I destini della Terra in India
Il sorpasso demografico sulla Cina dovrebbe avvenire nel 2027. Le difficoltà della democrazia e dell’economia.
Ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera del 6 giugno 2021, è stato pubblicato questo articolo di Danilo Taino, alle pp. 6-7.
Non ha senso chiedersi quale sia il Paese più rilevante al mondo. Fatto sta che la realtà delle ultime settimane un suggerimento l’ha dato: è l’India. L’orribile seconda ondata della pandemia da Covid-19 che l’ha colpita, e solo ora sta rallentando, racconta che le vicende del subcontinente possono fare vacillare il pianeta. Non solo perché dove corre il virus nascono nuove varianti, quella indiana appunto, che poi arrivano in Europa. Non solo perché il maggior produttore di vaccini, l’India appunto, ha dovuto bloccare gran parte delle esportazioni di dosi, attese in particolare dai Paesi più poveri. Soprattutto perché, con un’India in crisi e confusa, il mondo sarebbe un posto peggiore. E pericoloso. I governi, le diplomazie, i think-thank, i media si mostrano dunque allarmati per quel che succede nel Paese. Vale la pena fare un chek-up sobrio della situazione.
Innanzitutto, tra pochi anni la Repubblica dell’India (Bharat Ganarajya in hindi) sarà la nazione più popolosa della Terra: il sorpasso sulla Cina avverrà attorno al 2027 secondo le proiezioni dell’ONU, non più tardi del 2024 stando ad altri calcoli. Il miliardo e quattrocento milioni di abitanti sarà probabilmente superato quest’anno, virus permettendo. E’ una prima ragione per tenere il Paese in evidenza sul radar. Un secondo motivo sta nella dinamica politica interna. Il primo ministro Narendra Modi, che è salito al potere nel 2014 e ha ribadito la vittoria elettorale a mani basse nel 2019, è il nazionalista che sta mettendo in pericolo la democrazia indiana, come tendono a pensare i circoli intellettuali occidentali, oppure è l’uomo destinato ad affermare il ruolo di grande potenza dell’India, come egli stesso promette? Modi è potente. Ma lo è perché cavalca un’onda.
Il 15 agosto 1947, giorno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, non erano molti a scommettere sul futuro democratico di una terra geograficamente difficile, di una popolazione divisa in caste, piagata da povertà drammatiche e diversissima al proprio interno per religioni (una dozzina), lingue (più di quattrocento, 23 riconosciute nella Costituzione), migliaia di piccole etnie e gruppi tribali. Luogo inospitale per la democrazia, si diceva con una certa supponenza in Occidente. Anche a Londra, dove l’establishment avrebbe dovuto saperla lunga, lo scetticismo prevaleva.
Il risultato è stato uno dei processi di decolonizzazione e di State building (costruzione dello Stato) più straordinari: pur tra tensioni, violenze e contraddizioni, le istituzioni hanno tenuto e oggi l’India è il Paese con il maggiore processo elettorale democratico: 850 milioni di elettori potenziali. L’alfabetizzazione era attorno al 18% nei primi anni Cinquanta, oggi si avvicina all’80%. Il mantenimento della democrazia, per quanto imperfetta, è stato possibile grazie a una forma di secolarismo inserita nella Costituzione, così come la vollero Mohandas Gandhi e Jawaharlal Nehru: un mosaico di realtà riconosciute e da ricondurre a unità. Ma un secolarismo dalle caratteristiche indiane.
A differenza che in Occidente, in India la divisione tra Stato e religione non è netta. La Costituzione stabilisce che non ci sia una fede di Stato, ma dice anche che il governo può intervenire negli affari religiosi, incentivando ad esempio certe scuole e certe manifestazioni, ma lo deve fare in modo imparziale. Il problema è come essere equidistanti tra così tanti credo ai quali corrispondono quasi sempre altrettanti interessi.
Il Partito del Congresso, che da Nehru in poi ha quasi sempre detenuto le leve di governo fino all’inizio di questo millennio, è certamente secolarista, ma ha spesso usato le religioni per avanzare i propri interessi di potere, locale e nazionale. Il risultato è che una parte della maggioranza indù –che è l’80% della popolazione- ha via via maturato prima un fastidio, poi un’opposizione a questa forma di secolarismo: si è sentita minoranza ogni volta che una scelta politica era favorevole ai musulmani o ai sikh. Modi e il suo partito, il Bip (Bharatiya Janata Party, Partito del popolo indiano) hanno saputo navigare su questa onda di scontento e nei decenni scorsi hanno costruito sul nazionalismo induista una base di potere formidabile.
Alla crisi del secolarismo indiano, sempre più evidente negli scorsi due decenni, ha corrisposto la crisi del Congresso, che sulla convivenza ha costruito l’India moderna. Il partito non ha saputo adattare al nuovo secolo la sua natura laica. Inoltre, continua ad essre un’organizzazione dinastica: a Nehru, il primo capo del governo dell’India indipendente, è seguita la figlia Indira (Gandhi dal cognome del marito, Feroze) e poi suo figlio Rajiv, anch’egli assassinato come la madre; il potere nel partito è poi passato a Sonia, moglie di Rajiv, e poi al loro figlio, Rahul Gandhi, attuale leader, debole, del Congresso. Nel frattempo, la base organizzata del partito si è sempre più indebolita e ristretta. Ben pochi immaginano oggi che il Congresso possa tornare al potere senza un cambiamento radicale che non è in vista. Il che punta il riflettore sul futuro di Modi.
Molti, anche in India, sostengono che Modi è pericoloso, in quanto sta minando la democrazia, ma che comunque ha gestito così male la seconda ondata della pandemia da Covid-19 che la sua curva politica non può che puntare verso il basso. Che in India, come nel resto del mondo, la democrazia non sia un bene garantito è ovvio: nel 1975 Indira Gandhi sospese la Costituzione durante la cosiddetta Emergency, per dire. E Modi utilizza i punti deboli del modello indiano per rafforzare la propria base di potere. Con iniziative spesso pericolose. Usa una norma del 1870 del Codice penale contro la sedizione, risalente all’era coloniale, per intimorire gli oppositori: è il caso dell’attivista Disha Ravi arrestata lo scorso febbraio durante proteste di agricoltori (poi rilasciata). Utilizza le regole contro la diffamazione per tacitare i critici. Dalla sua salita al potere, nel 2014, non ha mai tenuto una conferenza stampa. Soprattutto, nel 2019 ha introdotto una legge –Citizenship Amendement Act- che offre un percorso veloce per far ottenere la cittadinanza a profughi afghani, pakistani, bangladesi di ogni religione meno che ai musulmani. L’accusa sostiene che Modi e il Bip puntano a fare dell’India un Paese hindu-nationalist, dove gli oltre 200 milioni di fedeli dell’Islam diventino cittadini di seconda classe. In questa direzione è anche stata letta l’eliinazione, nel 2019, dello status di semi autonomia dello Stato del Jammu and Kashmir, la cui popolazione è per quasi il 70% musulmana, e la sua trasformazione in due Territori dell’Unione (Jammu and Kashmir e il Ladakh, buddhista lamaista) controllati da Delhi.
Modi non è, ovviamente, un dittatore. E’ quello che oggi si usa chiamare un “uomo forte” e usa le debolezze della democrazia indiana, le incertezze delle leggi e il fallimento del Congresso come “partito della nazione” per portare avanti un progetto nazionalista. In ciò favorito dall’opinione pubblica indù e dal clima internazionale che spingono in quella direzione. Saprà sopravvivere agli errori di gestione durante la pandemia, all’avere vantato successi nella prima fase e all’addossare ora alla periferia del paese i fallimenti recenti? Probabilmente, sì: è ancora molto popolare, più nei villaggi che nelle metropoli; non ha avversari nazionali; è camaleontico e sa cambiare; le prossime elezioni nazionali saranno fra tre anni, ha tempo.
Le questioni che più interessano al mondo, però, riguardano la democrazia indiana, se si indebolisce o si rafforza, e l’economia, se sarà in grado di migliorare la produttività, crescere e creare benessere. Sono domande che parlano del destino del pianeta. In essenza: può un Paese popolosissimo, povero, con enormi disuguaglianze, prosperare attraverso la democrazia? Oppure, la sola strada per un’entità così grande e complicata è il modello autoritario della Cina? Chiamiamolo “Test indiano”: parla soprattutto ai Paesi poveri e darà un indirizzo al futuro economico, sociale e politico del pianeta.
E al futuro geopolitico. Perché la terza ragione per mettere l’India al centro della mappa è la sua rilevanza nel confronto tra Usa e Cina per l’egemonia. Gli scontri sul confine himalayano tra le truppe di New Delhi e quelle di pechino, la scorsa estate, hanno scosso profondamente i responsabili della politica estera indiana. Con la Cina la rivalità è storica, ma ora, di fronte all’assertività esasperata di Pechino nell’intera Asia, oceani compresi, la diplomazia del governo Modi ha dovuto fare un salto di qualità. Continua a garantire che, come da tradizione, New Delhi non entrerà in nessuna alleanza militare, in una Nato asiatica guidata dagli Usa. Ciò nonostante, nei mesi scorsi ha approfondito i legami con il cosiddetto Quad, il dialogo sulla sicurezza assieme a Usa, Australia e Giappone per competere con l’espansionismo cinese della Nuova Via della Seta; anche attraverso la distribuzione di vaccini nella regione quando l’India sarà di nuovo in grado di esportarli.
In parallelo, gli strateghi indiani hanno adottato un concetto geopolitico non tradizionale, quello di “Indo-Pacifico libero e aperto”. Una dimensione strategica sviluppata prima da Australia e Giappone, poi fatta propria da Trump, ribadita da Biden e ora apprezzata a Delhi. Si tratta di garantire che i due oceani dell’Asia non finiscano sotto l’egemonia della Cina, la quale sta costruendo basi lungo le rotte dei suoi commerci, dal Mare Cinese Meridionale all’Oceano Indiano fino all’ingresso del Golfo Persico. Anche senza che il gruppo Quad diventi la nato dell’Asia e senza che New Delhi entri in alleanze formali, la posizione geografica, politica e democratica dell’India sarà decisiva per il confronto tra potenze dei prossimi anni e decenni. Per gli equilibri internazionali.
La salute della democrazia, lo stato dell’economia e le ragioni geopolitiche dicono insomma che un pezzo sostanziale del futuro si decide in India. Che non ha senso considerare il Paese più rilevante al mondo. Ma che forse lo è.
Danilo Taino