invasi dall’icona del teschio, a memento che l’amore sconfina; e sempre comporta la dimenticanza di sé –la piccola morte.
Daria Galateria
(L’articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 25 marzo 2016, alle pagine 98-100).