L’enigma di Giuseppe Flavio, ebreo cristianizzato?

L’enigma di Giuseppe Flavio

Ebreo, si arrese ai Romani, predisse a Vespasiano la gloria e si fece cristiano. Ma davvero? Un saggio di Luciano Canfora mette ordine nella storia di Flavio.

 

Si può fare buon uso del tradimento? Era la domanda che si poneva alla fine degli anni Settanta del Novecento il grande storico francese Pierre Vidal-Naquet introducendo la “Guerra giudaica” di Giuseppe Flavio, il racconto della campagna militare condotta da Vespasiano e poi da Tito tra il 66 e il 70 d.C., culminata nella distruzione del Tempio di Gerusalemme.

Già dal nome, metà romano, metà ebreo, l’autore antico lascia trasparire l’ambiguità della sua posizione: nato da una prestigiosa famiglia della nobiltà sacerdotale, Giuseppe fu protagonista della rivolta antiromana, guidando le truppe ebraiche nella regione della Galilea; assediati da tre legioni nella fortezza di Iotapata, dopo una strenua resistenza nel luglio del 67, i soldati ebrei decisero di suicidarsi per non cadere nelle mani del nemico, ma Giuseppe li invitò a darsi piuttosto la morte reciprocamente a due a due; dopo aver convinto il suo compagno a non ucciderlo, mentre tutti gli altri tenevano fede al proposito, si arrese ai Romani.

Portato quindi al cospetto del generale nemico, Vespasiano, gli profetizzò che a breve sarebbe diventato imperatore, cosa che avvenne nel giro di un anno, dopo l’uccisione di Nerone e le tre brevi parentesi di Galba, Otone e Vitellio. Per ricompensarlo, Vespasiano liberò Giuseppe che da allora prese il nomen di famiglia dell’imperatore, i Flavi.

Ma non è questo il solo “tradimento” che i suoi connazionali imputarono a Giuseppe, che fu prolifico scrittore in greco, la lingua delle élite colte dell’impero romano, a qualsiasi popolazione appartenessero. Nel diciottesimo libro delle “Antichità giudaiche”, una monumentale illustrazione della storia e dei costumi ebraici ad uso dei Romani incuriositi da quel popolo periferico ma pugnace, Giuseppe ricorda en passant la vicenda di “Gesù, uomo sapiente”, la sua morte e l’apparizione dopo tre giorni ai suoi seguaci, “la tribù dei cristiani”. Si tratta del cosiddetto “Testimonium Flavianum”, che nella forma in cui ci è pervenuto nei manoscritti sembra contenere anche un esplicito riconoscimento, da parte di Flavio Giuseppe, della messianicità di Gesù.

La cosa non poteva non suscitare l’entusiasmo dei lettori cristiani, a tal punto che alla fine del IV secolo San Girolamo non ebbe dubbi e inserì l’autore delle “Antichità giudaiche”  nel suo repertorio degli scrittori ecclesiastici più celebri intitolato “Gli uomini illustri”, riportandovi il Testimonium nella sua traduzione latina, sulle orme di Eusebio di Cesarea, che all’inizio del secolo aveva inserito il passo nella sua “Storia della Chiesa”, la prima scritta in greco. Insomma, Giuseppe avrebbe tradito una seconda volta il suo popolo facendosi, in qualche modo, cristiano.

Quando con l’invenzione della stampa si affinarono gli strumenti della filologia e con la nascita del mondo moderno molte certezze della tradizione cristiana vennero rimesse in discussione, anche la genuinità del Testimonium fu revocata in dubbio, e tra filologi e filosofi, teologi e storici, cattolici e protestanti –senza dimenticare gli studiosi ebrei, parte ben in causa- si accese la disputa su come e quanto il testo fosse stato manipolato dai copisti cristiani durante il processo di traduzione manoscritta, ovvero di ricopiatura manuale degli esemplari dell’opera, indispensabile sino all’invenzione di Gutenberg.

Nel libro “La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato” (edito da Salerno, pp. 195) Luciano Canfora ricostruisce questo lungo dibattito con l’erudizione e la competenza che gli sono proprie: se nessuno più ritiene accettabile il testo così come ci è giunto, con la sua esplicita professione di fede, anche la soluzione opposta di ritenere l’intero passo una pura e semplice interpolazione operata da una mano cristiana non appare giustificata, rendendo probabile una certa ambiguità che pare caratterizzare tanto il Testimonium quanto il suo autore. Ambiguità che, come mostra Canfora, avevano già anticamente colto pure alcuni lettori cristiani, diffidenti verso quell’ebreo presunto convertito. Tra loro spicca un personaggio del calibro di sant’Ambrogio, autore di una traduzione, o piuttosto di una parafrasi della Guerra giudaica” che senza valide ragioni gran parte degli studiosi moderni attribuisce a un ignoto “Egesippo”.

La paternità ambrosiana, rilanciata una decina di anni fa da una studiosa milanese, Chiara Somenzi, trova qui la più autorevole delle conferme nella puntuale ricostruzione di Canfora, che illustra altresì le ragioni ideologiche, ancor prima che teologiche, dello scontro consumatosi proprio intorno a Giuseppe tra Ambrogio e Girolamo.

Quest’ultimo, infatti, si fece a sua volta promotore di una traduzione, elegante e fedele, dell’intera “Guerra giudaica”, in omaggio a un ebreo degno di stare accanto agli altri cristiani illustri. Al contrario, nella sua traduzione, Ambrogio mostra di ritenere il Testimonium l’ennesimo inganno di Giuseppe, questa volta verso la “tribù” nelle cui fila qualcuno vorrebbe illegittimamente contarlo.

 

                                                        Marco Rizzi

 

Questo articolo è stato pubblicato nel “Corriere della Sera” di domenica 28 febbraio 2021, a pag. 38