Luis de Gòngora (1561-1627), “Memento della morte e dell’inferno”, 1612
Urne plebee, tumuli reali,
penetrate senza paura, miei pensieri,
là dove già il carnefice dei giorni
con ugual piede fece passi disuguali. 4
Meditate tante vestigia di mortali,
ossami nudi e ceneri fredde,
nonostante le vane, se non pie,
cure di cari balsami orientali. 8
Poi scendete all’abisso, alle cui volte
bestemmiano anime, e in carcere duro
ferri sempre si odono, e pianto eterno, 11
se vi preme, o pensieri, perlomeno
da morte liberarvi con la morte
e vincere l’inferno con l’inferno. 14
da “Sonetti funebri”, 1612
Urnas plebeyas, tùmulos reales,
penetrad sin temor, memorias mìas,
por donde ya el Verdugo de los dìas
con ugual pie dio pasos desiguales. 4
Revolved tantas senas de mortales,
desnudos huesos y cenizas frìas,
a pesar de las vanas, si no pìas,
caras preservaciones orientales. 8
Bajad luego al abismo, en cuyos senos
blasfeman almas, y en su prisiòn fuerte
hierros se escuchan siempre, y llanto eterno, 11
si querèis, oh memorias, por lo menos
con la muerte libraros de la muerte,
y el infierno vencer con el infierno. 14
Sonetto formalmente impeccabile, frigido nella sua perfezione. La letteratura spagnola del primo ‘600, così aperta al realismo e al popolare, equilibra la spinta verso il basso con un bisogno di dignità e di sfarzo: il cattolicesimo controriformista non sa opporre ai dogmi che l’esile obiezione del bisticcio letterario. In questione, qui, è la salvezza dell’anima. La “memoria” non è quella psicologica e soggettiva –è il “memento” religioso che, con la visione allegorica, conduce sulla retta via. L’anima si salva dalla morte spirituale meditando sulla morte fisica, che eguaglia poveri e potenti; immaginando le pene infernali, il fedele eviterà di finire all’inferno. E’ come gli scheletri di marmo che adornano le chiese barocche: un kitsch funzionale alla manipolazione ideologica delle folle. Ma in questo sonetto che sfrutta il miglior petrarchismo italiano (da Petrarca fino a Marino passando per Tasso) lo spunto devozionale è sviluppato con un’abilità tecnica e costruttiva di aristocratica consapevolezza.
Gòngora appartiene alla scuola letteraria detta “culteranesimo”, che si potrebbe tradurre con “eruditismo”; una scuola che si oppone alla corrività linguistica riesumando arcaismi e preziosismi di origine latina (Gòngora è di Cordova, patria di Seneca e Lucano, a lungo isola romana in terra araba), costruzioni sintattiche insolite, metafore ardite. Sostantivi come “urnas, tùmulos (v. 1), senas (v. 5), preservaciones (v. 8)” (gli aromi che servivano per conservare i cadaveri); giri sintattici come “vanas si no pias” (v. 7) (vane anche se pie, vane eppure pie, vane a meno che non le si consideri pie); le inversioni, l’eliminazione degli articoli (blasfeman almas (v. 10), hierros se escuchan (v. 11)) –tutto denota un desiderio di elevarsi sopra il discorso comune per ottenere una lingua senza tempo, universale. La struttura logica e quella metrica si rafforzano a vicenda: le quartine esplorano lo spazio delle tombe, che si presume sotterraneo (penetrad), la prima terzina scende fino all’abisso infernale concepito come un’architettura (senos sono le cavità ma anche le vele murarie tra gli archi delle volte) e infine l’ultima trae la morale e stupisce con l’acutezza concettuale dei due paradossi paralleli. Endecasillabi sonori, prevalente l’accento canonico di sesta tranne la voluta eccezione del v. 10 (dove l’anomala accentazione di quarta e nona sottolinea la disarmonia); al v. 8 un tour de force di altissimo artigianato: tre sole parole per tessere un intero endecasillabo fitto di suoni liquidi e sibilanti.
Se fosse tutto qua, Gòngora sarebbe bravo e basta; Mallarmé e Ungaretti non l’avrebbero ammirato tanto. Che c’è nel suo barocco che lo unisce al Novecento, superando quasi tre secoli che non l’hanno amato, dalle ironie di Quevedo fino al disprezzo di Shelley e Hugo? C’è prima di tutto l’urto violento tra pesante materialità e speculazione astratta, senza la mediazione “borghese” del sentimento; il tempo che passa è “il carnefice dei giorni”, come se i giorni fossero creature infelici da torturare o da decapitare; ai vv. 10 e 11 il rumore di ferraglia, le bestemmie e il pianto resuscitano l’espressionismo dantesco. Siamo nell’epoca degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che appunto partivano da oggetti concretissimi (come il legno della croce o i sassi sulla via del Calvario) per arrivare all’identificazione con Cristo e all’accensione mistica.
Ma Gòngora, lo sappiamo dalla sua biografia, era tutt’altro che un uomo spirituale: a poco più di vent’anni era entrato nella carriera ecclesiastica e a più di cinquanta diventerà sacerdote ma solo per ottenere la nomina a cappellano del Re. Vocazione zero, anzi continui rimproveri da parte dei superiori perché amava il gioco, le donne, le corride. Appena può si dedica alla letteratura, che è il suo vero dio. Dunque i detrattori avevano ragione, i suoi sonetti penitenziali sono falsi, pura retorica per non dire ipocrisia? No, il genio può filtrare anche attraverso la superficialità morale: proprio dall’assenza di una fede sincera nasce una vertigine più alta dell’ortodossia dottrinaria. La Spagna intorno a lui è una potenza che si sta sfaldando e non lo sa ancora; la nobiltà che gli commissiona i sonetti sprofonda in un’alterigia sempre più immotivata; tutto muta e sotto i mutamenti non resta nessun punto fermo. Se gli ammaestramenti dei preti lo lasciano freddo, nella devozione esclusiva alla letteratura Gòngora intuisce un negativo di più lunga portata (nessun accenno a un paradiso possibile, solo sconfiggere l’inferno con l’inferno). Il suo “memento mori” è più radicale dell’occasione liturgica; come dietro le pareti bombate di Borromini, nei suoi vuoti risonanti sonetti si sospetta che (altro endecasillabo-performance) tutto finisca “en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada” (“in terra, fumo, polvere, ombra, nulla”).
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 22 giugno 2014, p. 62
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