Perché le tasse sono roba da poveri

Perché le tasse sono roba da poveri

Da Trump che dichiara 750 dollari come reddito annuo a Zuckerberg che è senza stipendio. E’ così che aumentano le disuguaglianze. Ma per Emmanuel Saez la soluzione c’è.

 

All’indomani dello scoop del New York Times sull’elusione monumentale di Donald Trump che per 11 anni su 18 ha pagato zero tasse federali e che l’anno dopo la sua elezione ha versato ben 750 dollari, poco più di un pernottamento nelle Trump Tower di New York, l’uomo meno sorpreso del mondo era Emmanuel Saez. Economista francese a Berkeley, tra i massimi esperti di disuguaglianze, amico e socio di Thomas Piketty in tanti studi, è –con Gabriel Zucman- l’autore di “Il trionfo dell’ingiustizia” (Einaudi, pp. 240, euro 17,50), che dovrebbe diventare lettura obbligatoria per ogni politico che non abbia ancora definitivamente rinunciato alla partita sulla giustizia sociale.

Il libro inizia proprio ricordando un incontro televisivo in cui Hillary Clinton rinfacciava a Trump nel 2016 ciò che il quotidiano newyorchese ha confermato e quantificato oggi. Il miliardario (presunto) non aveva negato, ma rilanciato: “Già, (pago poco) perché sono furbo”. Il finale è noto. La sua replica, d’altronde, riecheggiava l’assimilazione del prelievo fiscale a rapina quotidiana magistralmente inserita nella psiche collettiva americana da Ronald Reagan. Il libro si occupa di uno dei più resistenti tabù della politica contemporanea, tanto a destra quanto nel centrosinistra. Ovvero, per dirla con il sottotitolo, di “come i ricchi evadono le tasse e come fargliele pagare”.

750 dollari, professore: come è stato possibile? Secondo lei questa rivelazione danneggerà Trump?

Senza tasse non esiste collaborazione, non esiste ricchezza, non esiste destino comune: non esiste nemmeno un Paese che ha bisogno di un presidente. Tuttavia dagli anni ’80 il sistema statunitense avvantaggia i ricchi a danno dei poveri. Nel 1970 i ricchi versavano al fisco oltre metà del proprio reddito, cioè il doppio dei lavoratori. Nel 2018, dopo l’ultima riforma fiscale di Trump, per la prima volta in cento anni i miliardari ne hanno pagate circa il 23%, meno di metalmeccanici, insegnanti e pensionati. Quanto al danno, forse a Trump nuocerà di più la rivelazione di non essere quel gran imprenditore che dice di essere dal momento che ha evitato le tasse a causa di gravi e costanti perdite.

Ma zero è decisamente meno del 23% : come ha fatto?

Verosimilmente come fanno tanti ricchi. Sfruttando la quantità di esenzioni previste da un codice da cambiare. Gli utili societari non distribuiti sono esenti dal fisco. Dividendi e interessi idem. Una sola categoria non gode di sconti: i redditi da lavoro. Basta trasformarli in redditi da capitale e li si rende quasi esenti da imposte.

E’ il motivo per cui Zuckerberg, Bezos e tanti altri plutocrati non hanno stipendi.

Nel 2015, per prendere le distanze da miliardari fiscalmente infedeli Warren Buffet ha fatto sapere di dichiarare un reddito di 11 milioni e di pagare tasse per 1,8 milioni. La sua ricchezza è però di oltre 60 miliardi e anche stimando che gli renda solo il 5% all’anno la sua aliquota sarebbe stata dello 0,05%. Accumula la sua ricchezza trattenendola dentro la società, al riparo dal fisco. E quando ha bisogno di contante vende un’azione che ormai vale circa 300mila dollari.

Come si raddrizzano storture del genere?

Con una patrimoniale del 2% oltre i 50 milioni di dollari e del 3 oltre il miliardo, simile a quella proposta dalla senatrice Elizabeth Warren. Buffet verserebbe al fisco circa 1,8 miliardi all’anno, ovvero mille volte di quanto fa adesso. Lui resterebbe ricchissimo e con quei soldi potrebbero essere finanziati, per esempio, i congedi maternità o gli asili nido, entrambi inesistenti negli Usa. Oltre, ovviamente, alla sanità per tutti.

Ma la patrimoniale è una kryptonite politica. Anche il suo ex presidente Francois Hollande era stato eletto su quella promessa, salvo rimangiarsela appena insediato.

Facciamoci questa semplice domanda: la gente sta meglio adesso o fino agli anni ’80 quando l’aliquota marginale era del 78%, per non dire del 91% in vigore dal 1951 al 1963? Grazie a questa mancata redistribuzione dal 1980 a oggi lo 0,001% degli americani più ricchi ha visto il proprio reddito crescere di oltre il 600% contro lo 0,1% annuo della metà più povera della popolazione. Le tasse, mal gestite, sono un moltiplicatore di disuguaglianza.

Oltre alla patrimoniale, però, voi segnalate tanti altri problemi. A partire dal fatto che negli ultimi 40 anni le imposte sulle aziende siano state dimezzate. Nel 2017 Trump le ha portate dal 35 al 21%, ma in Irlanda sono al 12,5 e alle Bermuda, dove Google ha trasferito il cuore dei suoi ricavi prima della quotazione, zero. E’ una tendenza inevitabile?

No, sono scelte. Per queste differenze il 40% delle multinazionali nel mondo registra i profitti in Paesi dal fisco vantaggioso, sottraendo imponibile nei luoghi in cui la ricchezza viene prodotta. Noi proponiamo che gli Stati divengano esattori di ultima istanza: se una multinazionale paga il 12 in Irlanda mentre in Italia dovrebbe pagare il 24, Roma può pretendere che versi la differenza. Per cambiare le leggi fiscali nella UE serve l’unanimità e questo è il motivo per cui la digital tax non passa: alcuni Paesi hanno fatto degli sconti fiscali il loro business primario. Niente vieta però a singoli Paesi come Germania, Italia, Francia e Spagna di agire in autonomia. Il loro esempio farebbe scuola. Una proposta di Biden (che pure votò sì nel 1986 al taglio delle tasse di Reagan) va in questa direzione.

Sarebbe la fine dei paradisi fiscali?

Senz’altro un brutto colpo. Come lo è stato il Fatca, la legge del 2010 voluta da Obama che obbliga le banche straniere a comunicare se americani aprono conti presso di loro, per rivalersi su di loro; ha segnato l’inizio della fine del segreto bancario svizzero. E non solo.

E poi proponete una tassa progressiva sul reddito che tenga conto anche di plusvalenze, dividendi e tutto ciò che arricchisce una persona…

Questo è più difficile in Europa che negli Usa perché da voi vige la mobilità all’interno degli Stati membri, per cui se la Francia alza le tasse puoi trasferirti in Irlanda mentre, a meno di rinunciare alla cittadinanza, se sei americano le tasse dovrai sempre pagarle lì. Però si potrebbe rendere la vita difficile a chi valuta di trasferirsi, obbligando a versare le imposte nel paese d’origine per 5 o 10 anni dopo il trasferimento. Sarebbe un forte disincentivo.

Perché tassare di più i ricchi farebbe bene alla società nel suo complesso?

Perché il denaro si trasforma in potere e il potere a sua volta costruisce le condizioni per il perpetuarsi del denaro. E’ la storia degli ultimi 40 anni. Nel dopoguerra, con quelle altissime aliquote marginali e con imposte di successione quasi confiscatorie (fino all’80% mentre oggi la media è del 17 e solo per patrimoni oltre i 5 milioni), si sono trovati i soldi che hanno consentito la creazione della classe media più prospera della storia. Noi riteniamo che, per i ricchi, un’aliquota del 60% sarebbe quella ideale per massimizzare l’imponibile a favore di tutti.

Che è più del doppio di quella attuale, non proprio un ritocco. Nel simulatore che avete costruito ci si accorge che, anche con Biden presidente, le aliquote non cambierebbero molto rispetto a Trump. I cambiamenti radicali ci sarebbero stati con Sanders e Warren di cui siete stati consulenti ma che, senza dubbio, hanno perso. Cos’è che non vi fa perdere la speranza?

In quel simulatore, costruito su Taxjusticenow.org, ognuno può vedere come cambierebbero le cose per le varie fasce di reddito modificando le aliquote. E anche accorgersi di quanto meno ricchi sarebbero stati Bezos e gli altri se le tasse non li avessero così scandalosamente favoriti. Con quei soldi avremmo avuto un’America migliore. Di tutto questo parliamo anche con lo staff di Biden e con i governatori di New York e della California. Di qui la nostra speranza.

 

                   Riccardo Staglianò         Emmanuel Saez

 

Questo articolo di Riccardo Staglianò è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 9 ottobre 2020, alle pp. 54-57.