Belli. Sonetti. “Er testamento der Pasqualino”. 6 aprile 1834

“Er testamento der Pasqualino”     6 aprile 1834

 

Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza (…) Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento”.

Quando Belli scrisse queste pagine introduttive aveva composto già 300 sonetti circa, sugli oltre duemila dell’intera sua produzione, custoditi segretamente, e aveva chiarito a se stesso il disegno, unitario ed organico, che era sotteso alla sua “Commedia romana”. Egli aveva individuato con grande precisione alcuni tra gli elementi più tipici della situazione storica e ideologica della Roma papalina: l’assenza quasi totale di ogni forma di coesione sociale, anche di un punto di vista linguistico (di qui l’inesistenza di un dialetto cittadino e di una tradizione vernacola scritta) che potesse essere per lui un punto di riferimento, come invece era accaduto per il Porta a Milano.

A Roma il governo dei papi aveva costretto gli intellettuali a tornare all’Arcadia e alle Accademie e faceva della città una sorta di culla delle dottrine morte: non a caso Leopardi, in una lettera da Roma al fratello Carlo del 16 dicembre 1822, aveva scritto: “qui l’Antiquaria è messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l’unico vero studio dell’uomo”.

Belli , nell’Introduzione, aveva annotato: “Voglio dare un’immagine fedele di cosa abbandonata senza miglioramento”. Roma era in una situazione senza alcuna prospettiva di sviluppo né politico né economico. Belli, scrive Asor Rosa, “porta così il popolo romano alla ribalta vera della storia: proprio perché non lo mitizza, non lo esalta, proprio perché non ne fa il figlio prediletto né della rivoluzione democratica (Mazzini) né della Provvidenza divina (Manzoni), riesce a darci –insieme al Porta- una visione della realtà in cui il popolo non è subalterno ma vive la sua vita in autonomia, è protagonista della storia. Ma quale storia poteva vivere il popolo? Se la storia è romanticamente progresso, incivilimento, perfettibilità, cultura, la storia del popolo non è storia: essa esprime infatti una immobilità senza speranza, una sofferenza diventata abitudine, una passività indifferente, un’oppressione accettata, una protesta destinata a restare sfogo, bestemmia, parolaccia. Questo popolo ci dice che la storia non si muove, è ferma. Nessuna speranza sopravvive”. Da quel suo fondo di istinto plebeo che tante volte esplode nell’insulto, nel sarcasmo, nella volgarità, sberleffo e volontà velleitaria di rottura delle norme di una società organizzata, nasce anche lo svuotamento delle funzioni delle sfere ufficiali e anche dei riti religiosi, ridotti tante volte a un ritmo di balletto, a una sorta di opera buffa, a un tragico presentimento di morte. Annota acutamente il Salinari: “Il suo è un qualunquismo della volontà che accompagna sempre il ribellismo dell’immaginazione”.

In una lettera del Belli a Francesco Spada dell’8 settembre 1838 il poeta definisce la sua città “una Romaccia, una galera”, la negazione vivente della possibilità stessa di esistere, o perlomeno la proiezione di una realtà talmente desolata in cui la vita si costruisce solo nei limiti di una elementare dimensione biologica. E in un’altra sua lettera al principe Placido Gabrielli del 15 gennaio 1861 egli scriveva che “nella mia commedia è il popolo ad essere introdotto a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi proprii usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

 

“Er testamento der Pasqualino”     6 aprile 1834

 

Torzetto l’ortolano a li Serpenti

Prometteva oggni sempre ar zu’ curato

C’a la su’ morte j’averìa lassato

Cinquanta scudi e cert’antri ingredienti.                        4

 

Quanto, un ber giorno, lui casc’ammalato;

E curreveno già quinici o venti

Tra pparenti e pparenti de parenti

A mostraje un amore indemoniato.                                 8

 

Ecchete che sse venne all’ojo-santo;

E ‘r curato je disse in ne l’ontallo:

“Ricordateve, fijo, de quer tanto…”.                                 11

 

Torzetto allora uprì du lanternoni,

E j’arispose vispo com’un gallo:

“Oggne oggne, e nu me roppe li cojoni”.                         14

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).

 

         Il testamento di chi si comunica solo a Pasqua

 

Torzetto, l’ortolano che abita nella contrada dei Serpenti (rione Monti, dall’attuale via Cavour a via Nazionale), prometteva tutte le volte al suo curato che alla sua morte gli avrebbe lasciato cinquanta scudi e certi altri ingredienti. Quando, un bel giorno, lui si ammala; e correvano da lui già quindici o venti tra parenti e parenti dei parenti a mostrargli un amore ardentissimo. Eccoti che si arrivò all’olio santo dell’Estrema Unzione; e il curato gli disse mentre lo ungeva: “Ricordatevi, figlio, di quel tanto…”. Torzetto allora aprì i due occhi  ben spalancati, e gli rispose vispo come un gallo: “Ungi ungi, e non mi rompere i coglioni”.

 

Le quartine.

Chi è il narratore di questa storiella di quartiere? Si direbbe un cronista curioso e ironico, disincantato quanto basta per sorridere sia dei “pparenti e pparenti de parenti” assatanati di eredità (si son precipitati “a mostraje un amore indemoniato”, v. 8), sia del prete ingolosito dei “cinquanta scudi e cert’antri ingredienti”, v. 4, promessigli dal buontempone Torzetto che fa l’ortolano nel rione Serpenti. Il poeta ricorre a un espediente ritmico per denunciare l’avidità ansiosa dei pretendenti: in entrambe le quartine gli enjambement (tre+due) sottolineano con l’inarcatura lo sviluppo degli eventi. Roma, città plebea, è fatta di gente comune che non ha soldi e ne cerca, del tutto subalterna, facce attonite di umanità sotterranea. Belli serra i fatti in uno stampo narrativo moderno, laconico e incalzante, con progressione sarcastica.

Le terzine.

Tutto precipita quando si arriva all’Estrema Unzione. La sintassi si frantuma, tutte frasi principali, con una punteggiatura che spezza i versi. La prima terzina vede protagonista il curato, premuroso e mormorante; nella seconda è Torzetto a giganteggiare, da moribondo si fa vispo come un gallo, con gli occhi spalancati a lumeggiare come “du lanternoni” e a spropositare: “Oggne oggne, e nu me roppe li cojoni”, atroce beffa al prete e anche al sacramento. Riflettiamo sui vv. 10-11: “E ‘r Curato disse in ne l’ontallo:/ ricordateve, fijjo, de quer tanto…”. I versi mettono in scena il contrasto, corrosivo e significativo, tra il sacramento e le parole pronunciate dal sacerdote: sono parole di cupidigia e non di conforto, lasciate in tronco o per reticenza (il prete si vergogna di completarle) o perché interrotto bruscamente dall’inaspettata reazione del presunto moribondo.

La scrittura è liscia e nello stesso tempo corposa, ricamata da una ragnatela di illuminazioni. C’è profondità di ironia, gusto quasi cinematografico dei particolari, uno scetticismo inquietante, venato di luteranesimo.

 

Il 10 febbraio 1832 Belli aveva scritto questo sonetto:

 

La vita de le donne

 

La donna appena arriva ar rifriggerio

De godé li bbimestri o er bonifiscio,

Incomincia a ccapì che ccos’è cciscio

E principia a ppeccà dde disiderio.                                 4

 

Po’ appena è bbona de sonà er zarterio

E dde fa ar maschio cuarche bbon uffiscio,

Incomincia a rrubbà la carne ar miscio

E principia a ppeccà de cazzimperio.                              8

 

Ma cquanno che ppe vvia der zona-sona

Diventa un orto che ggnisuno stabbia,

E ffa ttele de raggno a la ficona,                                               11

 

Vedenno er ciscio nun tornà ppiù in gabbia,

Se dà ppe ccorpo morto a la corona,

Sin che in grazzia de ddio crepa de rabbia.                   14

 

La donna appena arriva al refrigerio (per lei) di godere delle mestruazioni incomincia a capire che cos’è l’uccello e comincia a peccare di desiderio. Poi appena è capace di suonare il salterio (di fare l’amore) e di fare al maschio qualche buon ufficio, incomincia a rubare la carne al gatto e comincia a peccare di pinzimonio. Ma quando a causa del tempo che passa diventa un orto che nessuno cura e la sua vagina si copre di tele di ragno, vedendo che l’uccello non torna più nella sua gabbia, si dà tutta intera alla preghiera fino a che in grazia di Dio crepa di rabbia.

La componente misogina del Belli, studiata dall’Almansi (“Estetica dell’osceno”, Torino, 1974), affiora spesso, oltre che nei sonetti, nello “Zibaldone” belliano.

                                                                 

 

Gennaro Cucciniello