L’alcol è l’oppio dei popoli
Dalla conquista del Nuovo Mondo alle battaglie di Washington: la storia, senza liquori, avrebbe preso un’altra direzione.
Nel “Robinson di Repubblica” di domenica 15 aprile 2018, a pag. 20, Marco Bracconi intervista Claudio Ferlan, ricercatore dell’Istituto storico italo-germanico della Fondazione Kessler di Trento, autore del saggio, “Sbornie sacre e sbornie profane. L’ubriachezza dal Vecchio al Nuovo Mondo”, il Mulino, 169 pp, 15 euro.
Perché Tex Willer odiava i contrabbandieri di whisky? E come può una tazza di chica pagana avere lo stesso significato di una Bibbia? Un filo rosso, ma anche bianco, ambrato, colore del sidro o dell’acquavite, collega le due sponde dell’Atlantico, e ci dice che l’alcol e la sua ebbrezza sono intrecciate come gemelle siamesi al corso della Storia. “Sbornie sacre, sbornie profane” di Claudio Ferlan, in uscita in questi giorni per Il Mulino, ci conduce in un viaggio etilico e documentatissimo nei secoli della scoperta e della colonizzazione del Nuovo Mondo, quando l’incontro-scontro tra culture trova nel consumo di alcolici (e nei suoi effetti) un formidabile terreno per stabilire le nuove gerarchie e le relative organizzazioni sociali. “A seconda del lato dell’Oceano da cui la si guarda, da quello indigeno o da quello europeo, l’ubriachezza è strumento di propaganda, rito collettivo, arma scagliata contro il nemico, pratica di divinazione, dispositivo di controllo, termometro morale”, spiega l’autore, confermando la tesi di fondo del saggio: l’ebbrezza non è una comprimaria della vicenda umana, anzi ne segna alcuni snodi per niente secondari.
L’alcol come strumento di potere, dunque?
Sì, da declinarsi in tre modalità. Quella dove l’alcol è sacro e asseconda il potere religioso, quella giuridica che decide limiti e punizioni per il consumo, e infine l’ambito politico, quando è arma per soggiogare l’antagonista.
Un aspetto di sacralità c’è sia nella prima cultura cristiana che in quella del Nuovo Mondo. Poi prevale il nesso ubriachezza-peccato.
Accade quando il Cristianesimo si accorge che dare troppo spazio alle abitudini alcoliche rimandava a comportamenti pre-cristiani. Agli occhi del cristianesimo il vino consumato in eccesso rievocava consuetudini pagane.
E’ così che il concetto di sobrietà assume connotati etico-religiosi?
In parte sì. Per i cristiani il vino è sacro finché il consumo non esce dai limiti della sobrietà. Quando viene superato si ricade nel paganesimo. I perimetri di liceità, punibilità, riprovazione e tolleranza nei secoli successivi si tracciano qui.
E quando l’Europa arriva nel Nuovo Mondo il lodo ebbrezza-peccato diventa narrazione dominante. Eppure noi ci sbronzavamo alla grande.
Questo è un punto chiave. E’ un atteggiamento che fa parte della cultura della “conquista spirituale” dei popoli autoctoni. Chi arriva, colonizzatore o missionario, si pone come chi ne sa di più di chi trova sul posto: io so cosa, come, quanto e quando si beve, mentre tu selvaggio che ti sbronzi di chicha o di pulque non lo sai. Così ti impongo il mio codice di sobrietà o di ubriachezza.
Secondo lei c’entra anche la Riforma?
Assolutamente. Il nesso tra ebbrezza e peccaminosità si rafforza perché rinvia anche alle accuse rivolte da Roma a Lutero, additato come un ossessivo bevitore di birra. Anche l’iconografia dell’epoca lo dice chiaramente, quando ritrae il teologo tedesco con la pancia a forma di botte.
Torniamo all’incontro-scontro col Nuovo Mondo. Cosa distingue, nel fondo, i due codici?
La differenza sta proprio nel concetto di ubriachezza. Per l’occidentale è “quanto” si beve, per le popolazioni indigene è “quando” si beve. Per queste, in determinati momenti religiosi o sociali, è lecito e talvolta prescritto il bere fino alla devastazione. E’ così che ci si rapporta con la divinità e si ribaltano le gerarchie, come in un carnevale; per noi ciò che conta è dove fissare ogni giorno l’asticella che separa il bere dall’ebbrezza (e dunque dal peccato).
E le donne?
La sbronza delle donne indigene spesso viene circoscritta in spazi fisici diversi. Se guardiamo invece alle occidentali sbarcate oltreoceano la differenza si amplia, pensiamo al divieto di ubriacarsi in pubblico. Per una donna sbronzarsi in un saloon o in una taverna equivaleva al giudizio di prostituzione.
Rieccoci al nodo ebbrezza-peccato, dove il peccato è sempre sessuale.
Sì, e questo è uno dei frutti della manipolazione, perché a questa narrazione usata dai missionari non sembrano corrispondere i fatti. L’automatismo della relazione ubriachezza-libertinaggio non era affatto così automatica.
Nel Settecento inoltrato il processo di conversione dei “selvaggi” è a buon punto e il codice occidentale gli è stato ormai imposto.
Qui si smentisce il detto “bere per dimenticare”. Al contrario, per gli appartenenti a quelle popolazioni, l’ubriachezza ormai individuale è spesso un modo per ricordare l’habitat rituale, religioso e sociale del quale sono stati privati.
Ubriachezza come riappropriazione della propria identità, dunque.
Un po’ come dire “bere mi consente di tornare ad essere quello che ero prima”. Prima che arrivassero i conquistatori.
Intanto certi conquistatori grazie all’alcol vengono eletti.
Già. La prima impresa elettorale di George Washington finisce malissimo, così nella seconda campagna offre agli elettori cicchetti in virtù di “incentivo”, chiamiamolo così. E stavolta vince.
Gli indiani d’America sono un caso a parte. Inca, Aztechi e altri popoli fermentavano da sempre mais e agave, loro non conoscevano l’ebbrezza alcolica.
Ecco, l’alcol è stato decisivo per la sottomissione degli indiani. Far ubriacare il nemico è una strategia bellica. Geronimo muore cadendo da cavallo, sbronzo.
Insomma, senza vino, chicha, pulque, grappe e acquaviti, la storia del mondo sarebbe stata un’altra.
Oh sì. Non sappiamo come sarebbe andata, ma sarebbe stata totalmente diversa.
Marco Bracconi Claudio Ferlan