Belli. Sonetti. “Er governo de li giacubbini”
Quale prefazione riporto una lucida analisi di R. Marchi: “Per Belli, a differenza del Porta, il romanesco impiegato nelle poesie è uno strumento letterariamente vergine, che per la prima volta (al di là della tradizione popolare degli stornelli, delle pasquinate, della poesia sguaiatamente comica) viene elevato a lingua della “verità”, veicolo privilegiato per i contenuti semplici, umili, spesso brutali di una classe sociale diseredata e vessata da secoli di governo papale. L’assenza di una codificazione letteraria (ma anche più semplicemente grammaticale) del romanesco consente allo scrittore di ottenere un effetto di particolare immediatezza espressiva. La lingua appare quindi una risorsa preziosa per testimoniare senza diaframmi culturali o ideologici un mondo emarginato e sconosciuto ai più. Il suo messaggio è pervaso di rinuncia, di polemica sfiducia nelle sorti dell’uomo, di ribellione senza sbocco possibile. Facendo parlare direttamente i personaggi (uomini di malaffare, donne sfortunate o perdute, prelati disinvolti e maneggioni, emarginati sociali) Belli, oltre a darci una complessa immagine di quel sottobosco sociale, esprime –dietro il velo di quelle voci acri o semplici- anche il senso forse più profondo della sua riflessione.
“La parola, così, esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con la quale il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture politiche, sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono. Una gran parte dei sonetti è dedicata alla rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano le vie e le piazze di Roma: l’autore non li descrive ma li fa parlare; essi raccontano un fatto accaduto o dialogano tra loro, ma il più delle volte con un interlocutore muto che può essere la moglie, il figlio, l’amico o il compagno di osteria. Sfilano così sotto gli occhi di noi lettori vetturini e artigiani, accattoni e prostitute, mariti traditi e guappi di quartiere”.
La critica ha potuto parlare della sua opera come dell’espressione della crisi di una cultura borghese moderna in uno Stato, come quello della Chiesa, ancora privo di una vera classe borghese, diviso nella schematica opposizione tra nobiltà ecclesiastica e popolo diseredato. Nella poesia di Belli si trova quindi descritta una situazione sociale e culturale unica nella storia europea: il contrasto fra la Roma tesoro di antichità, meta di viaggio degli intellettuali di tutta Europa che vi cercavano le vestigia della grandezza di un tempo, la Roma “città sacra” e cuore della cristianità, e la Roma plebea, priva di strutture economiche e sociali moderne, profondamente provinciale, inconsapevolmente decadente. Nonostante Belli non esibisca il dolore sociale per pronunziare una impegnativa condanna politica nondimeno in questa commedia umana rappresentata ai suoi livelli più infimi si avverte la presenza della riflessione razionalista e pessimista dell’intellettuale formatosi soprattutto sulla scorta del pensiero illuminista. La stessa struttura dei suoi “Sonetti” ne testimonia l’emblematicità: l’autore non li aggregò infatti secondo un ordito narrativo e strutturale definito. La serie vive, in cadenza cronologica, della complessità e caoticità della vita che anima la Città Eterna. Fuori da qualsiasi costruzione preordinata, trionfano così il dialogo o il monologo, con cui gli stessi personaggi si rappresentano e si impongono sulla scena della vita (letteraria) per un breve momento, rivelando la felice attitudine del poeta alla resa scenica, teatrale degli episodi”, dimostrando la sua capacità e volontà di ubbidire al dettato dantesco: “forti cose a pensare mettere in versi” (Purgatorio, XXIX, 42).
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
Er governo de li giacubbini 5 aprile 1834
Iddio ne guardi, Iddio ne guardi, Checca,
Toccassi a commannà a li giacubbini:
Vederessi una razza d’assassini
Peggio assai de li Turchi de la Mecca. 4
Pe aringrassasse la panzaccia secca
Assetata e affamata de quadrini,
Vederessi mannà co li facchini
Li càlici de Dio tutti a la zecca. 8
Vederessi sta manica de ladri
Raschià drent’a le chiese der Ziggnore
L’oro da le cornice de li quadri. 11
Vederessi strappà ssenza rosore
Li fiji da le braccia de li padri,
Che ssarìa mejo de strappaje er core. 14
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).
Il governo dei giacobini
Dio ce ne guardi, Dio ce ne guardi, Checca, toccasse a comandare ai liberali giacobini: tu vedresti al comando una razza di assassini molto peggiori dei Turchi della Mecca. Per ringrassarsi la pancia secca, assetata e affamata di quattrini, tu vedresti mandare con i facchini i calici di Dio che stanno nei tabernacoli tutti spediti alla Zecca per farne moneta. Vedresti questa manica di ladri raschiare nelle chiese l’oro dalle cornici dei quadri sacri. Vedresti strappare senza che arrossiscano i figli dalle braccia dei loro padri: un supplizio tanto grande che sarebbe meglio che strappassero loro il cuore.
Analisi.
Un sanfedista descrive a tinte foschissime un eventuale governo liberale a Roma, ne sta parlando con una sua parente o vicina di casa. Il registro linguistico e anche il ritmo della parlata sono affannosi e pieni di ripetizioni: intanto il succedersi dei congiuntivi in tutte le strofe, la centralità del “vederessi” nel terzo verso delle quartine e nel primo verso delle terzine, come a richiamare le spaventose scene che si susseguiranno, in un crescendo scandaloso di misfatti: prima lo scioglimento dei vasi sacri per farne moneta, poi il raschiare l’oro delle cornici delle tele nelle chiese, infine –dramma granguignolesco- il rapimento dei bambini (curiosa anticipazione dei comunisti mangia-piccoli delle propagande clericali di questi ultimi 70 anni, dalle campagne elettorali del 1948 agli scandali di Bibbiano di recentissima memoria). Per non farsi mancare niente, Belli mette in bocca anche al nostro sanfedista, nella prima quartina, la bella coppia di rime “giacubbini / assassini” e il ricordo terrorizzante (di eco rinascimentale, vedi il dialogo tra fra Timoteo e una donna nella “Mandragola”) de li Turchi de la Mecca.
E’ un narrare martellante, tagliente, inesorabile, impastato di orrore, in un tempo allucinato, in una città resa caotica dall’andata al potere dei rivoluzionari democratici. I versi grondano immagini, sensazioni, odori e –parola dopo parola- s’inspessisce la percezione del terrore, si percepiscono i fremiti dell’attesa, l’irrimediabilità della paura. La scrittura si fa acuminata e selvatica.
Il giorno dopo, il 6 aprile 1834, Belli scrisse questo gustoso sonetto:
Li Vicarj
Qua c’è un Vicario de Dio nipotente:
C’è un Vicario, vicario der vicario:
E pper urtimo c’è un Vicereggente
Vicario der vicario der vicario. 4
Ste distinzione qui ttiettel’a mente
Pe nun sbajà vicario co vicario:
Chè una cosa è vicario solamente,
Antra cosa è vicario de vicario. 8
Cusì er primo commanna sur ziconno,
Er ziconno sur terzo, e ttutti poi
Commanneno su ttutto er mappamonno. 11
Tira adesso le somme come vòi,
Smovi er pancotto, e ttroverai ner fonno
Che chi ubbidisce semo sempre noi. 14
Qui a Roma c’è un Vicario di Dio onnipotente (è il papa): c’è poi un Cardinal Vicario (che governa la diocesi di Roma al posto del papa, che ne è il vescovo), quindi vicario del Vicario: e per ultimo c’è il Monsignor Vicegerente (coadiuvatore del cardinal vicario), vicario del vicario del Vicario. Queste distinzioni tienile a mente per non confondere vicario con vicario: perché una cosa è solamente il Vicario, altra cosa è vicario del Vicario. Così il primo comanda sul secondo, il secondo sul terzo, e tutti poi comandano su tutto il mappamondo. Adesso tira le somme, le conclusioni come vuoi, smuovi il pancotto, e troverai nel fondo che chi ubbidisce siamo sempre noi.
Gennaro Cucciniello