La biblioteca del figlio di Cristoforo Colombo
Nella cattedrale di Siviglia c’è un’antica biblioteca che racchiude perle e sorprese. La volle Fernando Colombo, figlio di Cristoforo e collezionista sfrenato di volumi. Un libro, “Il catalogo dei libri naufragati” di Edward Wilson-Lee, ripercorre ora la sua impresa folle: raccogliere tutto ciò che era stato stampato.
Nel “Venerdì” di Repubblica del 4 gennaio 2019 è stato pubblicato questo articolo di Marco Cicala, alle pp. 14-19.
Perché in punto di morte Fernando Colombo, secondogenito di Cristoforo, chiese una ciotola piena di terra da spalmarsi sulla faccia? Perché voleva che nella sua biblioteca avveniristica i lettori venissero rinchiusi in gabbia? Che cos’era l’arcano “Libro delle profezie”, e perché ne furono strappate via quattordici pagine? Che cosa si nascondeva in quelle pagine? Se, com’è giusto, avete imparato a detestare i thrilleroni storico-esoterici non cambiate subito canale: “Il catalogo dei libri naufragati”, in uscita da Bollati Boringhieri, non appartiene né ammicca al genere. Per quanto molto narrativo, non è un romanzo, ma un saggio. L’ha scritto un professore di Cambridge, Edward Wilson-Lee, che mi spiega: “Mi sono imbattuto nella storia di Fernando mentre studiavo il mondo dei primi testi stampati. Mi sembrava incredibile che non fosse ancora abbastanza conosciuta. Era come se l’impresa della sua vita fosse stata archiviata nella sezione sbagliata di un’enorme biblioteca, andando perduta finché qualcuno non ci fosse inciampato sopra per caso”. E così adesso eccola riacciuffata dal pozzo nero del tempo. Ma andiamo per ordine.
Cadice, 9 maggio 1502: quattro caravelle salpano verso i Caraibi. A bordo dell’ammiraglia, la Capitana, ci sono –tra gli altri- il cinquantenne Colombo e Fernando, suo figlio naturale di nemmeno 14 anni. Il ragazzo è nato a Cordova da un’avventura tra il navigatore e un’orfana di nome Beatriz Enriquez de Arana. Cristoforo è stato un papà assente, tanto preso dal lavoro –capirete, doveva scoprire le future Americhe– però ha lascitao il pargolo in buone mani. Alla corte dei Re Cattolici, Fernando ha avuto come insegnanti i migliori umanisti. E’ un adolescente riservato, meditativo. Per via delle origini non esattamente blasonate, i rampolli del patriziato lo snobbano. Lui incassa, mastica amaro, rumina sentimenti di rivalsa. E perciò in quella primavera di inizio Cinquecento lo immaginiamo raggiante sul ponte del vascello accanto al padre, veleggiando verso un ignoto che le esplorazioni stanno rendendo un po’ più noto. Sponsorizzata come le altre dalla Corona spagnola, questa è la quarta e ultima spedizione di Colombo alla ricerca dell’Oriente passando da Ponente. Durerà due anni, e fra uragani, ammutinamenti, conflitti coi nativi, non sarà meno turbolenta delle precedenti. Per Fernando, che più tardi ne riferirà in minuziosi resoconti, fu uno strabiliante viaggio di formazione.
I mari caraibici sono un parco delle attrazioni che affascina e spaventa. Per dire: un giorno a Santo Domingo una delle caravelle comincia a muoversi da sola a zigzag sull’acqua. Inorridito, l’equipaggio grida al maleficio, alla stregoneria, per poi accorgersi che un animale delle dimensioni di un grosso letto si è impigliato sotto la chiglia e divincolandosi ha trascinato via la nave. E’ una manta gigante. Ma dal novero delle meravigliose bestiacce tropicali spunteranno anche gatti immensi –in realtà scimmie ragno- che aggrediscono maiali selvatici o vitelli di mare (lamantini) che pascolano nelle acque basse, tipo bovini sui prati. Non sempre le cose girano bene, però Colombo si destreggia tra le insidie con genialità e, come spesso càpita agli audaci, è assistito pure da un notevole fattore C, ha una fortunaccia. A un certo punto in Giamaica gli indigeni Taino cominciano a farsi minacciosi e lui che s’inventa? Annuncia che quella notte la luna verrà inghiottita dalle tenebre. Quando il prodigio si realizza, gli indios se la danno a gambe, terrorizzati. Cristoforo ha perfettamente calcolato un’eclisse lunare e ci ha scommesso su.
In un clima avvelenato da avidità, invidie cruente, tradimenti, feroci dispute sulla proprietà delle nuove terre, Fernando sarà testimone dei successi e dei rovesci di suo padre. Ma di Colombo contribuirà a fabbricare il mito eroico, il marketing dell’uomo solo al comando contro venti e maree, del visionario che sentendosi investito di un mandato superiore sfida l’ingratitudine, la meschinità, il conformismo dei suoi contemporanei. Fernando diverrà l’agiografo di Cristoforo, praticamente il suo evangelista, ma riuscirà pure a lanciarsi in un’avventura del tutto personale che, come quella paterna, reca i tratti dell’ossessione, della dismisura, vuoi della megalomania.
Per riscoprirne i segreti bisogna infilarsi in una porticina sul lato nord della cattedrale di Siviglia. Su una targa c’è scritto Institucion Colombina. Da un quarto di secolo ne dirige la biblioteca la dottoressa Nuria Casquete de Prado, che adesso mi guida sotto grandi volte, lungo antichi corridoi. In una teca ha fatto sistemare il manoscritto del Libro de las Profecias. E’ la raccolta di citazioni bibliche compilata da Cristoforo Colombo per conferire legittimazione teologica a quanto andava facendo. L’idea era dimostrare come la scoperta del Nuovo Mondo fosse stata seppur criticamente annunciata dalle Sacre Scritture, “primo passo”, scrive Wilson-Lee, “verso una condizione essenziale del progetto divino per la Fine dei tempi, ossia l’evangelizzazione universale e la conversione delle genti”. In altri termini, puntellandosi con le parole di Isaia, Ezechiele o dei Salmi, lo scaltro Colombo provava ad accreditare se stesso come agente messianico del disegno provvidenziale. Fa un certo effetto osservare le righe vergate di suo pugno dall’Ammiraglio del Mare Oceano. Ma sul Libro delle Profezie potrebbero essere intervenute più mani. Forse anche quella di Fernando.
A lui si deve la creazione di una tra le più grandi biblioteche private del mondo. “Arrivò a oltre 15mila titoli, cifra enorme per l’epoca”, racconta la direttrice. “Oggi qui ne restano seimila volumi”. Tra quelli lasciati da Cristoforo, un’edizione del Milione di Marco Polo e l’Imago mundi di Pierre d’Ailly, entrambi voracemente chiosati sui margini dal navigatore. Se l’unificazione geografica del mondo sotto un’unica fede fu l’enfatico progetto dell’Ammiraglio, quello di suo figlio ne costituì una specie di prolungamento intellettuale. Obiettivo: metter su una biblioteca che contenesse/ordinasse il sapere universale. Mica poco.
Dopo la morte del padre, nel 1506, Fernando si trasforma in un indiavolato cacciatore di libri. Per comprarne s’indebita, schizza da Roma a Venezia, da Norimberga ad Anversa, da Parigi a Londra… Appena entrato in possesso di un volume ci appunta sopra data, luogo e prezzo dell’acquisto. Colombo jr. vive in movimento e la sua traiettoria di bibliomane finisce per diventare specchio di un secolo rivoluzionario, un secolo che forza i vecchi lucchetti delle conoscenze acquisite fino a farli saltare. Fernando è ubiquo. Come un Forrest Gump rinascimentale, lo vediamo comparire ovunque. Ad Aquisgrana assiste all’incoronazione imperiale di Carlo V, a Roma partecipa al vernissage della Cappella Sistina, a Lovanio incontra Erasmo da Rotterdam e lo tampina per ottenere una copia autografata del suo “Antibarbarorum liber”.
A Hernando –come lo chiamano in patria- la monarchia spagnola assegna missioni da cartografo, diplomatico e forse perfino da agente segreto. Lo troviamo anche in pellegrinaggio a Genova per indagare sulle origini di suo padre, ma nella biografia di Cristoforo –che si intitolerà Historia del Almirante e della quale non è sicuro che il figlio sia stato l’unico autore- quelle origini resteranno prudentemente sfumate: dato che se ne sta confezionando il santino, meglio glissare sul fatto che Cristòbal Colòn proveniva da un’umile famiglia di tessitori, e soprattutto che non era spagnolo.
Quando Fernando si tuffa nel suo shopping compulsivo, l’invenzione di Gutenberg ha all’incirca mezzo secolo di vita. Benché stiano aumentando vertiginosamente, i libri stampati non sono ancora un’infinità. Il desiderio di possederli tutti è perciò un po’ meno delirante di quanto potrebbe apparire oggi. Se non fosse però che Colombo jr si fa prendere la mano. Non si limita a comprare volumi, spende anche in stampe, libelli, opuscoli, fogli satirici… E poi testi in greco, ebraico, arabo, armeno o ge’ez, la lingua etiopica.
Rendendosi conto che tutta quella roba non riuscirà mai a leggerla, s’ingegna su come catalogarla: “Fu un pioniere nella classificazione per autori, materie e addirittura per abstracts, diremmo oggi”, spiega Casquete de Prado. I libri vengono spediti a Siviglia e accumulati nella casa di stile italiano che Fernando si è fatto costruire sopra un vecchio letamaio sulle rive del Guadalquivir. Qualche carico va perduto durante il trasporto, come i 1637 volumi affondati nel Golfo di Napoli che danno il titolo al saggio, ma quelli che arrivano a destinazione sono “disposti in verticale, con il titolo e il numero di collocazione sulla costa”. Le condizioni di accesso ai tomi rasentano il sadismo. Per i lettori ospiti era prevista “una grata di metallo posizionata a circa due metri dagli scaffali” che li avrebbe intrappolati “come subacquei in una gabbia anti-squali”. L’inferriata “sarebbe stata abbastanza larga da permettere di infilare le mani tra le sbarre e voltare le pagine dei volumi, che i bibliotecari avrebbero sistemato appositamente su dei leggii, ma troppo stretta per far passare un libro”. Fernando era stato traumatizzato dalle notizie delle biblioteche depredate o distrutte durante il Sacco di Roma e non voleva sorprese. Sui custodi che avessero sgarrato alla disciplina pendeva la minaccia di severi castighi.
Ma la biblioteca non era destinata tanto alla consultazione quanto alla conservazione, una sorta di Fort Knox dello scibile stampato. Edward Wilson-Lee si spinge fino ad affermare che, con i suoi innovativi metodi di catalogazione, il lavoro di Fernando fu “una premonizione fenomenale del mondo di Internet, di motori di ricerca e database”. Se ne può discutere. Di certo, “se la si guarda dalla nostra prospettiva, cioè quella di una società che sta vivendo un’altra esplosione dell’informazione, diventa evidente che la sua vita fu una straordinaria avventura. Fernando era convinto che la biblioteca universale avrebbe cambiato il corso della Storia”. E invece oggi non è che sia conosciutissima.
“Comunque qui è venuto in visita anche Umberto Eco” mi comunica la direttrice. Durante la visita, mi mostra l’immancabile passaggio segreto dietro gli scaffali. Sorride: “Ormai è murato da tempo. Ma guardi che in queste sale continua ad aggirarsi il fantasma di Fernando”. Ah sì? E come si manifesta? “Ci manda regolarmente in tilt i computer”. Non è carino da parte di un precursore di Internet.
Fernando muore a Siviglia nel 1539, scapolo e senza figli. E’ sepolto nella Cattedrale a poca distanza dal padre, ma in una tomba assai meno appariscente di quella del genitore. Sulla sua lapide sono scolpiti quattro libri aperti con incise sopra in spagnolo le parole: “Autori, Scienze, Epitomi, Argomenti”, ossia i principali cataloghi utilizzati per orientarsi nell’Oceano di libri. Una vera fissa. In agonia Fernando aveva chiesto che gli venisse portata al capezzale una codella con dentro un po’ di fango del fiume. Lo accontentarono e con le ultime forze lo videro ricoprirsi il volto di terra pronunciando in latino la frase “ricordati che polvere sei e in polvere ritornerai”.
Anche la biblioteca delle biblioteche rischiò di polverizzarsi. Nel testamento Fernando lasciò in eredità i 15387 volumi al nipote di Colombo, Luigi, uno scavezzacollo per niente interessato alla lettura ma parecchio alle sottane, tanto che secondo una delle innumerevoli leggende sarebbe stato tra gli ispiratori del personaggio di Don Giovanni. Ad ogni modo, vista l’indifferenza del giovanotto, i libri vennero trasferiti prima in un monastero e poi nella Cattedrale dove oggi, accanto al Patio de los Naranjos, se ne conserva meno della metà. L’Inquisizione fece sparire molti testi ritenuti eretici: quelli di Lutero e Melantone o dello stesso Erasmo, del quale si diceva che “aveva deposto l’uovo della Riforma, poi covato da Lutero”. Altri documenti preziosi –tipo i diari di bordo di Colombo- finirono rubati o dispersi attraverso i secoli. E’ mistero fitto anche sulle quattordici pagine (28, 63-66, 68-76) sottratte dal Libro delle Profezie. Però, fate il favore, non ditelo a nessuno. Di questi tempi c’è sempre qualche Dan Brown in agguato dietro l’angolo.
Marco Cicala