Globalizzazione. Guarda chi si rivede.
Se pensate che l’economia iperconnessa sia una novità vi sbagliate. Così pure se credete che con il Covid-19 sia meglio chiudersi a riccio. Intervista a Jeffrey Sachs.
Il 2020 ci ha mostrato, con la pandemia del Covid-19, il lato più rischioso della globalizzazione. Ma al tempo stesso può portarci a immaginare un’economia mondiale più equilibrata: in questo ripensamento possiamo fare tesoro di lezioni più antiche, perché in realtà è da oltre 70.000 anni che abbiamo a che fare, seppure in gradazioni diverse, con la globalizzazione. E’ il succo del saggio, “The ages of globalization” (Columbia University Press, pp. 282, euro 20,39) dell’economista Jeffrey Sachs, presidente del Network per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e direttore del “Center for sustainable development” della Columbia University.
Il fulcro del libro sono le sette fasi storiche della globalizzazione: dai cacciatori-raccoglitori del Paleolitico con i loro spostamenti nei continenti alla rivoluzione neolitica dell’agricoltura verso il 10000 a.C., dall’era del cavallo –precondizione per la successiva era degli imperi di grandi dimensioni (che senza i messaggeri a cavallo non avrebbero potuto organizzarsi)- a quella della navigazione e del mercantilismo, fino all’era industriale e alla digitale. “Ognuna di queste ere ha una lezione per noi”, spiega Sachs. “Il primo ad accorgersene è stato Adam Smith: nella “Ricchezza delle nazioni” egli osservava che le scoperte delle rotte navali dall’Europa all’America e all’Asia sono stati i due eventi più importanti della storia, perché hanno interconnesso il globo in una rete di trasporti e di commerci. Creando così il potenziale perché ogni parte del mondo potesse aiutare ogni altra a soddisfare i suoi bisogni. Smith però scrisse anche che le nuove rotte furono una catastrofe per le popolazioni native delle Indie Orientali e Occidentali, soggiogate dallo strapotere militare degli europei”.
Equazioni (in)sostenibili.
Un altro esempio delle sfaccettature del mondo globale è l’invenzione della macchina a vapore di James Watt: da un lato ha creato la civiltà industriale e ha posto le basi per la prosperità –basti pensare che da allora ad oggi la popolazione terrestre è aumentata di quasi dieci volte, e l’attività economica totale si è centuplicata-, ma dall’altro ha creato le condizioni per il cambiamento climatico. Lo chiarifica un confronto diretto tra vapore e fotovoltaico: “Per quantificare l’impatto dell’uomo sul pianeta io uso l’equazione I=P*R*T, dove P è la popolazione, R è la ricchezza (Pil pro capite) e T è l’impatto ambientale della tecnologia. Mentre la macchina a vapore aumenta sia il valore di R che di T, i pannelli solari aumentano R (e quindi l’economia cresce) ma abbassano T fino a ottenere un impatto totale di molto inferiore. Ecco perché il fotovoltaico, diversamente dalla macchina a vapore, permette una crescita economica sostenibile per il pianeta”.
Ricordate gli anni Trenta?
La storia della globalizzazione, se confrontata col presente, può darci altre utili lezioni. Ad esempio insegnarci a evitare le ricette che sembrano più facili ma possono portare conseguenze indesiderabili. “Ogni fenomeno sociale ha lati positivi e negativi; invece di rinunciare ai primi per evitare i secondi, si può cercare di affrontare più direttamente il problema. Ad esempio, oggi la paura del Covid-19 può alimentare il sovranismo e portare gli Stati a chiudere le loro frontiere. Ma i precedenti storici mostrano che le frontiere chiuse portano più danni che vantaggi. Negli anni Trenta gli Stati Uniti pensarono di aiutare l’occupazione con il protezionismo e la chiusura agli immigrati dal Messico: ma questo accelerò soltanto la crisi dell’economia e portò a una disoccupazione di massa”.
Tra i trend globali che il coronavirus sta accelerando, per Sachs i più rilevanti sono l’ascesa economica dell’Asia, la rapida digitalizzazione delle economie (che ancora favorisce l’Asia per la sua forte spinta tecnologica), lo spostamento verso le energie rinnovabili e il bisogno crescente di cooperazione internazionale di fronte a minacce pandemiche planetarie. “Eppure, nonostante questa accresciuta necessità di cooperare, gli Usa stanno oggi cercando di provocare una nuova Guerra Fredda con la Cina. E questa è una politica che trovo estemporanea e pericolosa”, commenta Sachs.
Tutti al lavoro. Ma quale?
Entro certi limiti la storia della globalizzazione può aiutarci anche a prevedere il futuro di un tema che inquieta tantissimi, soprattutto in Europa: quello del lavoro. “Tutto sembra indicare che continuerà a crescere la società dei servizi”, spiega Sachs. A suggerirlo sono i dati riportati nel saggio: prima dell’invenzione dell’agricoltura, nel Paleolitico, il 100% dell’umanità faceva parte del settore primario, in quanto cacciatori e raccoglitori. L’innovazione agricola ridusse questa percentuale a circa il 90%, perché, grazie all’aumentata efficienza nel produrre cibo, il 10% della popolazione poté dedicarsi alla metallurgia, all’edilizia e ai servizi, come la pubblica amministrazione e le religioni.
La quota di umani al lavoro nei campi è rimasta intorno all’80% per la maggior parte della nostra storia. Ma negli ultimi due secoli le scoperte sui nutrienti, la meccanizzazione e la rivoluzione dei fertilizzanti chimici hanno prodotto un cambio drastico: oggi solo il 28% dell’umanità lavora nel primario –agricoltura ed estrazione di minerali- mentre il 22% lavora nell’industria e il 50% nel terziario. E per il futuro si prevede un’ulteriore crescita del settore terziario a scapito dei primi due.
Giuliano Aluffi Jeffrey Sachs
Questo articolo-intervista di Giuliano Aluffi è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 25 settembre 2020, alle pp. 52-53.