Dante. “Commedia”. Similitudini. Soldati, Sole, Sonno, Sorriso, Sparviero, Sposa, Stalliere, Stella mattutina, Stelle, Stelle cadenti.

Dante. “Divina Commedia”. Similitudini.

Soldati, Sole, Sonno, Sorriso, Sparviero, Sposa, Stalliere pigro, Stella mattutina, Stelle, Stelle cadenti

 

Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, quasi 360) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Perciò ripercorrere  le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.

Ricorro alle riflessioni della teologa Teresa Bartolomei: “Il viaggio ultraterreno di Dante è una grande avventura meteorologica e sensoriale, popolata di tutti i fenomeni atmosferici e climatici che scandiscono il ritmo annuale delle stagioni, intessuta di tutte le vertigini percettive che segnalano la stanchezza, il dolore, la gioia, la paura, il piacere, la contemplazione (…) Ravenna, con il complesso celestiale dei suoi mosaici, è il motore primo della geografia mistica del Paradiso; e il doloroso pellegrinaggio dei 20 anni di esilio, un andirivieni estenuante tra l’Italia del centro e del nord, attraversamento di campagne invernali e di paludi malariche, ripidi versanti appenninici e foreste casentinesi, paesini sperduti e chiese solitarie, sono l’orizzonte topologico in cui si tessono i paesaggi della “Commedia”.

Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso e con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità. Sintetizzando, potremmo dire che l’Italia è nata dalla cultura e dalla bellezza,  dai libri e dalla lingua di Dante e dagli affreschi di Giotto.

Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.

 

 

I soldati. Inferno, canto XXI, vv. 91-99.

“Per ch’io mi mossi, e a lui venni ratto;/ e i diavoli si fecer tutti avanti,/ sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;// così vid’io già temer li fanti / ch’uscivan patteggiati di Caprona,/ veggendo sé tra nemici cotanti./ I’ m’accostai con tutta la persona / lungo ‘l mio duca, e non torceva li occhi / da la sembianza lor ch’era non buona”. Perciò, rassicurato, mi alzai in fretta e mi avvicinai a Virgilio; subito i diavoli avanzarono tutti verso di me, così che io ebbi paura che non tenessero fede al patto; io vidi lo stesso timore nei soldati di fanteria che uscirono dal castello di Caprona dopo aver stipulato la tregua, vedendosi circondati da così numerosi e temibili nemici. Io mi avvicinai, tenendo tutto il corpo rasente al mio maestro, e senza staccare gli occhi dall’espressione di quei diavoli, che non era rassicurante.   

Nota: nella bolgia dei barattieri Virgilio è venuto a patti coi diavoli guardiani, ha ottenuto da Malacoda, il capo dei Malebranche, che Dante non sia in alcun modo toccato dai temibili uncini dei demoni. Ma il pellegrino è ancora pauroso, non si fida. E cita un ricordo storico, tratto dalle lotte tra guelfi e ghibellini. La fortezza lucchese di Caprona, conquistata dai ghibellini, fu assediata e ripresa dai guelfi nell’agosto 1289, non molto dopo la battaglia di Campaldino, avvenuta nel giugno. Può darsi che Dante abbia visto personalmente gli sguardi di preoccupazione o di paura dei difensori sconfitti, che uscivano dal castello dopo aver trattato la resa, o come semplice osservatore, o come combattente. La rappresentazione allegorica mostra la Ragione (Virgilio) assolutamente sicura di averla vinta sui diavoli, e invece il personaggio (Dante) umanamente in difficoltà nel momento del pericolo. Il ricordo di un episodio della vita terrena, rivissuto col rovesciamento dei ruoli, tratteggia bene la precarietà della situazione e conferisce una sfumatura ulteriore di tensione bellica allo scontro, finora piuttosto farsesco, coi Malebranche, di cui Dante personaggio sembra aver intuito la doppiezza e la falsità.

Purgatorio, canto XXXII, vv. 19-24.

“Come sotto li scudi per salvarsi / volgesi schiera, e sé gira col segno,/ prima che possa tutta in sé mutarsi;// quella milizia del celeste regno / che procedeva, tutta trapassonne / pria che piegasse il carro il primo legno”. Come una schiera di soldati, sotto gli scudi alzati in difesa, ripiega per salvarsi e fa una conversione intorno al vessillo che è in testa, prima di potersi girare tutta; così quell’esercito del regno di Dio che avanzava mi passò tutto davanti, prima che il carro potesse a sua volta girare il timone.

Nota: siamo nel Paradiso terrestre, Dante ha assistito a tutta una serie di processioni simboliche e, infine, ha incontrato Beatrice. La processione con il carro trionfale ha ripreso a muoversi, ma dopo aver invertito la direzione: prima aveva il sole alle spalle, adesso ce l’ha davanti a sé. Procede dunque verso Est, il punto da cui sorge il sole. La similitudine militare è introdotta solo per il giusto ritmo esterno della manovra, che richiede buon ordine e misura.

Il sole. Purgatorio, canto XVII, vv. 52-54.

“Ma come al sol che nostra vista grava / e per soverchio sua figura vela,/ così la mia virtù quivi mancava”. Ma come davanti al sole che abbaglia i nostri occhi e per eccesso di luce nasconde i suoi contorni, così in questa situazione per la troppa luce io non ero in grado di guardare.

Nota: siamo nella cornice degli iracondi. I due pellegrini sono usciti dal fumo spesso e acre che ha invaso lo spazio e rivedono la luce del sole al tramonto. Dante è di nuovo preda di visioni estatiche, questa volta sono esempi di ira punita: l’empia ira di Progne, che fu trasformata in usignolo; la crocifissione di Aman, ministro del re persiano Assuero; il suicidio di Amata, moglie del re Latino e madre di Lavinia, promessa sposa di Turno, re dei Rutuli e avversario di Enea. E’ appena svanita quest’ultima visione quando Dante è investito da una luce abbagliante: è un Angelo ad emanare questo fulgore insopportabile.

Paradiso, canto V, vv. 133-139.

“Sì come il sol che si cela elli stessi / per troppa luce, come ‘l caldo ha ròse / le temperanze d’i vapori spessi,// per più letizia sì mi si nascose / dentro al suo raggio la figura santa;/ e così chiusa chiusa mi rispuose // nel modo che ‘l seguente canto canta”. Come il sole che si nasconde alla vista per l’eccesso della sua stessa luce, quando con il suo calore ha consumato i vapori densi che ne temperavano la vampa, così per la gioia aumentata la sagoma del Beato si nascose alla mia vista, cancellata dalla sua luce; e così chiusa nel fulgore mi rispose, nel modo che il canto seguente racconta.

Nota: Beatrice e Dante sono saliti al cielo di Mercurio, dove hanno sede coloro che amarono la gloria terrena. Qui, subito circondati da molti spiriti avvolti da luce splendente, Dante inizia il dialogo con uno di loro (la sua identità sarà svelata nel canto successivo: è l’imperatore Giustiniano). Non dimentichiamo mai che nel Paradiso i cieli abitati dalle anime dei Beati sono una sacra rappresentazione a uso esclusivo del pellegrino, destinata a scomparire per sempre appena il suo viaggio sarà terminato.

Paradiso, canto XXX, vv. 22-27.

“Da questo passo vinto mi concedo / più che già mai da punto di suo tema / soprato fosse comico o tragedo:// ché, come sole in viso che più trema,/ così lo rimembrar del dolce riso / la mente mia da me medesmo scema”. Da questo punto in avanti mi dichiaro vinto più di quanto qualsiasi poeta comico o tragico sia stato mai vinto dalla difficoltà insormontabile dell’argomento del suo poema; perché, come il sole abbaglia una vista indebolita, così il ricordo del dolce riso di Beatrice mi priva delle mie facoltà mentali.

Nota: nel Primo Mobile, guardando negli occhi di Beatrice, Dante vede riflesso un punto luminosissimo, di intensità insostenibile, circondato da nove cerchi concentrici come di fuoco. Giratosi, ha la conferma che quello che ha visto è reale: Beatrice gli spiega che i nove cerchi non sono cieli come potrebbero sembrare, ma le Intelligenze angeliche, che ricevono amore e sapienza direttamente da Dio, ruotandogli intorno. Come stelle all’aurora, i nove cerchi angelici si cancellano alla vista di Dante. Mentre la bellezza di Beatrice diviene talmente straordinaria da essere indescrivibile, i due compiono l’ultima ascesa ed entrano nell’Empireo. Con questi versi il poeta ha pienamente realizzato la sua speranza riguardante ciò che avrebbe scritto in futuro su Beatrice, esposta nel capitolo finale della “Vita Nuova” (XLII, 2), “di  dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. Proprio dichiarandone l’ineffabilità, Dante identifica gli effetti che ha su di lui Beatrice con quelli della trascendenza divina: il venir meno delle facoltà della mente, v. 27, riguarda di solito le manifestazioni del divino, o il loro ricordo, così come, nella similitudine del sole, la sua luce di per sé troppo scintillante ferisce maggiormente la vista che più vacilla, perché malata o indebolita: un’immagine di massima debolezza contrapposta a un’immagine di massima energia e perfezione.

Il sonno. Purgatorio, canto XVII, vv. 40-45.

“Come si frange il sonno ove di butto / nova luce percuote il viso chiuso,/ che fratto guizza pria che muoia tutto;// così l’imaginar mio cadde giuso / tosto che lume il volto mi percosse,/ maggior assai che quel ch’è in nostro uso”. Come il sonno si interrompe quando, a un tratto, una luce improvvisa colpisce gli occhi chiusi, in modo che, già interrotto, va e viene per un po’ prima di morire del tutto; così la mia visione si dileguò di colpo, appena una luce intensa mi arrivò sul volto, luce che era molto più forte di quella del sole a cui sono abituati gli uomini.

Nota: siamo nella cornice degli iracondi. I due pellegrini sono usciti dal fumo spesso e acre che ha invaso lo spazio e rivedono la luce del sole al tramonto. Dante è di nuovo preda di visioni estatiche, questa volta sono esempi di ira punita: l’empia ira di Progne, che fu trasformata in usignolo; la crocifissione di Aman, ministro del re persiano Assuero; il suicidio di Amata, moglie del re Latino e madre di Lavinia, promessa sposa di Turno, re dei Rutuli e avversario di Enea. E’ appena svanita quest’ultima visione quando Dante è investito da una luce abbagliante: la similitudine rievoca un dormiveglia dopo un risveglio improvviso e narra il graduale recupero della coscienza. Come nei sogni del mattino si introduce per qualche istante un elemento della realtà, la percezione di un rumore, o di una luce, che finirà per interrompere il sonno, così lo sciogliersi dell’ultima visione si intreccia con la luce soverchiante, sovrannaturale, dell’Angelo della pace, espansione della luce di Dio.

Il sorriso. Paradiso, canto IX, vv. 70-72.

“Per letiziar là sù fulgor s’acquista,/ sì come riso qui; ma giù s’abbuia / l’ombra di fuor, come la mente è trista”. In Paradiso aumenta lo splendore in proporzione alla gioia, così come in terra per il crescere della gioia si diventa sorridenti; ma nell’Inferno l’anima diventa esternamente più buia, quanto più infelice è l’anima dannata.

Nota:  nel cielo di Venere dove si mostrano gli spiriti amanti, dopo Carlo Martello d’Angiò, si avvicina a Dante un altro spirito luminoso: è Cunizza, sorella dello spietato tiranno Ezzellino da Romano, che predice i rovinosi eventi che devasteranno la Marca Trevigiana. Infine si presenta un terzo spirito: è il trovatore Folchetto di Marsiglia, che lasciò di sé straordinaria fama. Uomo di molti amori, alla morte dell’ultima sua amante, nel 1195, per il dolore si ritirò in un monastero cistercense. Scrive un commentatore: “è stupefacente il v. 70 che, col suo culminare e sostare su due sillabe di suono molle, e con lo scoppiettare dei suoi due troncamenti, sembra rendere l’idea di un bagliore che si accenda e risplenda. E ben contrapposti sono i termini “s’abbuia, l’ombra, trista” che sottolineano tutta la nostra miseria terrena.

Lo sparviero. Purgatorio, canto XIII, vv. 67-72.

“E come a li orbi non approda il sole,/ così a l’ombre quivi, ond’ io parlo ora,/ luce del ciel di sé largir non vole;// ché a tutti un fil di ferro i cigli fòra / e cusce sì, come a sparvier selvaggio / si fa però che queto non dimora”. E come ai ciechi non arriva il sole, così alle anime di questa cornice, di cui sto parlando, la luce del sole non si concede; poiché tutte hanno un filo di ferro che attraversa e cuce le palpebre, come si fa agli sparvieri non addomesticati perché non stanno tranquilli.

Nota: Dante e Virgilio hanno terminato l’ascesa della scala e sono arrivati alla seconda cornice, dove espiano gli invidiosi: il luogo è deserto, senza forme visibili. Si delineano i peccatori: sono coperti da mantelli grigi come la roccia che li circonda, e con essa si confondono. Con la similitudine si spiega che la Grazia non può arrivare a coloro che hanno usato così malevolmente la loro vista, cioè guardando male gli altri quando stavano bene e godendo quando stavano male, finché non avranno ultimato la loro espiazione. Ecco svelato perché gli invidiosi non possono vedere, e perché, contrariamente ai superbi, gli esempi buoni che devono seguire non appaiono alla loro vista, ma passano attraverso il loro udito. Il procedimento di cucitura delle palpebre riservato agli sparvieri selvaggi e indocili era un uso europeo che stava scomparendo ai tempi di Dante, sostituito dal metodo arabo, molto meno crudele, che consisteva nel coprire la testa dello sparviero con un cappuccio. Gli invidiosi sarebbero dunque rapaci da addomesticare.

La sposa. Paradiso, canto XXV, vv. 109-111.

 “Misesi lì nel canto e ne la rota;/ e la mia donna in lor tenea l’aspetto,/ pur come sposa tacita e immota”. Il terzo Beato, San Giovanni, si inserì nel coro e nella danza; e Beatrice teneva lo sguardo fermo su di loro, come una sposa silenziosa e assorta.

Nota: Ora nel cielo delle Stelle fisse appare San Giacomo, accolto festosamente da Pietro. Giacomo esamina Dante sulla speranza: che cosa è, quanto intensa è la sua, da dove gli viene. Il pellegrino supera felicemente l’esame. Appare infine il terzo apostolo esaminatore, San Giovanni. L’unico sentimento che anima lo spirito che fa il suo ingresso in scena è la carità, terza e ultima virtù teologale. Beatrice è ferma e silenziosa mentre i tre apostoli danzano il loro beato ballo. La scena potrebbe essere l’allegoria di un matrimonio mistico tra la teologia (Beatrice), qualità intellettuale che pochi sapienti potevano possedere, e le tre virtù fondamentali per ogni buon cristiano, sulle quali sole Cristo aveva fondato la sua Chiesa. Beatrice, festeggiata, non partecipa alla danza, però è altrettanto vero che non distoglie mai l’attenzione dai tre santi danzatori.

Lo stalliere pigro. Inferno, canto XXIX, vv. 73-84.

“Io vidi due sedere a sé poggiati,/ com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia,/ dal capo al piè di schianze macolati;// e non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso,/ né a colui che mal volentieri vegghia,// come ciascun menava spesso il morso / de l’unghie sopra sé per la gran rabbia / del pizzicor, che non ha più soccorso;// e sì traevan giù l’unghie la scabbia,/ come coltel di scardova le scaglie / o d’altro pesce che più larghe l’abbia”. Io vidi due spiriti sedere appoggiati l’uno all’altro, in un modo simile a quello con cui si mettono a scaldare sul fornello due tegami l’uno contro l’altro, entrambi completamente coperti di croste. E non vidi mai da un garzone di stalla, che fosse aspettato dal suo padrone o che fosse sospinto dal desiderio di andare a dormire, muovere la striglia così in fretta e così spesso come ciascuno di quei due rivolgeva contro di sé le unghie per il gran fastidio del prurito, che non ha altro sollievo che il grattarsi, come il coltello raschia le scaglie della scardova (un pesce d’acqua dolce) o di un altro pesce che le abbia più larghe.

Nota: siamo nella decima e ultima bolgia, dove sono puniti i falsari, colpiti dalle più terribili malattie, da sintomi svariati e tutti ripugnanti. Questi peccatori di cui qui si parla sono i falsari di alchimia. Nelle terzine c’è un mosaico generale di suoni aspri e intensi. Lo stile è petroso: al suono duro delle doppie in rima (tegghia, stregghia, rabbia, scabbia) si aggiunge il movimento frenetico del grattarsi, provocato dal prurito esasperante; un prurito talmente intenso che per la furia di cercarne sollievo i colpi vibrati dalle unghie sono addirittura definiti “morso” (v. 79) e poi paragonati a un coltello da cucina. I due dannati su cui si appunta l’attenzione non hanno alcunché di solenne o tragico, anzi compiono gesti tutt’altro che nobili. C’è un contrasto tra la materia umile, di un realismo nuovo e sorprendente, delle immagini e la violenza assaporata del linguaggio che si aguzza e si inasprisce nelle rime rare e nei suoni stridenti. E’ probabile che nel contrappasso degli alchimisti ci sia un’analogia con le malattie ripugnanti che essi potevano contrarre sulla terra, esercitando il loro mestiere.

La stella mattutina. Purgatorio, canto XII, vv. 88-90.

“A noi venìa la creatura bella,/ biancovestito e ne la faccia quale / par tremolando mattutina stella”. La creatura di bellezza divina avanzava verso di noi, vestita di bianco e col viso di uno splendore pari a quello della scintillante stella del mattino.  

Nota: i due viandanti, ancora nella prima cornice, oltrepassano la folla delle anime dei superbi. Scolpiti a bassorilievo, sono visibili sul pavimento del sentiero roccioso per chi procede a capo chino dodici esempi di superbia punita. Dopo aver guardato queste sculture i due raggiungono il passaggio alla seconda cornice. Prima di salire vedono arrivare l’Angelo dell’umiltà. Nei versi c’è un’idea di grazia, purezza, leggerezza, splendore.

Le stelle cadenti. Purgatorio, canto V, vv. 37-42.

“Vapori accesi non vid’ io sì tosto / di prima notte fender sereno,/ né, sol calando, nuvole d’agosto,// che color non tornasser suso in meno;/ e, giunti là, con li altri a noi dier volta,/ come schiera che corre senza freno”. Non vidi mai stelle cadenti attraversare il cielo all’inizio della notte, né al calar del sole, lampi guizzare tra le nuvole d’agosto così veloci come lo furono quelle due anime messaggere tornando in su; e, raggiunta la loro schiera, ritornarono indietro verso di noi con tutti gli altri, come una folla che corre sfrenata.

Nota: i due poeti hanno raggiunto la seconda balza dell’antipurgatorio e qui si imbattono in un altro gruppo di anime che cantano il salmo Miserere. Stupite, a loro volta, per l’apparenza corporea di Dante si fermano e mandano avanti due di loro a chiedere spiegazioni. Nella similitudine le immagini si susseguono rapidissime: dopo l’evocazione dei più veloci movimenti celesti, quelli delle stelle cadenti e dei fulmini, appare l’immagine di una marea umana, senza freni che la fermino o la rallentino. La schiera dei “morti strappati alla vita con violenza” vuole con immediatezza spiegare il suo desiderio di suffragio, senza dividersi, nemmeno al momento della supplica. La rapidità drammatica e l’ansia psicologica di queste anime è realizzata stilisticamente con lo schema veloce di tre verbi, “tornasser – giunti – dier volta” in due versi (40-41) e con l’intensità di un’ultima espressione, “sanza freno”, che chiarisce senza alcun dubbio la coralità dei loro atti e dei loro sentimenti angosciosi.

Paradiso, canto XV, vv. 13-21.

“Quale per li seren tranquilli e puri / discorre ad ora ad or sùbito foco,/ movendo li occhi che stavan sicuri,// e pare stella che tramuti loco,/ se non che da la parte ond’ e’ s’accende/ nulla sen perde, ed esso dura poco:// tale dal corno che ‘n destro si stende / a piè di quella croce corse un astro / de la costellazion che lì resplende”. Come di notte attraverso i limpidi cieli estivi corre di tanto in tanto una luce improvvisa, costringendo a muoversi gli occhi che prima erano tranquilli, e sembra una stella che cambi posizione nel cielo, se non che nel punto in cui la luce brilla non ne sparisce alcuna, e il suo splendore dura poco: così dal braccio destro corse fino alla parte inferiore della croce un astro della costellazione che in essa risplendeva.

Nota: Dante e Beatrice sono saliti nel cielo di Marte. Qui le presenze luminose degli spiriti combattenti assumono la forma di una croce splendente. Obbedendo alla volontà divina, le anime interrompono il canto e restano in silenzio. Uno spirito si muove attraverso la croce. Questa similitudine introduce una nota lirica in questo solenne inizio, spostando l’attenzione dal silenzio al movimento della croce di Beati. La stella cadente è un fenomeno della vita terrena, ma che si svolge pur sempre nel cielo. Il movimento di quella luce, circondato dal solenne silenzio stellare, è ribadito dalle cinque parole luminose, “foco, occhi, stella, astro, costellazione”. Il gesto improvviso di quell’unica luce determina fra quell’anima e Dante un vincolo di carità più immediato. E’ Cacciaguida.

Le stelle. Purgatorio, canto XXIX, vv. 88-93.

“Poscia che i fiori e l’altre fresche erbette / a rimpetto di me da l’altra sponda / libere fuor da quelle genti elette,// sì come luce luce in ciel seconda,/ vennero appresso lor quattro animali,/ coronati ciascun di verde fronda”. Dopo che il prato di fronte a me sull’altra sponda del fiume fu libero dal passaggio di quella schiera beata, proprio come nella rotazione celeste una stella succede ad un’altra stella occupandone il posto, avanzarono quattro animali, ciascuno coronato di un ramo verde.

Nota: siamo nel Paradiso terrestre. Dante ha incontrato Matelda. L’autore invoca le Muse, perché lo aiutino nel difficile racconto che sta per fare, denso di contenuti teologici mai prima d’allora espressi in poesia. La foresta è attraversata da lente processioni allegoriche. I quattro animali sono i simboli dei quattro Vangeli: il verde delle loro corone è il simbolo della speranza della salvezza dell’umanità dal peccato. Le fonti bibliche di questo gruppo allegorico sono la visione di Ezechiele e l’Apocalisse di Giovanni.

Paradiso, canto XXVIII, vv, 13-21.

“E com’io mi rivolsi e furon tocchi / li miei da ciò che pare in quel volume,/ quantunque nel suo giro ben s’adocchi,// un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume;// e quale stella par quinci più poca,/ parrebbe luna, locata con esso / come stella con stella si collòca”. E appena mi fui rivolto al cielo e i miei occhi furono raggiunti dalla vista di ciò che appare in quel cielo ogni volta che si osserva attentamente il suo moto rotatorio, io vidi un punto che irradiava una luce così intensa, che l’occhio che esso illumina e abbaglia deve chiudersi per l’eccessivo fulgore; e qualsiasi stella che vista dalla terra sembra piccola, messa a confronto con quel punto d luce, come una stella è posta accanto a un’altra, sembrerebbe grande come la luna.

Nota: San Pietro ha appena terminato di pronunciare la sua durissima invettiva contro i papi simoniaci e corrotti. Il pellegrino guarda Beatrice e subito viene proiettato nel nono e ultimo cielo, il Primo Mobile. Beatrice poi esprime infine la sua amara meditazione sulla cupidigia degli uomini e invita Dante a riflettere sulla fragilità dei buoni propositi umani. Imprigionati dalla materialità, gli uomini dimenticano la loro parte spirituale, si lasciano dominare dall’avidità dei beni terreni e perdono la vita eterna. Con la sua spiegazione Beatrice permette a Dante di uscire dai limiti del proprio modo di interpretare il mondo e gli offre nuovi parametri di misura, non materiali, ma trascendenti. Ora Dante personaggio vede Dio, dapprima attraverso gli occhi di Beatrice fatti specchio, poi direttamente; egli conferma dunque nella realtà del suo viaggio paradisiaco l’affermazione di San Paolo (I Lettera ai Corinzi, 13, 12), protagonista a sua volta di un simile viaggio ultraterreno, sulla possibilità dei mortali di vedere la Verità. Dio è onnipotente, infinito, e in ogni luogo: la sua infinitezza spazio-temporale, la sua potenza, sono percepite dal pellegrino come un punto infinitesimo, il “punto matematico”, incomparabilmente più piccolo di una stella nella similitudine cosmica dei vv. 19-21. Un punto in sé quasi invisibile, eppure di luce così intensa che è insostenibile allo sguardo.

 

                                               Gennaro  Cucciniello