Napoli, 1647: fenomenologia di Masaniello
Aurelio Musi, “Masaniello”, Rubettino, 2019, pp. 142
Articolo pubblicato nel quotidiano “La Repubblica” del 29 luglio 2019.
Per completare e approfondire il contesto storico della figura di Masaniello riporto una pagina di Giuliano Procacci, tratta dal suo “Storia degli Italiani”, Laterza, 1968, v. I, pp. 242-244: “Come sempre accade nei rivolgimenti di una certa ampiezza, le forze e gli interessi messi in movimento erano vari e i loro obiettivi non sempre coincidenti. Vi era innanzitutto la plebe della capitale, con i suoi duci e tribuni improvvisati, con il suo radicalismo disperato, ma inconcludente, con le sue collere e i suoi sbandamenti. Vi era poi la borghesia cittadina con la sua azione e direzione politica più cosciente. Essa si era orientata in un primo tempo, sotto l’influenza del vecchio Giulio Genoino, verso l’obiettivo di una riforma del regno in senso popolare e antibaronale e si era mostrata disposta su questa base a giungere a un compromesso con la Spagna. Ma l’intransigenza di Madrid e il conseguente radicalizzarsi della situazione la consigliarono successivamente ad assumere, sotto la guida dell’armaiolo Gennaro Annese, posizioni più avanzate sino a giungere nell’ottobre del 1647 alla proclamazione della Reale Repubblica (…). Guardiamo ai due estremi del ventaglio e delle classi sociali in lotta: da una parte c’era il baronaggio che, lasciata cadere ogni velleità di fronda, si era schierato compatto a difesa della Spagna e dei propri privilegi; dall’altra il movimento antifeudale e contadino nelle province. Furono questi, baroni e contadini, le ali marcianti dei contrapposti schieramenti della conservazione e della rivolta. La lotta fu asprissima. I contadini, inquadrati e guidati da elementi reduci dai campi di battaglia della guerra dei Trent’anni, dettero prova non soltanto della loro esasperazione, ma anche della loro determinazione a combattere e a vincere. La loro non fu soltanto una jacquerie, ma anche una guerra contadina. Terre e città vennero espugnate, intere province mantenute sotto controllo e gli stessi contingenti militari baronali furono sconfitti in numerosi scontri e scaramucce. Alla fine, però, dopo la repressione avvenuta a Napoli, anche la guerriglia contadina dovette chinare la testa e la macchina della repressione feudale poté entrare in azione. La vendetta fu terribile, spietata, esemplare. Si voleva dimostrare che nulla era cambiato, nulla avrebbe potuto cambiare. La sconfitta dei moti rivoluzionari del 1647-48 segna una data importante nella preistoria della questione meridionale”.
Gennaro Cucciniello
Demone o santo, arruffapopolo o rivoluzionario, straccione sanguinario o martire romantico, icona di Napoli nel bene e più spesso nel male, Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello, ha vissuto e vivrà centinaia di vite dopo la sua, spezzata a soli 27 anni il 16 luglio del 1647. Scannato, insozzato e reso simile a un dio nei racconti dei contemporanei, per poi tornare di colpo nella polvere, il pescivendolo della celebre rivolta anti-nobiliare si è trasfigurato nei secoli nell’arte, nel teatro e nella letteratura, fino all’attuale degenerazione di un mito.
Masaniello, oggi, è l’ombra afferrata e scagliata da una parte o dall’altra del discorso, un espediente retorico, un’immagine comoda e di largo consumo nella ridotta contemporanea del “masaniellismo”, uno degli ismi nazionali in voga nel linguaggio politico e giornalistico quando si vuole imbrigliare un personaggio nei tratti tipici della “napoletanità” deteriore. Questo processo allontana dalla corretta interpretazione dell’uomo.
Aurelio Musi, uno dei massimi esperti contemporanei di Masaniello, autore del saggio omonimo appena uscito per l’editore Rubettino, scrive che la sua funzione storica fu questa: interpretando la rabbia dei ceti colpiti dalla pressione fiscale del governo spagnolo e dall’arroganza degli aristocratici, Masaniello seppe unire la plebe povera e disorganizzata e il popolo delle arti e delle corporazioni nella capitale del Vicereame spagnolo, realizzando per la prima volta l’unità del popolo napoletano, pur nel limitato arco dei soli dieci giorni che incendiarono la città. Dunque Masaniello non fu soltanto, come pure ha voluto la tradizione storiografica del primo ‘900, il braccio di una mente superiore, il mero esecutore del progetto politico di Giulio Genoino, il giurista mentore e consigliere del pescivendolo durante la rivolta popolare. Rappresentò piuttosto una personalità “fuori media” (per citare Walter Benjamin), scissa tra ragione e follia, collera e malinconia, secondo i canoni del dramma barocco. Ma non certo un “hombre loco desatinado”, un pazzo scatenato come scrissero i ministri del re di Spagna.
Decapitato, gettato in una fogna e reso cibo per cani, poi avvolto pietosamente in un lenzuolo dopo il rito collettivo di degradazione, Tommaso Aniello da santo venerato dal popolo tornò diavolo durante la terribile peste del 1656. Masaniello nei secoli è stato Cristo e Anticristo, idolo della libertà e tribuno dei lazzari. La sua figura, scrive Musi, si è allontanata sempre più dalla funzione storicamente determinata. Per successivi slittamenti semantici è diventato lo stereotipo del napoletano-tipo, fino all’uso politico del masaniellismo in un’accezione puramente negativa, da capopopolo napoletano. Achille Lauro ne fu la prima personificazione, poi tanti altri, da Paolo Cirino Pomicino all’attuale sindaco Luigi De Magistris. C’è il Masaniello di Eduardo e quello di Pino Daniele nella celebre canzone Je so’ pazzo, rappresentante di minoranze escluse, espressione di un desiderio insoddisfatto di libertà. E c’è il masaniellismo che sconfina nel populismo attuale e nel neoborbonismo. Insomma un mito degradato, il “fertilizzante di un uso politico della storia”. Alla fine, il simbolo dell’eterno ritorno della vicenda napoletana, l’emblema di un destino quasi ineluttabile. La personificazione dell’ammuina che non porta a niente e rende Napoli immobile, uguale a se stessa, incapace di un vero riscatto oltre il fragore delle parole.
Ottavio Ragone