Tutti serenamente passeremo il fiume
Era una mattina dei primi giorni di marzo del 1974: passeggiavo con Luisa, mia moglie, lungo una strada innevata di Fiera di Primiero, in Trentino. Giunti all’ingresso del camposanto del paese, leggemmo sul cancello d’ingresso questa scritta: “Venne sera, Gesù disse: “Passiamo il fiume”, e tutti serenamente passarono”. Restammo entrambi molto colpiti da quel messaggio di malinconica pace e ricordo che ne discutemmo a lungo. Io lo interpretai come un segno di amicizia: non vidi in Gesù il figlio di Dio, il salvatore dell’umanità, il redentore di noi tutti dal peccato originale ma semplicemente un amico autorevole e tranquillo, dotato di antica esperienza, che ci aiutava in un passaggio difficile, in un momento in cui lo stupore della nascita diventa la solitudine del morire.
Nascono così tanti pensieri, tante domande che –ora che sono passati decenni e ci si appressa alla fine- diventano assillanti. A chi appartiene la vita? A Dio, risponderà qualcuno, ma è una risposta che non può avere forza di legge, può governare le scelte del credente, non del cittadino scettico e dell’ateo. E a quale Dio, del resto? Il Dio cristiano dei valdesi, in determinate circostanze, ammette l’eutanasia. A parlare in nome di un Dio è sempre un uomo, infatti. La Chiesa cattolica stessa non è forse in modo strutturato un consesso gerarchico di uomini anziani e soli che dominano sul “popolo di Dio”? Dunque, la tua vita appartiene a te oppure a un altro uomo. Ma in questo caso sarebbe schiavitù. Poiché la tua vita appartiene a te, solo a te spetta decidere quando e come porvi fine. E’ un diritto personale inalienabile, che fonda ogni altro diritto e senza il quale ogni altro diritto può essere revocato in dubbio. Sono convinto perciò che debba essere io a decidere l’ora e il giorno dell’addio alla mia vita, lungamente amata. Se mi trovassi nelle condizioni in cui sono vivo solo per le leggi biologiche dell’organismo, in quella notte buia della coscienza che non attende più alcuna alba, sotto l’incubo di un orizzonte che per la mia forza di sopportazione si è fatto troppo buio, non accetterò mai di essere solo vita anonima di organismo, vita che non riconosce alcuna immagine di sé. Una vita spirituale e intellettuale come la mia, che va spegnendosi, costretta a vivere in un corpo che si distrugge dall’interno, per me sarebbe raccapricciante. La vita non è semplice animazione di materia: la mia esistenza non deve essere tenuta in “vita” dalla strumentazione tecnica. Non credo che la vita sia un dono di Dio e non ne chiedo il rispetto fino all’ultimo respiro. Se io non mi ritengo più degno di me, se dovesse distruggersi la mia dignità di vita, ho diritto alla buona morte, accompagnato dall’amore e dalle amicizie per cui e con cui ho vissuto. In nessun caso vorrei che sul mio corpo si esercitasse qualsiasi forma di accanimento terapeutico. Non voglio diventare un relitto condannato a un’agonia infinita. Ho il diritto di andarmene appena arriva il buio, decidendolo ora che la mia luce è ancora accesa, ora che ho coscienza di vivere; rifiuto di esistere senza il soffio vitale che il cervello mi dona. Rispetto il turbamento dei cristiani, non si creda che voglia sopprimere con troppa leggerezza nella mia vita l’esperienza del dolore, ma non intendo accettare la bruta fatalità. Perché arrendersi alla natura proprio quando è più spietata verso noi più indifesi? Non è pensiero sacrilego attribuire a Dio tanta crudeltà verso le sue creature?
C’è paradossalmente del grossolano materialismo in chi, cadenzando la vita sulle sorti della materia e sulla potenza delle macchine, mi espropria di quello che la vita ha significato per me, dello stile che ho cercato di darle, dell’impronta che le ho inevitabilmente conferito, la vita di quel corpo che è stato ed è la piena ed inimitabile espressione della mia identità, la sede dei miei pensieri, del mio spirito, della libertà di autodeterminarmi. Voglio dire che gli argomenti della Chiesa cattolica sono troppo generici, quando non addirittura decisamente materialistici, se riducono il concetto di vita al semplice prolungamento biologico dell’organismo. Si obietta (ed è un’obiezione seria e in parte condivisibile anche da me) che il libero arbitrio ha bisogno di freni, altrimenti può diventare una fonte di abusi. E io, laico, in questo concordo. Dissento sul fatto che la scelta del come e del quando morire sia un abuso; per me, invece, è un diritto dell’uomo. E’ un diritto congedarsi dalla vita quando questa sia diventata solo un calvario di sofferenze senza speranza e, mettendomi alla mercé degli altri, mi abbia tolto anche la possibilità di difendere il mio pudore e, quindi, la mia dignità. Ha scritto Montanelli: “Per dignità intendo anche (e dico anche) l’abilitazione a frequentare da solo la stanza da bagno”. Condivido pienamente. Nessuno di noi ha chiesto di venire al mondo, ci siamo trovati inconsapevoli in questa valle di lacrime; credo che sia diritto di ognuno decidere di volersene allontanare se le condizioni di sopravvivenza dovessero diventare troppo pesanti, se la scintilla dell’intelligenza dovesse spegnersi, se la dignità dell’alimentarsi, del pulirsi, del sorridere a una persona cara dovesse spegnersi. Così usa nel mondo civilizzato. E’ capitato tante volte di sedermi sotto un faggio, a Laceno, in una mattina di sole; è un fatto banale che non entrerà nella storia; cercherò almeno di entrare nella morte a occhi aperti. “La Somma Sapienza e il Primo Amore”.
Gennaro Cucciniello
gennaio 2010