La preistoria plurale
Decine di migliaia di anni fa gli umani vivevano in comunità molto diverse tra loro: alcune gerarchiche e bellicose, altre egualitarie e pacifiche. Invece nelle società moderne i rapporti di potere appaiono cristallizzati.
Questo articolo, di Adriano Favole, è stato pubblicato ne “La Lettura” del 20 febbraio 2022, inserto culturale del Corriere della Sera, a pag. 7.
C’era una volta un’umanità in cui convivevano fianco a fianco piccole bande itineranti e grandi (per l’epoca) raggruppamenti stanziali, simili a città; in cui convivevano culture che non lasciarono praticamente tracce materiali del loro passaggio e culture che eressero, ricorrendo a un’ampia manodopera, monumenti megalitici imperituri. C’era una volta un’umanità che eleggeva dei capi, ma che sapeva anche prenderne le distanze e disobbedire ai loro ordini. C’era una volta un’umanità che si procurava le risorse alimentari per lo più nel territorio circostante, ma che aveva elaborato codici di condotta e regole di ospitalità che le permettevano di viaggiare in sicurezza anche a migliaia di km di distanza. Un’umanità che aveva dato vita sia a società decisamente patriarcali sia a società in cui le donne detenevano poteri e saperi fondamentali.
C’era una volta, insomma, un’epoca che abbiamo chiamato preistoria perché in definitiva sappiamo pochissimo di come vivessero allora gli esseri umani, di cosa pensassero e che cosa si dicessero. Gli studi archeologici degli ultimi decenni, tuttavia, ci permettono di conoscere qualcosa in più e ci obbligano a prendere le distanze dai pregiudizi con cui abbiamo a lungo guardato ai nostri antenati.
La preistoria, almeno nelle ultime decine di migliaia di anni, è stata abitata da un homo pluralis, un essere che ha praticato una molteplicità di scelte e questa è una lezione importantissima per il presente, perché ci obbliga a chiederci come sia possibile che ci siamo cacciati in una situazione in cui le disuguaglianze e i rapporti di potere paiono congelati, in cui lo spazio della vita politica è ridotto ai minimi termini. E se, al contrario di quanto amiamo pensare, noi contemporanei fossimo assai meno animali politici di quanto lo siano stati i nostri lontani antenati oppure i nostri contemporanei che vivono in società periferiche e (abbastanza) lontane dai centri statali del potere? Gli studiosi di preistoria e di antropologia culturale ci forniscono dunque esempi di società più libere, dinamiche e creative di quelle in cui attualmente viviamo?
Sono queste alcune domande provocatorie e sfide conoscitive che pone un libro ricchissimo di esempi e pieno di spunti che ci costringono a rivedere la nostra concezione etnocentrica del mondo. “L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità” (Rizzoli) ha richiesto dieci anni di ricerche ed è il frutto di un lavoro condiviso tra David Graeber, l’antropologo americano prematuramente scomparso a Venezia nel 2020, e David Wengrow, archeologo specialista di Africa e Medio Oriente. Il libro si apre con una serie di considerazioni attorno a una domanda secondo gli autori mal posta: qual è l’origine della diseguaglianza?
Dalla fine del ‘700 le scienze sociali e di rimando l’opinione pubblica hanno oscillato tra la visione di Rousseau che identificava alle origini una condizione di generale e paradisiaca uguaglianza (un’ipotesi che lui stesso per altro presentò come una finzione) e quella di Hobbes che, al contrario, evocava uno stato di natura di violenza e grama sopravvivenza, che solo la civiltà e il progresso, con le loro inevitabili catene, avrebbero consentito di superare. A parte il fatto che queste interpretazioni di Rousseau e di Hobbes sono alquanto caricaturali, siamo sicuri che le cose siano andate così? In realtà, dicono i due studiosi, più studiamo la preistoria e più studiamo i popoli indigeni che vivevano e vivono ai margini degli imperi che li hanno colonizzati, più ci accorgiamo della molteplicità di possibilità a cui l’umanità, fin da subito, diede vita e del modo in cui, attivamente, i nostri antenati e i nostri simili in altre parti di mondo sceglievano tra più opzioni possibili.
Il libro si occupa soprattutto di quelle società che un tempo chiamavamo di cacciatori e raccoglitori, espressione che fa discutere perché tutta al maschile e perché evoca una situazione di spontaneità, un’epoca in cui gli esseri umani si sarebbero limitati ad allungare la mano per cogliere frutti già dati. Sappiamo invece che l’azione verso l’ambiente fu tutt’altro che passiva e per questo gli antropologi hanno proposto la definizione di società acquisitive. La traduttrice italiana del libro, Roberta Zuppet, introduce un’innovazione, proponendo di tradurre l’inglese foragers con foraggiatori, ovvero popoli che si procurano da vivere nell’ambiente circostante.
Torniamo agli esempi. Se prendiamo il caso delle società di foraggiatori che vivevano sulla costa occidentale americana prima della Conquista, ci imbattiamo per lo meno in due blocchi di società (quelle che un tempo si chiamavano aree culturali). Nel Nord-Ovest troviamo popoli ricchi e competitivi, che praticavano razzie e violenze, che avevano schiavi e celebravano grandiose feste, i potclath, in cui i capi rivaleggiavano per il prestigio. In California, invece, vivevano società estremamente libere ed egualitarie, resistenti al potere formalizzato e risolutamente contrarie alla schiavitù. Erano tutte società di foraggiatori che non avevano adottato l’agricoltura, sebbene le condizioni ambientali fossero ad essa favorevoli, ma erano estremamente differenti l’una dall’altra.
In diverse parti del mondo, fino a tempi recenti, molte società oscillavano stagionalmente tra forme di organizzazione comunitaria e individualista, tra momenti competitivi e di solidarietà, tra sistemi istituzionali di potere (e persino forze di polizia) e momenti di decisa anarchia. Le variazioni stagionali che Marcel Mauss studiò nelle società inuit sono un aspetto molto diffuso nella storia dell’umanità e nella stessa preistoria. E ancora, chiunque immagini una lunga infanzia dell’umano caratterizzata da piccole bande legate a un territorio specifico, leggendo questo libro dovrà ricredersi: i ritrovamenti di corredi funebri ricchi di oggetti provenienti da lunghissime distanze nei monumenti megalitici dell’Europa dell’est, delle Americhe e nei complessi urbanistici e funerari del Medio Oriente, ci parlano della diffusa esistenza di catene dell’ospitalità. Quando, agli inizi del secolo scorso, il fondatore dell’antropologia culturale Bronislaw Malinowski si imbatté, in Melanesia, in un commercio voluttuoso di beni inutili da un punto di vista pragmatico, ma altamente prestigiosi (il cosiddetto kula) praticato tra isolani che vivevano a migliaia di km di distanza, che parlavano lingue molto diverse tra loro, non immaginava che reti di scambio simili esistessero un tempo in gran parte del pianeta.
Homo pluralis, dunque. Questo libro distrugge molte nostre certezze. L’agricoltura e la domesticazione degli animali non produssero automaticamente diseguaglianze e schiavitù. Le società di grandi dimensioni non sono necessariamente più autoritarie e violente di quelle piccole. A chiuderci progressivamente nelle prigioni del progresso non sono state le tecnologie o le costrizioni ambientali in sé, bensì strategie politiche come quelle che consentono di trasformare la ricchezza economica in potere politico (e viceversa), che tanto colpirono i primi osservatori indigeni delle nostre società. I nativi americani e di altri continenti erano colpiti dalla mancanza di libertà e dall’obbedienza cieca agli ordini che missionari, militari e coloni esprimevano nei loro comportamenti.
Abbiamo molti motivi per prendere sul serio i nostri simili che vivono in altre parti di mondo o sono vissuti in altre epoche. Tra gli altri quello di trovare tra loro, nelle loro storie, vite quotidiane e istituzioni, abbondante ispirazione per non cedere all’idea che violenze, diseguaglianze e costrizioni della vita contemporanea siano approdi inevitabili.
Adriano Favole
E quanto sono illuminanti questo articolo e questo libro alla luce delle ripugnanti crudeltà e violenze che si registrano nell’invasione russa dell’Ucraina.