Siamo ebrei e anche arabi. 1948. Palestina.
Matti Friedman, commentatore del New York Times, racconta la storia di quattro agenti segreti reclutati prima della nascita dello Stato di Israele e poi messi da parte.
Sono quattro i protagonisti dell’affascinante libro di Matti Friedman, “Spie di nessun paese. Le vite segrete alle origini di Israele” (Giuntina). Si chiamano Gamliel, Yitzhak, Havakuk e Yakuba. Sono ebrei, due di loro nati in Siria, uno nello Yemen e uno a Gerusalemme, e hanno fra i 20 e i 25 anni. Oltre ai loro nomi veri, hanno quelli di copertura: Yussef, Abdul Karim, Ibrahim, Jamil. I quattro sono ebrei mizrahi, provenienti cioè da quel mondo che faceva parte dell’universo arabo e islamico, e hanno assunto una seconda identità, quella appunto di arabi musulmani, per fare le spie. Agenti per conto di chi?
Siamo ai primi mesi del 1948. Il territorio che oggi è Stato di Israele ha lo status del Mandato britannico. Ma il governo di Sua Maestà non ha intenzioni di perpetuare il suo potere su quel lembo di terra che dovrebbe essere spartito, in base a una risoluzione dell’Onu, fra due nascenti Stati, uno degli ebrei e l’altro degli arabi, e che è già teatro di scontri fra i due popoli. In quella situazione i quattro protagonisti vengono arruolati nella nascente sezione araba del Palmach. Il Palmach, a sua volta, è l’acronimo ebraico di “battaglioni d’assalto”, la più elitaria unità militare, ma anche politica, del movimento sionista. Ci torneremo.
Intanto, Friedman, giornalista, collaboratore del New York Times, nato in Canada e residente a Gerusalemme, fin dall’inizio dichiara: “Ero alla ricerca dell’essenza umana della storia più che alla ricerca della storia in sé”. La sua è quindi una narrazione sul destino e sulle scelte degli uomini, e non un saggio che ricostruisce la cronaca del conflitto israelo-palestinese e comunque è scritta dal punto di vista israeliano.
E allora, i quattro vengono arruolati da un servizio di intelligence di un’entità che non è ancora uno Stato. Non è una questione formale. Il Palmach, come si diceva, è un’unità d’élite. Sono ragazzi e ragazze, figli dei kibbutz, askenaziti, aristocrazia dell’impresa sionista. Sono imbevuti di miti di eroismo di stampo europeo romantico, si considerano di estrema sinistra: l’Unione sovietica come riferimento ideale (ma anche i partigiani di Tito) e ritratti di Stalin nelle spartane mense. Sono persone per le quali la Terra d’Israele è luogo di rinascita, lontano dalle miserie della Diaspora. La Shoah, la sorte degli ebrei europei, ha rafforzato queste loro convinzioni. E poi, il kibbutz, e in fattispecie il Palmach, sono istituzioni dove tutti sono convinti della superiorità per così dire civile e culturale del mondo che stanno creando. Non è razzismo, ma una certa idea del progresso, non affatto estranea alla Sinistra di allora. Per loro, il mondo arabo è arretrato ed è arretrato pure il mondo degli ebrei mizrahi. Da cui vengono appunto i nostri protagonisti. I quali però aspirano a far parte dell’universo di quei ragazzi che studiano le opere di Lenin, armati di fucili di produzione cecoslovacca, cantano e ballano attorno ai falò, e che si preparano a sconfiggere un nemico, gli eserciti arabi, messi in piedi da paesi e leader che non vogliono accettare la spartizione della Palestina. Ma possono, i nostri, essere accettati in una congrega così esclusiva? La risposta, ed è qui il dramma umano che racconta l’autore, è sì. I quattro vengono appunto accettati. Ma a una condizione. A patto di tornare a essere arabi, di non pretendere di diventare simili ai pionieri, loro coetanei, figli dei kibbutz. Friedman cita i classici di spionaggio: John Le Carrè e prima di tutto Rudyard Kipling, in fattispecie Kim, il ragazzo afghano delle molteplici identità. Lo fa per dire: la spia perfetta deve incarnarsi totalmente nel personaggio che finge di essere. O se vogliamo, l’agente, dietro le linee del nemico, deve diventare come il nemico: nei modi di parlare, nella pratica religiosa, nel linguaggio del corpo. Ed è ciò quello che venne richiesto ai nostri. Siamo ai prodromi del Mossad. I quattro, fra Beirut, qualche puntata in Siria o in Egitto, non combinano niente che possa far parte della leggenda come, ad esempio, il rapimento di Eichmann.
Al lettore scoprire le loro gesta, le difficoltà, i dilemmi, le scene apocalittiche dell’esodo degli arabi da Haifa durante il quale si infiltrano travestiti da profughi. Il fatto è questo: quando Gamliel, Yitzhak, Havakuk e Yacuba, tornano in Israele, il Palmach, quel piccolo mondo per il quale hanno messo in gioco le loro identità, vere e immaginarie, non esiste più, sciolto nei primi mesi dell’esistenza dello Stato, dal premier David Ben Gurion che voleva un esercito e non una serie di reparti politicizzati. Erano spie di nessun paese.
Dice Friedman: la storia dimenticata di questa gente è lo specchio della rimozione del fatto che Israele è composto, fin dall’inizio, non solo da europei, ma anche da mizrahi, gente che fa parte da sempre del Medio Oriente. Ma questa è un’altra storia.
Wlodek Goldkorn
L’articolo è pubblicato nel “Robinson”, supplemento culturale della “Repubblica”, nel 24 aprile 2021, a pag. 17.