La responsabilità dell’esempio. Un impegno che la maggior parte dei politici non vuole assumere.

La responsabilità dell’esempio. Un impegno che la “casta dei politici” non vuole assumere

Essere classe dirigente oggi.

Nella mia relazione sulle “Classi dirigenti a Bagnoli in alcuni snodi cruciali nei secoli XVII e XIX”, tenutasi il 31 ottobre 2008, scrivevo: “Cosa può significare per noi essere classe dirigente oggi? Si sarà in grado di affrontare i problemi difficilissimi posti dal degrado ambientale crescente, dall’esaurimento delle risorse energetiche fossili mentre cresce tumultuosamente la domanda mondiale, dai mutamenti climatici, dai nuovi equilibri geo-strategici del pianeta? Bisogna riflettere sul concetto e sulla pratica reale della democrazia. Essa è un insieme di aspirazioni mai realizzate una volta per tutte. Essa richiede cittadini capaci di decidere che cosa realizzare, perché farlo e come farlo. Intanto è necessaria in tutti noi una scelta di fondo: ripudiare la democrazia della raccomandazione, della corruzione e dell’ignoranza, optare per la democrazia del controllo, del merito, della serietà. Questo è un obiettivo del lavoro del nostro Circolo, e dovrebbe esserlo anche dei partiti politici e di tutte le associazioni del paese. Impegno comune per un progetto di educazione civile della società bagnolese. Puntare a far diventare, con lavoro serio e graduale, ogni cittadino di Bagnoli elemento di classe dirigente. Esaltare la soggettività politica e culturale di ognuno di noi. Una classe dirigente non deve trasformarsi in una casta digerente, per dirla con una formula giornalistica di successo. Questa sana, urgente, necessaria critica alla classe politico-istituzionale non può e non deve essere trasformata e deformata nell’accusa di qualunquismo antipolitico. Ma questo sarà realmente possibile solo se i cittadini, tutti i cittadini, garantiranno a se stessi informazione, competenza, onestà, impegno”. Mi interrogavo naturalmente, in quella sede, sul contributo che il Circolo “Palazzo Tenta 39” poteva dare per far maturare questa consapevolezza e questa responsabilità. E’ scontato: la piccola comunità del paese subisce il condizionamento e l’impatto degli esempi che vengono dalla grande comunità nazionale. E’ doveroso, perciò, chiedersi quale sia la situazione generale allo scadere di questo anno 2009.

In primo luogo sono convinto che occorra cominciare a dire la verità, anche se scomoda. Abbiamo un handicap fortissimo: il debito pubblico è passato dal 57% del Pil nel 1982 al 124% nel 1994, è sceso al 104% nel 2007 per riprecipitare al 118% a fine 2009. Significa che rispetto agli altri paesi spendiamo il doppio per pagare gli interessi. Il dato, unito alla spesa previdenziale più alta d’Europa, assomma a un 20% del Pil contro il 15% degli altri. Tradotto: in Italia si devono pagare più tasse per avere meno servizi. L’unica via d’uscita è essere più produttivi: lavorare di più e meglio. Nessuno l’ha mai detto con chiarezza. Il nostro indice di diseguaglianza distributiva è il più alto d’Europa e così il livello di povertà relativa. Le classi dirigenti sembrano inadeguate e parassitarie, non solo quella politica, il cui discredito ha raggiunto livelli inaccettabili: c’è una specie di spappolamento generale. In Italia non si elabora e non si discute, si urla e si insulta con scene di infimo livello e, in più, siamo tutti in balia del primo spot che passa in tv. Braccia rubate all’agricoltura, si sarebbe detto una volta.

Mi sembra che una mutazione antropologica si sia già prodotta. La nostra è diventata una società rancorosa, risentita. Un paese, il nostro, percorso da una specie di rabbia da frustrazione, un sentimento violento vissuto di solito sul piano dei rapporti personali, ma che ora diventa sentimento collettivo, avvelena i rapporti sociali e si sfoga in una sorda ribellione contro tutto e tutti. E’ questa una prospettiva nuova da cui guardare a fenomeni eclatanti: la disintegrazione sociale, il razzismo anti-immigrati, la lotta politica nelle sue forme più isteriche. Ma anche per capire come dalla società salgano richieste legittime che, lasciate a lungo senza risposta, finiscono fatalmente per irrancidire e prendere forma di risentimento. Il risentimento è una cifra caratteristica di questi ultimi 15 anni e mostra come la politica non ha dato al rancore che sale dalla società espressione e risposte ma solo voce e amplificazione, così alimentandolo e moltiplicandolo. Contribuiscono a nutrirlo i mass-media (alcuni soprattutto) che si saldano alla cattiva politica nella costruzione di vere e proprie agenzie del risentimento. Anche nei mitici anni Sessanta (ma, in fondo, in ogni epoca) a occuparsi di politica era una minoranza. Attiva e rumorosa, ma minoranza. E gli “impegnati” disprezzavano gli “integrati”, perché pensavano solo alla Seicento e al posto in banca (oggi l’Alfa e una comparsata in tv). Le proporzioni sono rimaste abbastanza invariate: una maggioranza menefreghista, una minoranza preoccupata. Però si è totalmente ribaltata la direzione in cui viaggia il disprezzo: oggi sono i conformisti a disprezzare gli irrequieti. La massificazione dei comportamenti e dei gusti ha galoppato e stravinto. Lo zelo consumista è la sola identità largamente condivisa. Cultura, spirito critico, dignità personale appaiono a molti un inutile impiccio. Una volta gli integrati erano in genere felicemente spensierati simpatici fresconi, oggi sembrano stressati e incattiviti acidi furbetti. Un tempo il conformista era un anonimo che chinava il capo, oggi è un arrogante che disprezza le regole. Oggi un cinismo gretto e facilone ha soppiantato i famosi “buoni sentimenti” che i nostri vecchi rimpiangono. Forse non erano così buoni quanto i loro ricordi ma è fuori dubbio che, nell’opinione e nel linguaggio corrente, non sono stati rimpiazzati da forme di moralità (o almeno di giudizio) più moderne, meno ipocrite. Sono stati contraddetti in blocco da una bassa furbizia, la stessa che nella commedia dell’arte (la nostra più autentica eredità culturale) anima le parole del servo. Resterebbe da capire come mai questa ignobiltà di giudizio (che dilaga ovunque ma addirittura trionfa nella stampa di Destra) abbia così fortuna in un paese che ama dirsi cattolico, e cioè intriso di una cultura che della bontà fa uno dei suoi capisaldi. Il mio sospetto è che il moralismo, specie quello gerarchicamente imposto, non generi moralità. Questo fa difetto a molti di noi italiani. Si oscilla tra moralismo e immoralità, tra retorica e cinismo, tra le parabolette strappalacrime e il miserabile narcisismo dei reality show e del velinismo imperante (lo ha scritto molto bene M. Serra).

Vittorio Foa, poco prima di morire, aveva lamentato che forse il degrado della politica stava proprio nel pensare solo a se stessi. Colpisce che non si parla mai dell’esempio, l’esempio non esiste più come categoria di giudizio del proprio e dell’altrui comportamento. Anche a sinistra la politica dell’esempio è venuta meno, come se i valori bastasse predicarli, non viverli e praticarli. Una rinascita sarà possibile solo se ciascuno pensa a ciò che fa, cioè a chi giova e chi danneggia la propria azione. La nostra rieducazione civile riparte nelle case, nelle scuole, negli ospedali, nelle strade, nella vita personale di ciascuno di noi. Si denuncia da più parti con spietatezza la situazione italiana. I nostri ritardi strutturali e ormai patologici non derivano dalla concorrenza internazionale ma dalla nostra incapacità e mancanza di volontà: sono il debito pubblico, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la scarsa propensione al rischio e all’innovazione degli imprenditori, il sistema finanziario inadeguato, il sistema formativo obsoleto, un mercato del lavoro troppo rigido e inadatto a un’economia aperta, il devastante divario nella redistribuzione del reddito tra lavoratori dipendenti con imposte trattenute e lavoratori autonomi su cui la pressione fiscale dipende dalle loro dichiarazioni. Con l’adozione dell’ euro noi italiani, ceti dirigenti compresi, non abbiamo percepito che dal punto di vista economico siamo tenuti a comportarci come le virtuose regioni tedesche e che, non facendolo, non reggiamo all’impatto di una moneta sempre più forte, l’euro-marco che portiamo in tasca. Per contro, nella nostra stragrande maggioranza ci comportiamo come ai tempi della lira ed esprimiamo una cultura e una filosofia di vita appartenenti al bel tempo della finanza allegra e del debito crescente accumulato sulle spalle di figli e nipoti.

Il politico de-responsabilizzato non produce più né analisi né programmi e neppure utopie ma narrazioni fantastiche, spettacoli, irresponsabili per loro natura. Non sono bugie ma invenzioni. La scena ha realmente sostituito la realtà. E’ in gioco lo stesso principio della rappresentanza poiché l’eliminazione della realtà ha come conseguenza logica l’idea di una simbiosi tra il politico e il suo rappresentato, idea che sta al fondamento di ogni demagogia e di ogni populismo.

L’Occidente ha subìto una serie di shock, di cui alcuni sono duraturi: un balzo all’insù dei prezzi dell’energia, delle materie prime, dei prodotti agricoli di base. Di conseguenza esso deve trasferire una maggiore quantità di risorse ai paesi produttori ed esportatori: è l’equivalente di una tassa. Non si può rincorrere questi aumenti con aumenti dei redditi nominali lordi: ci sarebbe più inflazione. Bisogna stimolare la crescita della produttività e collegarla più strettamente alla dinamica dei redditi da lavoro. Ma non si tratta di soli salari. La tassa energetico-agricola è iniqua perché fortemente regressiva. Come ogni imposta indiretta percuote più pesantemente i redditi più bassi e si riduce con l’aumentare del reddito. I più ricchi neppure si accorgono degli aumenti dei prezzi dei carburanti, dei treni, di luce e gas, dei mutui. Ancora di più questo è vero in Italia dove i salari sono più bassi e la disuguaglianza è più pronunciata.

Come si può vedere, il quadro che delineo è pessimista ma questo dovrebbe spingere i responsabili politici e culturali, e ogni singolo cittadino, a un di più di impegno e di coscienza civile, a un’assunzione di responsabilità, a dare un piccolo buon esempio di serietà e di rigore.

 

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

28 dicembre 2009