Sulla bocca di tutti
Abbiamo cominciato a baciarci per passarci il cibo. E continuiamo a farlo per tanti motivi e in tanti modi diversi. Un antropologo spiega perché A Kiss non è mai Just A Kiss.
Non la stavo baciando, era lei che mi stava sussurrando in bocca. A dirlo non è un partner fedifrago colto in flagrante. Ma Chico Marx, il fratello di Groucho e Harpo, che col surrealismo stralunato dei grandi comici centra il bersaglio al primo colpo. Perché la parola bacio deriva dal verbo greco baskaino, che significa proprio sussurrare, mormorare, ammaliare, affascinare. Come dire che baciare vuol dire trasmettere all’altro qualcosa di sé. Come nelle descrizioni più antiche del bacio, risalenti all’India del 2000 avanti Cristo, dove si dice che attraverso il contatto bocca a bocca si inala l’anima dell’altro. Più o meno quel che pensava un poeta romanticissimo come l’inglese Percy B. Shelley secondo il quale “l’anima incontra l’anima sulle labbra degli amanti”.
Un’affermazione che una volta tanto mette d’accordo poeti e scienziati circa l’origine del bacio. Che, a parere di antropologi come Margaret Mead ed etologi come Desmond Morris, nasce dall’uso di scambiarsi qualcosa attraverso le labbra. La differenza è che per i poeti si tratta di amore, passione, affetto, dedizione. Mentre per gli studiosi del comportamento umano e animale si tratta di scambi molto più materiali. Cibo, informazioni, ormoni e feromoni.
Morris fa risalire bacini e bacetti agli ominidi preistorici, che condividevano con altre specie animali l’uso di nutrire i piccoli bocca a bocca. Le femmine premasticavano il cibo, poi premevano le loro labbra su quelle dei pargoletti e li imboccavano aiutandosi con la lingua. Sarebbe questa la ragione remota per cui il bacio tra adulti è considerato l’atto d’amore, di intimità, di trasporto reciproco per eccellenza. Quest’eco preistorica risuona nelle parole di Kiss, la celebre canzone di Prince: my love will be your food, il mio amore sarà il tuo nutrimento.
Insomma, la scimmia nuda bacia. Ma il suo gesto non è sempre stato “un apostrofo rosa tra le parole t’amo”, come diceva lo scrittore Edmond Rostand, cui per questa frase cioccolatesca bisognerebbe revocare la licenza poetica. Non basta il gesto a fare del bacio la lingua degli innamorati. E comunque, se di lingua si tratta, i suoi usi e significati sono i più diversi e non tutti romantici. Come dire che il bacio non è universale. E perfino il gesto non è sempre lo stesso. Per noi baciare è sempre e comunque un fatto di labbra. Mentre una scienza come la filematologia, dal greco filema, ossia bacio, dice chiaramente che in molte culture le manifestazioni amorose non sono necessariamente orali. Ma impegnano altre parti del corpo. Gli eschimesi, per esempio, si scambiano effusioni, ma anche convenevoli, strofinandosi teneramente o calorosamente il naso. E così pure malesi e polinesiani. Charles Darwin, padre dell’evoluzionismo, sosteneva che questo approccio nasale risalga all’età della pietra e rappresenti una forma di riconoscimento olfattivo. Una manifestazione di compatibilità corporea. Che produce empatia, simpatia, legame, ma anche attrazione, passione. In alcune regioni dell’India antica al posto di baciare si usava il verbo annusare. Chi avvicinava le labbra al viso del partner, invece che ti adoro diceva ti odoro. E nella Cina tradizionale ci si baciava accostando il naso alle guance e soffiando leggermente per far arrivare il proprio profumo.
Del resto, è cosa ben nota che nell’attrazione erotica giochi una forte componente olfattiva. Insieme a quella tattile e gustativa. Tutte e tre presenti nel bacio. Che , in più, chiama in causa anche l’udito. Visto che lo schiocco, lo smack, il chu, il pciù, il risucchio ed altri suoni rappresentano l’essenziale componente umoristica di ogni piacere d’amore. Ma anche di altre tipologie di bacio. A ciascuno il suo, come sapevano bene gli antichi Romani che distinguevano accuratamente l’uso erotico delle labbra da altri tipi di contatto labiale. Affettuoso, doveroso, rispettoso, fraterno, paterno, materno, amicale, conviviale, coniugale. E laddove noi abbiamo una sola parola per qualunque forma di bacio, loro ne avevano ben tre: il basium, il savium e l’osculum. Il primo, sentenziava Isidoro di Siviglia, teologo e santo, “lo darai alla moglie o al marito, il secondo alle donne di piacere, il terzo ai figli”. Come ogni regola anche il teorema di Isidoro aveva le sue eccezioni. La prima è il poeta Catullo, che manifesta il desiderio, torbido e torrido, che prova per Lesbia, la sua calda e infedele amante, chiedendole basia mille, poi altri mille, in un’escalation sempre più hard. Ma anche l’osculum, castissimo, santissimo, levissimo, il segno di pace che si scambiavano i cristiani, poteva degenerare nel cosiddetto osculum infame. Ovvero lo sbaciucchiamento che le streghe riservavano a Satana nel corso del sabba. Ma non sulle labbra, perché in quel caso le lascive maliarde volavano basso.
Come si vede, baciare è un gesto che può assumere i significati più diversi. Dalla tenerezza alla reverenza, dalla venerazione religiosa alla passione amorosa, dalla galanteria del baciamano al bacio socialista di Breznev e Honecker. O a quello risorgimentale dipinto da Hayez, dove la coppietta allacciata sta per Cavour e Napoleone III. O ancora, al lesbo kiss tra Madonna e Britney Spears. Fino alle manifestazioni più estreme dell’appetito carnale. Dove il confine con il morso si fa labilissimo e un’espressione di uso comune come “ti mangerei di baci” diventa letterale, ritrovando tutta la sua oralità primaria, la voglia matta di divorare il partner. Deve averlo temuto la principessa africana corteggiata a lungo dal filosofo ed esploratore inglese William Winwood Reade, che un giorno tentò di baciarla, ma la ragazza scappò via piangendo. Perché aveva interpretato l’approccio come un gesto da Hannibal Lecter. Del resto, basta aggiungere una c per trasformare Annibale in cannibale.
Ma l’esempio più estremo è quello raccontato dal grande antropologo Bronislav Malinowski circa le effusioni erotiche tra gli abitanti delle isole Trobriand. In quell’arcipelago, che si trova al largo dell’Australia, le coppie in amore si mordono fino a ferirsi le labbra, la lingua e le ciglia, e arrivano, nell’estasi dei sensi, a strapparsi ciocche di capelli. Come dire, straziami ma di baci saziami.
Proprio come in certi amplessi cinematografici recenti al cui confronto il bacio di Via col vento e perfino quelli di Casablanca e Notorius sembrano effusioni da educande. E dove il desiderio diventa avvinghio gorgogliante, aspirazione bocca a bocca, magna-magna rumoroso molto. Del resto, tra la filmologia e la filmologia c’è un rapporto strettissimo che data dagli albori del grande schermo. Dal 1896, quando May Irwin e John Rice, in The Kiss, scandalizzarono il pubblico baciandosi per la bellezza di 18 secondi. Durata del film, 18 secondi. Il New York Times attaccò frontalmente il produttore, che era Thomas Alva Edison, inventore della lampadina, maledicendo un’invenzione come il cinematografo che, agli occhi dei benpensanti, appariva come un nuovo veicolo di lascivia e di corruzione.
Da allora la settima arte ha contribuito a fare del bacio un indicatore dei mutamenti sociali, dell’amore e del pudore, delle sensibilità e delle libertà. Dalla boccuccia di Doris Day che baciava da casalinga, e mai, da casalingua, alle labbra incandescenti di Kim Basinger in Nove settimane e mezzo o di Dakota Johnson in Cinquanta sfumature di grigio, la differenza è epocale. E riflette gli spostamenti progressivi del piacere e del vedere che fanno uscire i baci dalla camera da letto per proiettarli nello spazio pubblico. Come è accaduto in Giappone nel dopoguerra, quando baciarsi per strada è diventato il simbolo della democrazia e dell’uguaglianza tra i generi. Da qui agli innamorati parigini di Doisneau il passo è breve.
Marino Niola
(Articolo scritto da Marino Niola e pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 14 febbraio 2020, alle pp. 16-20)