Dante,“Divina Commedia”. Similitudini. “Fonti battesimali, Formica, Frana, Frate confessore, Frati minori, Freccia, Fronde, Fulmine-Tuono, Fuoco”.
Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, quasi 360) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Sembra che Dante non voglia passare mai sopra le menti dei suoi lettori, ma intenda catturarle per condurle verso altre mete, più ardite e profonde. Perciò ripercorrere le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.
Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso e con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità.
Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.
I fonti battesimali. Inferno, canto XIX, vv. 13-21.
“Io vidi per le coste e per lo fondo / piena la pietra livida di fòri,/ d’un largo tutti e ciascun era tondo.// Non mi parean men ampi né maggiori / che que’ che son nel mio bel San Giovanni,/ fatti per loco d’i battezzatori;/ l’un de li quali, ancor non è molt’anni,/ rupp’io per un che dentro v’annegava:/ e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni”. Dal punto in cui ero vidi, lungo i pendii e per tutto il fondo della bolgia, la pietra scura attraversata da fori, ciascuno di forma circolare e dello stesso diametro. Non mi sembravano diversi come misura da quelli che ci sono nel mio bel battistero di San Giovanni a Firenze, costruiti con la funzione di fonti battesimali; uno dei quali, non molti anni fa, io ordinai di frantumare per salvare uno che vi stava soffocando dentro: e questo valga una volta per tutte per togliere ogni dubbio su questo episodio.
Nota: Dante e Virgilio hanno visto nella prima bolgia ruffiani e seduttori, nella seconda –completamente immersi nello sterco- gli adulatori. Ora siamo nella terza bolgia ove sono i simoniaci, cioè gli ecclesiastici che hanno fatto vergognosa compravendita di beni sacri. Il paesaggio sembra lunare, una pietra tutta riempita di buchi di uguale diametro e profondità che traforano la roccia; i peccatori vi sono conficcati a testa in giù e Dante li osserva con distacco, oggetti inanimati, burattini, che non possono suscitare alcuna compassione. Dalla descrizione di un paesaggio innaturale, infernale appunto, il poeta passa alla descrizione della realtà quotidiana del suo tempo, perché vuole che l’ambiente dell’Inferno risulti quanto più vivo e familiare possibile ai lettori. Ma è la prima volta che un tale paesaggio suscita in Dante ricordi così commoventi, come testimonia l’uso dell’aggettivo possessivo mio davanti al sintagma di per sé già affettuoso bel San Giovanni. L’episodio rievocato doveva essere ancora piuttosto famoso quando il poeta scriveva, visto che non ha bisogno di rievocarne molti particolari.
La formica. Purgatorio, canto XXVI, vv. 31-36.
“Li veggio d’ogne parte farsi presta / ciascun’ombra e basciarsi una con una / senza restar, contente a brieve festa;// così per entro loro schiera bruna / s’ammusa l’una con l’altra formica,/ forse a spiar lor via e lor fortuna”. Nel punto in cui le due schiere s’incontrano, io vedo che ogni anima da entrambe le parti si avvicina in fretta e con sollecitudine alla schiera opposta, e che una a una si baciano, senza pause, felici di questa breve effusione; così dentro la loro nera fila le formiche si toccano il muso l’una con l’altra, forse per informarsi sul loro cammino e sulla sorte buona o cattiva cui vanno incontro per cercare il cibo.
Nota: nella settima e ultima cornice Virgilio, Stazio e Dante camminano uno dietro l’altro, attenti a non farsi bruciare dal fuoco e, contemporaneamente, a non precipitare nel vuoto. Qui espiano il loro peccato i lussuriosi. Il pellegrino assiste a uno strano rito: due gruppi distinti di anime si incontrano, si abbracciano e, dopo essersi gridati ciascuno un esempio di lussuria punita, si allontanano. Dante usa, al v. 31, il verbo “veggio”, al tempo presente: è come se l’autore avesse ancora la scena davanti agli occhi. Tutto è movimentato e veloce, come la coreografia di un balletto: le due schiere di anime dapprima si vengono incontro, poi si fronteggiano, quindi reciprocamente si abbracciano e si baciano. Nel canto dei lussuriosi, cioè dell’amore corrotto da eccesso di vigore, questo rito fa parte dell’espiazione, ricorda sempre ai peccatori pentiti che l’amore è pur sempre un sentimento divino, se è ben diretto e con la giusta intensità. Nello scambievole bacio di carità è facile riscontrare l’antica tradizione cristiana del bacio pasquale. La similitudine con le formiche apparenta ancora una volta le anime del Purgatorio con una specie animale in cui è molto forte la coesione di gruppo: si ricordi la similitudine di Purg., III, 79-87, che paragonava la schiera degli spiriti negligenti a pecorelle.
La frana. Inferno, canto XII, vv. 4-15.
“Qual è quella ruina che nel fianco / di qua da Trento l’Adice percosse,/ o per tremoto o per sostegno manco,// che da cima del monte, onde si mosse,/ al piano è sì la roccia discoscesa,/ ch’alcuna via darebbe a chi su fosse:// cotal di quel burrato era la scesa;/ e ‘n su la punta de la rotta lacca / l’infamia di Creti era distesa // che fu concetta ne la falsa vacca;/ e quando vide noi, sé stesso morse,/ sì come quei cui l’ira dentro fiacca”. Come quell’enorme frana che rovinò fino alla fine dell’Adige nei pressi di Trento, o a causa di un terremoto, o essendo mancato il sostegno della roccia sottostante, in cui dalla vetta fino alla pianura la roccia è scoscesa ma in modo tale da offrire appigli e sentieri per chi vi si trovi sopra, così era il pendio di quel burrone; e disteso sulla cima della frana si trovava il Minotauro, vergogna di Creta, il mostro che fu concepito nella finta vacca; non appena ci vide, si diede a mordersi, come se fosse internamente divorato dall’ira.
Nota: camminando tra le arche infuocate degli eretici, i due pellegrini arrivano sul bordo di una specie di argine roccioso, formato da macigni franati, sotto il quale si apre l’abisso del basso Inferno. Ne viene un fetore tale che i due poeti sono costretti a ritrarsi e a fare una sosta per abituare il loro olfatto. Mentre scendono la china della roccia franata vedono il Minotauro, molto contrariato del loro arrivo. Come i precedenti guardiani diabolici incontrati nei cerchi superiori, anche il Minotauro reagisce irosamente alla vista di Dante, ma come al solito per le creature infernali la sua ira è impotente e suscita solo l’intervento risolutore di Virgilio. Per il mito, il Minotauro è figlio di Pasifae, moglie del re di Creta Minosse. Racconta Ovidio che la donna, pur di ottenere il congiungimento carnale con un toro di cui si era invaghita, era ricorsa allo stratagemma di rinchiudersi in un simulacro di legno a forma di vacca, partorendo poi il mitico mostro dal corpo di uomo e dalla testa di toro. Quanto alla frana citata, sembra che sia stata identificata a valle di Trento, gli Slavini di Marco, in prossimità di Rovereto, che Dante potrebbe aver visto di persona, in un suo soggiorno presso i conti di Castelbarco nel castello di Lizzana.
Il frate confessore. Inferno, canto XIX, vv. 49-51.
“Io stava come ‘l frate che confessa / lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,/ richiama lui per che la morte cessa”. Io mi trovavo nella posizione del frate che confessa l’assassino condannato a morte, il quale, dopo essere stato seppellito nella terra a testa in giù, richiama, fa tornare indietro il frate confessore per allontanare il momento della morte.
Nota: siamo nella bolgia dei simoniaci. Dante dialoga con un dannato conficcato a testa in giù, a cui una fiamma più rossa brucia i piedi. L’ambiguità della similitudine è data dal fatto che Dante, che è un laico, si trova nella posizione del confessore, mentre il dannato con cui sta per parlare è Giovanni Gaetano Orsini, papa col nome di Niccolò III dal 1277 al 1280. Questi adesso rivelerà che sta aspettando, nella sua buca, papa Bonifacio VIII, ora vivo, e che morirà nel 1303. La situazione reale a cui Dante si ispira è la crudele esecuzione dei sicari, il supplizio medievale della “propagginazione”, che consisteva nel seppellire il condannato a testa in giù in una buca scavata nel suolo, buca che veniva poi riempita di terra fino a far soffocare la vittima. Può essere che Dante sia stato guidato a creare una tale similitudine dall’esperienza diretta o da una notizia ben precisa.
I frati minori. Inferno, canto XXIII, vv. 1-3.
“Taciti, soli, sanza compagnia / n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,/ come frati minor vanno per via”. In silenzio, soli, senza più la compagnia dei diavoli Malebranche, camminavamo uno davanti all’altro, come fanno di solito i frati francescani.
Nota: Col timore che i diavoli possano inseguirli i nostri due pellegrini giungono precipitosamente nella sesta bolgia, quella degli ipocriti. Sono silenziosi perché ancora scossi dall’esperienza vissuta nella bolgia dei barattieri. L’inizio del canto è immerso in un’atmosfera lenta, in netta contrapposizione ai frenetici due canti precedenti. La solitudine dei due poeti, che procedono in fila indiana, è carica di apprensioni, di sospetti e di paure. Il ritmo della terzina, grazie alla simmetrica corrispondenza fra sintassi e metro, riproduce il cammino sostenuto e senza soste dei due viandanti. L’impressione è quella di una scena deserta e silenziosa, una pausa di sospensione, nella quale Dante narratore e personaggio avvertono la liberazione, anche se momentanea, di una grave tensione psicologica, determinata dalla paura dei diavoli, ormai scatenati in una rissa confusa e pericolosa. La critica sottolinea l’unità narrativa e tonale del poema, che alterna, a scene intensamente drammatiche e movimentate, sequenze silenziose e pacate, in una specie di chiaroscuro armonico e musicale.
La freccia. Inferno, canto VIII, vv. 13-18.
“Corda non pinse mai da sé saetta / che sì corresse via per l’aere snella,/ com’io vidi una nave piccoletta // venir per l’acqua verso noi in quella,/ sotto il governo d’un sol galeoto,/ che gridava: “Or se’ giunta, anima fella!”. Una corda d’arco non lanciò mai lontano da sé freccia che fosse così veloce attraverso l’aria come la barca che vidi venire verso di noi attraverso l’acqua, in quel momento guidata da un solo marinaio, che gridava: “Finalmente sei giunta a destinazione, anima dannata”.
Nota: I due viaggiatori sono entrati nel quinto cerchio, completamente invaso dalla nauseabonda palude Stigia. Qui sono immersi dannati che non smettono di colpirsi ferocemente a vicenda: gli iracondi. Sotto il fango, invisibili, ve ne sono altri che ripetono perennemente una triste nenia: gli accidiosi. Prima di giungere alla torre sulla riva dello Stige, Dante assiste preoccupato a misteriose segnalazioni luminose. Ora appare un nuovo nocchiero infernale, il demonio Flegiàs, anche se non è molto chiaro quale sia il suo compito nella palude. Guida una veloce barca, sulla quale dovrà far salire i due poeti. La similitudine dei vv. 13-14 è di origine classica, virgiliana e ovidiana, ma dante imprime all’immagine e alle parole un movimento rapido e incalzante, nel quale viene a culminare il senso di tensione e di attesa delle terzine che precedono e si preannuncia il movimento drammatico, violento e concitato, dell’episodio che seguirà. Si badi alla riproduzione onomatopeica del suono della freccia, ottenuta con l’allitterazione delle sibilanti: da sé saetta e delle liquide.
Paradiso, canto II, vv. 22-26.
“Beatrice in suso, e io in lei guardava;/ e forse in tanto in quanto un quadrel posa / e vola e da la noce si dischiava,// giunto mi vidi ove mirabil cosa / mi torse il viso a sé”. Beatrice rivolgeva lo sguardo al cielo, e io lo rivolgevo al suo; e mi trovai in un baleno, forse con la stessa velocità con cui una freccia arriva al bersaglio e fende l’aria e viene scoccata dall’incavo della balestra, in un luogo dove un fatto eccezionale distolse la mia vista da Beatrice e l’attirò verso di sé.
Nota: Dante personaggio sale a velocità indescrivibile dalla sfera del fuoco al primo cielo, quello della Luna, fissando gli occhi in quelli di Beatrice, rivolti verso l’alto. E’ attraverso lo sguardo della donna che diventano normali fatti altrimenti miracolosi: è nella luce dei suoi occhi che si riflette la luce di Dio. Nella similitudine il volo della freccia fino al bersaglio è descritto con i passaggi cronologici invertiti: prima l’arrivo a destinazione, poi il volo nell’aria e infine lo scoccare dalla balestra. Nel Medioevo quali altri termini di paragone esistevano per descrivere l’altissima velocità? Comunque, il miracolo si è compiuto: Dante, ancora mortale, è giunto nel cielo della Luna, la prima stella, cioè l’astro più vicino alla sfera terrestre. Si trova dunque in un luogo mai visto prima da un uomo, né facilmente immaginabile per la mente umana: è una mirabil cosa che attira la sua vista a sé. Beatrice ha assunto in pieno il compito che il lettore era abituato a veder svolto da Virgilio.
Paradiso, canto V, vv. 88-93.
“Lo suo tacere e ‘l trasmutar sembiante / puoser silenzio al mio cupido ingegno,/ che già nuove questioni avea davante;// e sì come saetta che nel segno / percuote pria che sia la corda queta,/ così corremmo nel secondo regno”. Il silenzio di Beatrice e il trasfigurarsi del suo volto imposero di acquietarsi alla mia mente avida, che già si poneva nuove domande; e veloci come una freccia che raggiunga il bersaglio prima ancora che la corda dell’arco abbia smesso di vibrare, noi volammo al secondo cielo (quello di Mercurio).
Nota: Dante descrive il rapimento che l’estasi di Beatrice provoca anche in lui, quasi contagiandolo: vederla protesa verso l’alto, immobile e trasfigurata dalla luce, gli crea un immediato senso di pace, e la sua smania di porre questioni dottrinarie si esaurisce di colpo. Il loro passaggio verso il cielo di Mercurio, il secondo del Paradiso, è stato, più ancora che veloce, istantaneo; torna la similitudine della freccia, già usata per il volo dalla sfera del fuoco al cielo della Luna. L’abbandonarsi totale dell’io all’infinitezza di Dio è il più grande bene possibile, e dà i risultati maggiori: senza il minimo sforzo, con la naturalezza di chi asseconda il giusto andamento del creato, pellegrino e donna beata si sono innalzati verso il secondo cielo. La permanenza nel primo cielo ha occupato lo spazio di quattro canti. Nel Paradiso Dante esperimenta il suo stato di difetto, più che non faccia negli altri regni oltremondani; infatti nell’Inferno è quasi sempre giudice dei dannati, nel Purgatorio la sua coscienza di peccatore lo rende simile o lo assimila di volta in volta alle anime espianti; nel Paradiso egli si rimpicciolisce, si sente in uno stato di inferiorità che spesso lo fa tremare e lo rende titubante.
Le fronde. Purgatorio, canto XVIII, vv. 49-54.
“Ogne forma sustanzial, che setta / è da matera ed è con lei unita,/ specifica vertute ha in sé colletta,// la qual sanza operar non è sentita,/ né si dimostra mai che per effetto,/ come per verdi fronde in pianta vita”. Ogni forma sostanziale, che è distinta dalla materia ma unita ad essa, è dotata di una proprietà peculiare, che se non agisce non è percepita, e non dà mai segno della sua esistenza se non con i suoi effetti, allo stesso modo in cui si vede che una pianta è viva dal verde delle sue fronde.
Nota: nella cornice degli accidiosi Virgilio spiega a Dante la dottrina dell’amore male e bene diretto, e che se la tendenza all’amore è istintiva, sta poi alla volontà dell’uomo scegliere tra le sue inclinazioni. La similitudine usa termini tecnici che appartengono al linguaggio della filosofia scolastica. La complessità e la delicatezza dell’argomento provocano l’elevata concentrazione, oltre che di termini filosofici, di latinismi: i participi setta e colletta derivano rispettivamente da secare, separare, e da colligere, raccogliere.
Paradiso, canto XXVI, vv. 85-90.
“Come la fronda che flette la cima / nel transito del vento, e poi si leva / per la propria virtù che la soblima,// fec’io in tanto in quant’ella diceva,/ stupendo, e poi mi rifece sicuro / un disio di parlare ond’io ardeva”. Come il ramo che si piega al passaggio del vento, e poi si risolleva per la sua stessa natura che lo fa tendere verso l’alto, così fec’io mentre Beatrice parlava, piegando la testa per lo stupore, e poi la risollevai per il desiderio ardente di parlare.
Nota: siamo nel cielo delle Stelle Fisse. Durante la cecità temporanea di Dante San Giovanni lo esamina sulla carità. Il pellegrino supera bene anche questo terzo e ultimo esame. Appena il poeta ha terminato di parlare, i Beati insieme intonano il “Sanctus”, mentre Dante riacquista la vista. Accanto a loro c’è un quarto Beato luminoso: è Adamo, il primo uomo, non nato ma creato. Prima di creare uno spirito umano, Dio aveva dato vita solo alle Intelligenze angeliche. Nella similitudine torna un’immagine vegetale ed è di una tonalità bellissima e indica una ripresa del tono poetico narrativo. Il “disio” del v. 90 ricorda l’intensità del desiderio di Dante di fronte a Ulisse (“vedi che del disio ver lei mi piego”, Inferno, canto XXVI, v. 69): ma qui il desiderio della conoscenza è per un sapere che conduce a Dio, mentre il desiderio di Ulisse era per una sapienza che allontanava da Dio. Una nota finale: nei tre esami sulle virtù teologali, superati, Dante personaggio realizza soprattutto il suo riscatto dalla condizione di esilio ingiusto che Dante poeta era costretto a subire mentre scriveva. Se per il momento l’ingiustizia del mondo era inevitabile, almeno nel poema l’autore poteva attuare il suo ideale di perfezione politica basato sul rigore morale dettato dal rispetto dei principi cristiani.
Il fulmine-tuono. Purgatorio, canto XIV, vv. 130-135.
“Poi fummo fatti soli procedendo,/ folgore parve quando l’aere fende,/ voce che giunse di contra dicendo:// “Anciderammi qualunque m’apprende”;/ e fuggì come tuon che si dilegua,/ se sùbito la nuvola scoscende”. Dopo che, essendoci allontanati, rimanemmo soli, una voce che ci venne incontro dicendo: “Mi ucciderà chiunque mi troverà” –imprevedibile e fragorosa nel silenzio del girone- ci sembrò un fulmine che attraversa l’aria; poi questa voce si allontanò, come il tuono che svanisce quando squarcia d’improvviso una nuvola.
Nota: nella cornice degli invidiosi Dante incontra due nobili romagnoli e uno di essi lancia una furibonda invettiva contro la nobiltà toscana. Allontanandosi, i due viandanti sentono gridare nell’aria da spiriti invisibili esempi di invidia punita. La frase che attraversa l’aria è quella rivolta a Dio da Caino, dopo aver ucciso il fratello Abele, ed essere stato per questo maledetto, ed è ripresa da Genesi, 4, 14. Si sottolinea la contrapposizione tra la malvagità di Caino, fondatore della prima città sulla terra, e la bontà di Abele, primo cittadino della città di Dio in Cielo. L’esempio di invidia punita viene gridato nell’aria, come quelli di carità. “Ma qui la tecnica rapida della rappresentazione musicale serve a scorciare con drammatica violenza le immagini estreme di una colpa, che ora soltanto si rivela in tutta la sua ampiezza e il suo orrore, dopo che il commento politico ne ha analizzato in termini concreti gli effetti e la portata di universale corruzione. Orrore che poi si traduce plasticamente in un gesto di paura improvviso del pellegrino” (Sapegno).
Una curiosità: qualche terzina prima, precisamente al v. 109, Dante scrive: “le donne e’ cavalier, li affanni e li agi”, un verso che sarà riecheggiato nell’incipit dell’”Orlando furioso” dell’Ariosto, a rievocazione del mondo di nobiltà e di coraggio del tempo che fu.
Purgatorio, canto XXXII, vv. 109-114.
“Non scese mai con sì veloce moto / foco di spessa nube, quando piove / da quel confine che più va remoto,// com’io vidi calar l’uccel di Giove / per l’alber giù, rompendo de la scorza,/ non che d’i fiori e de le foglie nove”. Il fulmine non piombò mai da nuvole condensate dalle regioni più elevate dell’atmosfera, quando piove, così velocemente come vidi fare in quel momento da un’aquila contro l’albero, straziandone la corteccia, i fiori e le foglie appena spuntate.
Nota: siamo nel Paradiso terrestre, Dante ha assistito a tutta una serie di processioni simboliche e, infine, ha incontrato Beatrice. La processione con il carro trionfale ha ripreso a muoversi. Beatrice scende dal carro e si mette a sedere sulle sue radici; il grifone vi lega il timone del carro e subito la pianta, spoglia e in apparenza morta, rifiorisce e si copre di fiori purpurei. Dante si addormenta. Poi si sveglia al richiamo di Matelda e si accorge che Beatrice non è più lì vicino. La scena descritta dalla similitudine raffigura le persecuzioni dell’Impero romano contro la Chiesa dei primi cristiani: l’albero e il carro legati insieme sono tutt’uno, a simboleggiare l’unione tra la giustizia divina e la sua Chiesa. L’aquila, il più grande e maestoso uccello rapace, nei suoi atti violenti rappresenta le dieci persecuzioni, da Nerone a Diocleziano: perseguitando la Chiesa, essi offesero gravemente la giustizia di Dio.
Paradiso, canto I, vv. 130-132.
“e sì come veder si può cadere / foco di nube, sì l’impeto primo / l’atterra torto da falso piacere”. E così, come si può vedere il fuoco che precipita dalle nuvole, così l’impulso istintivo spinge la cosa creata verso la terra, perché deviato da una falsa bellezza.
Nota: siamo nella sfera del fuoco, che divide la terra dal sistema dei cieli. Beatrice spiega a Dante che la sua ascesa è stata possibile perché il suo corpo, purificato dalle acque di Lete ed Eunoè, non poteva che innalzarsi verso Dio. Con questa similitudine Beatrice fa una breve postilla: non sempre l’ordine del creato viene rispettato, ci può essere qualche deviazione. Negli esseri inanimati è una specie di resistenza della materia a ricevere il giusto messaggio e a obbedirvi: è il caso del fulmine, che è pur sempre foco che non tende verso l’alto come dovrebbe. Negli esseri inanimati è una specie di resistenza della materia a ricevere il giusto messaggio e a obbedirvi. E’ una resistenza che nell’ambito dell’arte Dante stesso doveva conoscere bene, abituato a lottare per imprimere alle parole il senso desiderato.
Paradiso, canto XXIII, vv. 40-45.
“Come foco di nube si diserra / per dilatarsi sì che non vi cape,/ e fuor di sua natura in giù s’atterra,// la mente mia così, tra quelle dape / fatta più grande, di sé stessa uscìo,/ e che si fesse rimembrar non sape”. Come il fulmine si libera dalla nuvola che lo ha prodotto per essersi dilatato al punto da non poter più esservi contenuto, e contro la sua natura di fuoco precipita verso il basso, così la mia mente, dilatata tra quelle vivande mistiche, uscì di sé, e che cosa abbia fatto poi ora non riesce più a ricordare.
Nota: siamo nell’ottavo cielo. Beatrice è immobile in attesa. L’orizzonte si illumina di un chiarore crescente: appaiono le schiere del trionfo di Cristo. Al centro, in una luce viva, traspare la sostanza del corpo risorto del Figlio di Dio, di splendore insostenibile allo sguardo di Dante. Il pellegrino sta assistendo coi propri occhi mortali a uno spettacolo riservato soltanto a chi ha oltrepassato la soglia della morte. Dante va in estasi. Non è la sola vista di Cristo a provocare l’uscita da sé della mente di Dante, ma la coscienza di averlo davanti, troppo schiacciante per una mente mortale. Nella similitudine il fulmine, che appartiene all’elemento fuoco che tende sempre verso l’alto, è adattissimo a rappresentare l’estasi che infrange le leggi naturali della mente.
Il fuoco. Purgatorio, canto XVIII, vv. 28-33.
“Poi, come ‘l foco movesi in altura / per la sua forma ch’è nata a salire / là dove più in sua matera dura,// così l’animo preso entra in disire,/ ch’è moto spiritale, e mai non posa / fin che la cosa amata il fa gioire”. In seguito, come il fuoco sale per la sua essenza che va naturalmente verso l’alto, verso la sfera del fuoco, cioè là dove dura di più perché si trova nel suo elemento, così l’anima presa da amore inizia desiderare la cosa che le piace, e questo è un moto spirituale che mai cessa, per tutto il tempo che la cosa amata le procura gioia.
Nota: siamo arrivati nella quarta cornice, dove espiano i loro peccati gli accidiosi. Accogliendo la richiesta di Dante, Virgilio espone e spiega la dottrina dell’amore male e bene diretto, e il modo in cui viene espiato in Purgatorio l’amore peccaminoso. E spiega ancora che se la tendenza all’amore è istintiva, sta poi alla volontà dell’uomo scegliere tra le sue inclinazioni. Nel v. 33, “fin che la cosa amata il fa gioire”, Virgilio non allude al possesso fisico del bene amato, ma all’unione spirituale con esso, cioè alla tendenza naturale dell’anima a unirsi con l’oggetto d’amore, perché in esso trova sua matera, come il fuoco la trova nella sua sfera. E’ interessante osservare come Dante affidi a Virgilio, un poeta della latinità classica, da lui considerato maestro supremo di stile, questa esposizione della dottrina dell’amore che era alla base anche della sua stessa poesia stilnovistica. Nel Purgatorio, la cantica in cui ritroverà Beatrice, ispiratrice della sua poesia giovanile, e dove più frequentemente ha modo di esprimersi sulle manifestazioni artistiche della sua epoca, Dante desidera riformulare la sua poetica di un tempo. Non vuole cioè che restino equivoci, o dubbi, sulla sua fede ritrovata: egli non crede più che l’amore per un bene terreno, sia pure una donna colma di virtù, possa sostituire l’unico amore che appaga, quello verso Dio.
Purgatorio, canto XXIX, vv. 31-36.
“Mentr’io m’andava tra tante primizie / de l’etterno piacer tutto sospeso,/ e disioso ancora a più letizie,// dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,/ ci si fé l’aere sotto i verdi rami;/ e ‘l dolce suon per canti era già inteso”. Mentre mi muovevo completamente assorto da tante anticipazioni dell’eterna beatitudine, e già desideroso di gioie ancora più grandi, l’aria sottostante i verdi rami della foresta divenne davanti ai nostri occhi simile a un incendio, e il dolce suono indistinto di poco prima era ormai riconoscibile come un coro di voci cantanti.
Nota: Siamo nel Paradiso terrestre. Matelda canta, camminando lungo il fiume Lete, e Dante la segue, restando però sulla sponda opposta. Nella schiera di ninfe simboliche al servizio di Beatrice nell’Eden, Matelda è la principale. Dante, pur non potendo raggiungerla, si adegua alla sua andatura danzante e cammina parallelo a lei, a piccoli passi. In questo momento, perciò, Dante personaggio si muove secondo l’armonia di Matelda, in accordo con la volontà divina. Insieme dunque, anche se divisi dal Lete, risalgono verso la sorgente perenne che lo alimenta. C’è la descrizione della luce misteriosa e adesso il suono si è fatto più distinto, evidenziando così la sua natura di coro soprannaturale: luce sfolgorante e canti melodiosi sono davvero anticipazioni (primizie) del clima del Paradiso, perché la luce è il segno della presenza divina, così come il suono, la voce armoniosa, è un’altra caratteristica della dimensione dell’eternità, nella quale tutto il creato è in perfetta armonia con il creatore; mentre l’Inferno era il regno delle tenebre e dei suoni disarticolati e turpi.
Gennaro Cucciniello