Leonardo vs. Durer: il match del secolo
Forse i due grandi artisti non si incontrarono mai. Ma dalle opere risulta che si studiavano. Un saggio ripercorre il duello a distanza tra pittori geniali. E rivali intimi.
Durer e Leonardo si mancarono per qualche giorno. O forse no. Il tedesco era calato da Norimberga per raggiungere l’Italia in uno dei suoi viaggi di studio all’estero, mentre il genio toscano, di stanza alla corte milanese di Ludovico il Moro, aveva appena avviato il cantiere del Cenacolo. Era il 1494. I due giganti del Rinascimento, i più grandi maestri dell’epoca, spinti all’inseguimento della vita catturata nel palpito della pittura, incrociarono i loro destini sulle rotte di una mappa. Da Nord a Sud e viceversa.
A caccia di prove. Peccato che le cronache non registrino un punto preciso di contatto, uno snodo, un abboccamento. Niente. Sono però le loro opere a contenere gli indizi di un debito reciproco. Ma chi vide chi? Il teutonico passato (forse) da Milano e affascinato dalle invenzioni del collega fiorentino arrampicato sui ponteggi di Santa Maria delle Grazie? Oppure un attento Leonardo a cui erano giunte (probabilmente) fra le mani le incisioni del giovane Albrecht, abilissimo nella self-promotion e nell’usare le stampe con scopi di divulgazione pop? Ecco uno dei classici gialli dell’arte. Di quelli senza riscontro e tante ipotesi, su cui gli storici si arrovellano da tempo, arroccandosi su teorie opposte (chi nega persino la discesa di Durer in terra padana) a caccia di tasselli mancanti.
Simone Ferrari, professore di Arte nei Paesi europei all’Università di Parma, ripercorre oggi tutti i capitoli di questa lunga querelle e avanza nuove tesi in un libro in uscita per la Genova University Press. Il titolo, “Durer e Leonardo. Il Paragone delle Arti a Nord e a Sud delle Alpi”, allude all’incontro mancato fra campioni, ambientato sullo sfondo delle corti più raffinate d’Europa, da Strasburgo ai domini sforzeschi, da Venezia a Innsbruck a Fontainebleau, focolai di una stagione d’oro, inchinata al valore assoluto dell’antico, allo studio dei classici, ai temi eterni della natura, della filosofia, della bellezza. Non stupisce che Durer fosse paragonato a Fidia e battezzato dagli umanisti contemporanei un “Apelle del nostro tempo”. Leonardo, dal canto suo, sognava di gareggiare coi greci e ritraeva figure femminili, come la splendida Scapiliata del Complesso Monumentale della Pilotta, per emulare proprio l’incompiuta Venere di Apelle, ricordata da Plinio nella sua Naturalis Historia fra i più noti esempi del sommo pittore.
Premesso che il culto del passato sia l’anello di congiunzione virtuoso fra questi due maestri di fine Quattrocento, resta il dubbio su uno scambio più concreto. I flussi di maestranze, letterati, nobili e mercanti, in andata e ritorno fra Italia e Germania rendono plausibile un collegamento. Basti pensare a quanti artigiani del nord furono chiamati nella fabbrica del Duomo milanese; a quanto fosse vitale la colonia tedesca di Milano, alternativa al Fondaco di Venezia; o a quanta stima nutrisse Durer per l’amico umanista bavarese Pirckheimer, che viveva a Pavia e che passò a salutare, concedendosi verosimilmente una sosta milanese esattamente quando Leonardo impostava le tracce dell’Ultima Cena sul muro umido di un refettorio.
Capelli e montagne. E poi ci sono le prove provate. “Le opere parlano da sole” spiega Ferrari. “A cominciare dai capelli. Come i ricci morbidi del “Cristo portacroce” di Leonardo (nel disegno delle Gallerie dell’Accademia di Venezia) ripresi nel “Sansone col leone” di Albrecht”, un confronto già evidenziato dallo studioso Pietro Marani. “La ricerca dell’espressività tipica del genio italiano colpì il rivale perché rispecchiava molto il gusto nordico per un sentimento drammatico, lo struggimento, il pathos”. Poi ci sono le pietre. Una montagna di rocce, creste, cave, scaglie, grotte che svettano nei capolavori di entrambi. Nei disegni e nelle grafiche dell’artista di Norimberga che facevano il giro dei mercati. O nella fortunata “Vergine delle rocce” replicata in decine di esemplari come un modello da diffondere.
E, dunque, chi copiò l’altro? A sentire Claudio Salsi, direttore del Castello Sforzesco, nella Sala delle Asse (reduce da un importante restauro) l’osservazione scientifica della natura che rende capillare il tratto di Leonardo sembra ispirata direttamente al sesto senso di Durer per i rovi e le zolle di terra. Mentre i segni sottili e incrociati evocano il famoso tratteggio delle sue incisioni a bulino. Pari e patta. Ma il dilemma resta. Per tornare alle chiome, lo stesso celeberrimo “Autoritratto in pelliccia” (dell’Alte Pinakothek di Monaco), dove il fascinoso alemanus si paragonava addirittura a Cristo, sfoggia piccoli boccoli analoghi a quelli del “Cristo alla colonna” (di Brera) di Donato Bramante, che l’architetto marchigiano realizzò, non a caso, quando fu ingaggiato dal Moro insieme a Leonardo.
Il Narciso e l’Ossessivo. Tutto torna. “Anche se Leonardo, diversamente da Albrecht, non avrebbe mai osato ritrarre se stesso nelle vesti del Messia. Troppo audace”. In questo, i due erano molto lontani. Uno narciso, stressato da ansie di affermazione nello star system del Rinascimento, arrivato a concepire il mitico monogramma “AD” come marchio di fabbrica inconfondibile. L’altro braccato solo dalle sue magnifiche ossessioni: l’arte, la scienza, la conoscenza. Uno, perennemente in tour, spinto dal piacere dell’avventura (all’indomani della scoperta dell’America), macinò chilometri dalle nebbie dei Paesi Bassi, giù fino alle mulattiere sconnesse delle Alpi, passando dai boschi fitti della Carinzia ai tepori della Laguna di Venezia, anche nel secondo viaggio italiano del 1506. L’altro, costretto a spostarsi per inseguire le commissioni, salvo patire la solitudine in contesti poco accoglienti per il suo carattere introverso (come a Roma).
Ferrari concatena i fatti con piglio investigativo e affonda nelle personalità di due mostri sacri che, anche nel destino, furono vicini, accomunati dai loro insuccessi. “Leonardo non ebbe in vita il riconoscimento che oggi gli attribuiamo. Fu escluso dalle commissioni blasonate, stremato da una carriera difficile”; l’unico big del suo tempo rimasto fuori dal cantiere della Sistina. Per consolarsi partì per la Francia, in cerca di soddisfazioni che a Roma gli erano state sottratte dal rivale, più spalleggiato, Raffaello. Sognava sontuose imprese architettoniche da consegnare a re Francesco I e a sua madre Luisa di Savoia. Ma tutto rimase sulla carta, e lui si abbandonò alla depressione fra le torri del castello di Amboise. Durer si scontrò invece, proprio nella sua amata Venezia, con le offese degli invidiosi. Confessò di sentirsi imitato, scopiazzato, bacchettato per non essere all’antica, criticato per la sua pittura (lodato solo per le incisioni…) e messo in guardia contro il pericolo di essere avvelenato dagli artisti locali.
Ottenne la sua rivincita proprio nel 1506 con la grandiosa Pala del Rosario (ora a Praga), firmata in calce da una dichiarazione superba: “Albrecht Durer, un tedesco, ha realizzato questo nello spazio di cinque mesi”; un sano orgoglio nazionalista per mettere a tacere i veneziani. E infatti li zittì con un capolavoro universale, degna risposta nordica al miracolo dell’Ultima Cena. Così lo sdegnoso Durer si incensò da solo per la velocità dell’esecuzione, contro la proverbiale lentezza del suo competitor, Leonardo da Vinci: un perfetto sconosciuto che conosceva benissimo.
Chiara Gatti
Questo articolo di Chiara Gatti è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 4 dicembre 2020, alle pp. 114-117.