William Shakespeare (1564-1616), “Sonetti”: camaleontico il suo “love”
Quando sarai propenso a svalutarmi
e metterai i miei meriti alla berlina,
combatterò dalla tua parte contro di me
e ti mostrerò giusto, benché tu sia spergiuro. 4
Sono così esperto della mia indegnità
che a tuo favore posso imbastire una storia
di colpe nascoste, di cui mi sarei macchiato,
sicché mollandomi acquisterai più gloria: 8
così facendo sarò anch’io vincitore,
perché i pensieri d’amore tanto ho inchinato a te
che le ferite che io provoco a me stesso
avvantaggiandoti, mi danno un doppio vantaggio. 12
Tale è il mio amore, ti appartengo al punto
che per darti ragione mi assumerò ogni torto. 14
When thou shalt be dispos’d set me light,
and place my merit in the eye of scorn,
upon thy side, against myself I’ll fight,
and prove thee virtuous, thought thou art forsworn: 4
whit mine own weakness being best acquainted,
upon thy part I can set down a story
of faults conceal’d, wherein I am attainted:
that thou in losing me, shalt win much glory: 8
and I by this will be a gainer too,
for bending all my loving thoughts on thee,
the injuries that to myself I do,
doing the vantage, double vantage me. 12
Such is my love, to thee I so belong,
that for thy right, myself will bear alla wrong. 14
dai “Sonnets, n. 88”, 1595-1605
Una grande delicatezza di cuore e di pensiero: l’innamorato sospetta che in un giorno non lontano colui che ama lo scaricherà, imbarazzato dalle chiacchiere del mondo –e che per rifarsi l’onore dovrà parlar male di lui, mettendolo in ridicolo. Ebbene, gli dice, sappi che in quel momento io sarò dalla tua parte; anzi, posso fare di più: siccome sono bravino a raccontare storie e conosco le mie debolezze, posso inventare su di me qualche calunnia che renda il tuo distacco inevitabile e ti faccia brillare di purezza. Mi darò addosso perché tu ne esca pulito, tutti i torti su di me per dimostrare alla gente che hai avuto ragione; che importa se soffrirò e se tu sarai venuto meno ai nostri giuramenti? E’ la stessa delicatezza, venata di masochismo,che in un altro sonetto lo spinge a dire al ragazzo “quando morirò non piangermi, non pronunciare nemmeno il mio nome, non dare adito ai pettegolezzi dei benpensanti; anzi, preferisco non essere più nei tuoi pensieri se il ricordo di me deve addolorarti”.
Finora ho parlato al maschile, anche se a rigor di termini il discorso potrebbe esser rivolto a una donna; e in effetti anche alla “dark lady” degli ultimi sonetti rinfaccia “come puoi dire che non ti amo, se contro me stesso prendo le tue parti?”. Sull’omosessualità o bisessualità di Shakespeare si è discusso fin troppo, la scarsità di notizie non aiuta; spesso con strane negazioni, del tipo che l’amicizia amorosa per lo “sweet boy” era solo platonica –come se omosessualità e platonismo non fossero legati da sempre. Il suo neoplatonismo nero, quell’ossessione confinante con l’idolatria devono essere sembrate assai imbarazzanti ai contemporanei, se l’editore del 1640 cercò di purgare i sonetti volgendo al femminile tutti i pronomi maschili. Eppure il sonetto 20 è chiaro: il “master-mistress” della sua passione è meglio di una donna, peccato che poi la Natura abbia aggiunto al suo corpo un ammennicolo che a lui, Shakespeare, non serve –quindi le donne si godano quello, a lui l’amore e alle donne “la fruizione”. Ma più che i particolari anatomici, mi pare decisiva la solitudine sociale a cui l’omosessualità è condannata; nel sonetto 49, che ha molti punti di contatto col nostro, dice “per lasciare il mio povero essere hai la forza delle leggi / e all’amore non posso allegare nessuna ragione”. Lo ha capito benissimo Pasolini, che proprio i sonetti shakespeariani deciderà di imitare quando nel 1971 si troverà in Inghilterra e dovrà affrontare davvero un abbandono; “io son senza”, scriverà, “alcun diritto nel consorzio civile / di pretendere che non mi diate dolore”.
Il guaio di Shakespeare è che è troppo bravo: noi che abbiamo in testa le parole della sua Giulietta, e del suo Jago e del suo Lear, sappiamo quanto sia diabolicamente camaleontico e come sappia rendere credibili i suoi “io” non autobiografici. Anche nei sonetti naturalmente il suo “io” è un personaggio, e la bravura è la stessa. Genialmente reinterpretando la forma metrica, ha capito che può essere il contenitore perfetto per la malafede amorosa; emotività e argomentazione si rinforzano a vicenda, i luoghi comuni del concettismo del ‘500 diventano carne e sangue. Qui per esempio il concetto, stra-abusato nel petrarchismo europeo, del “poiché siamo una cosa sola il tuo destino è il mio” risulta imbevuto di un’ironia straziante: il “double-vantage” (v. 12) è, pare, metafora tennistica, quel che bisogna conseguire quando il game finisce alla pari (o forse legata all’ambito della scherma, vedi “fight”) (v. 3). In lui le parole diventano subito scene concrete: questo faccia a faccia tra amato e amante (“io” e “tu”, nelle varie forme pronominali e possessive, ripetuti 25 volte in 14 versi) ha l’aria di un’arringa, o di una requisitoria giudiziaria –termini come “prove, upon thy part, faults, right” appartengono al linguaggio forense – “forsworn, attainted” piegano piuttosto verso il complotto. Se è il giudizio del mondo che ti fa paura, io leggo la nostra relazione come un processo o un alto tradimento. Ma “scorn”, v. 2, ci porta invece verso il biblico e l’evangelico, è la derisione a cui vengono sottoposti Giobbe e Cristo; “to bend” i pensieri d’amore, v. 10, è quasi costringerli a genuflettersi –chi si umilia sa di valere, religiosamente si sacrifica ma in fondo si sente maggiore dell’amato: “to lose”, v. 8, certo qui sta per “liberarsi, sbarazzarsi di”, ma conserva pur sempre il sottosenso di “perdere” –vinceremo entrambi, ma tu mi perdi. La struttura sintattica e quella logica inglobano l’inconscio in un’architettura precisa: il fitto intreccio di frasi causali, consecutive e concessive si dispone senza sforzo nel movimento in tre tempi (coincidente con le tre quartine) che potremmo schematizzare in “quando-anzi-eppure”, per chiudersi con l’”infatti” del distico finale.
Sentimenti delicati e contorti espressi con muscolosa eloquenza: forse i suoi sonetti non sono un vero canzoniere (come invece era di moda all’epoca, da Sidney a Drayton a Spenser), forse la loro disposizione non è quella voluta dall’autore –ma le peripezie di quel doppio amore, per un uomo e per una donna con inganni incrociati, sono degne della tragedia (o della commedia) che Shakespeare non ha mai scritto.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 13 luglio 2014, p. 52