1789. Siamo tutti figli della Rivoluzione imperfetta.

1789. Siamo tutti figli della Rivoluzione imperfetta

Lo storico francese Emmanuel de Waresquiel: “Viviamo ancora le contraddizioni che dai giorni del 1789 arrivano a Napoleone”.

 

Questa intervista, curata da Anais Ginori, è stata pubblicata nel quotidiano “La Repubblica” del 28 marzo 2021, alle pp. 30-31.

 

I francesi sono animali strani, al limite della schizofrenia, perché ereditano una doppia cultura”. Nel suo nuovo saggio Emmanuel de Waresquiel racconta la Rivoluzione del 1789 come fosse un romanzo, partendo dalla settimana decisiva tra la proclamazione dell’Assemblea Nazionale, il giuramento dei deputati del Terzo Stato di non separarsi prima di aver finito il lavoro e la sfida al Re che esigeva il loro ritiro. “Sept jours, 17-23 juin 1789”, si legge d’un fiato, rievocando le giornate convulse e drammatiche che hanno segnato non solo la storia francese. Ed è particolarmente utile studiarlo adesso, nel pieno del dibattito sul bicentenario della morte di Napoleone (5 maggio 1821), che da quella Rivoluzione discende. Ricercatore all’ Ecole pratique des hautes études, biografo di Talleyrand, già autore di “Juger la reine” nel quale ha ricostruito il processo del governo giacobino a Maria Antonietta, Waresquiel traccia ora un affresco della passione rivoluzionaria che parla al presente in una Francia ancora divisa, in cui la violenza politica è latente o esplicita come durante il movimento dei gilet gialli che avevano sfilato in piazza con immagini di ghigliottine e del “sovrano” Emmanuel Macron. “Di base sono uno storico del Diciannovesimo secolo e dell’inizio del Ventesimo” ricorda l’autore in un incontro nella sede parigina del suo editore Tallandier. “E poi, a forza di lavorare e osservare le profonde divisioni nel cuore della società francese, mi è venuta voglia di risalire la storia a contropelo, come direbbe Walter Benjamin, per vedere da cosa nasce questa spaccatura”.

E così è risalito fino alla Rivoluzione del 1789 e alla sua duplice eredità. Quale?

Prima i francesi mantengono una tradizione da Ancien Régime, ovvero la cultura cortigiana. Nei rapporti di potere si tende ad adulare colui che è superiore, a lustrargli le scarpe. Al tempo stesso, attraverso la cultura rivoluzionaria egualitaria, i francesi vorrebbero anche tagliare la testa a chi ha il potere. Siamo costantemente in questa tensione tra opposti, e forse è una ragione che spiega quanto la Francia sia difficile da governare.

Nel trittico liberté-égalité-fraternité è l’eguaglianza che prevale?

E’ l’eguaglianza che porta i francesi a scendere in piazza, non la libertà. O molto meno. C’è certamente una passione per la libertà individuale ma la libertà nel senso di garanzie costituzionali per la nazione nel suo insieme è qualcosa di meno potente. Quando ci sono delle restrizioni, i francesi le aggirano, cercano di arrangiarsi, senza scatenare necessariamente proteste o scontri. Abbiamo visto con la crisi del Covid che c’è stata una disponibilità a piegarsi alle privazioni di libertà imposte dalle autorità. Anche perché c’è stata la paura. Quando i francesi hanno paura, sono capaci di rinunciare alla loro libertà. L’abbiamo visto nel 1940.

L’eguaglianza muove ancora oggi lo scontro sociale e politico?

La Rivoluzione del 1789 pone in modo unilaterale dei principi perfettamente astratti. L’uguaglianza, la libertà. La fraternità verrà dopo, nel 1792. Sono principi alti e in qualche modo indefiniti. C’è una potenza nell’affermazione teorica ma anche un’intrinseca fragilità nell’applicazione pratica. Sono più di duecento anni che inseguiamo questi valori. Per me la Rivoluzione non è, come dice Francois Furet, un oggetto freddo. Viviamo ancora nell’ombra di questo evento storico fondatore che in qualche modo non si è mai davvero compiuto.

Le giornate del giugno 1789 illuminano il nostro presente?

La Rivoluzione francese fu un evento molto speciale. Totale, rapido, brutale. Ha segnato totalmente la psicologia e la cultura politica della Francia. Quando i deputati del Terzo Stato decretarono la sovranità nazionale il 17 giugno 1789, non fu il risultato di un compromesso o di un contratto con il Re e gli altri ordini del regno, fu una decisione unilaterale, una forma di colpo di Stato. Scelgono il nome di “Assemblea Nazionale”, e agiscono come se gli altri rappresentanti agli Stati Generali, la nobiltà e il clero, non esistessero. Li cancellarono con un colpo di spugna, senza chiedere l’assenso del Re. Questa decisione è un elemento essenziale per spiegare la cultura francese del conflitto. Da allora abbiamo mantenuto una difficoltà con la cultura del compromesso o del negoziato.

Che ruolo ha il concetto di “popolo” nell’avventura rivoluzionaria?

I deputati del Terzo Stato dicono di essere della Nazione, ma non rivendicano l’appartenenza al popolo. Tutta la rivoluzione è un rapporto di amore-odio tra queste élite borghesi del Terzo Stato e quello che viene chiamato “il popolo”, senza sapere esattamente cosa sia perché gli attivisti rivoluzionari sono solo una piccola minoranza della popolazione. Pretendono di essere il popolo, ma allo stesso tempo ne sono sospettosi perché l’espressione diretta della sovranità popolare è la piazza. I deputati del Terzo Stato non si aspettavano la presa della Bastiglia. La rivendicheranno a posteriori come una loro vittoria, ma fino a poco prima ne avevano paura.

E’ una tensione che si ritrova in molte altre democrazie.

Qualche settimana fa molti hanno guardato con stupore le immagini dell’assalto di Capitol Hill a Washington. Vorrei ricordare che noi francesi siamo i campioni mondiali dell’invasione delle assemblee parlamentari. L’abbiamo fatto durante la Rivoluzione, l’abbiamo fatto nel 18 brumaio quando Bonaparte prese il potere, l’abbiamo fatto nel 1830, nel 1848, nel 1870, e nel 1934 ci fu una marcia su Palais Bourbon con non pochi morti. La storia francese racconta uno scontro permanente tra la rappresentanza parlamentare e una forma di democrazia diretta. Il movimento dei gilet gialli ha messo in cima alle sue rivendicazioni un referendum di iniziativa popolare e hanno organizzato una conferenza stampa davanti al Jeu de Paume, a Versailles, dove il 20 giugno 1789 i deputati avevano giurato di non separarsi senza aver scritto una Costituzione. Trovo affascinante questo senso di continuità storica.

Quando una rivolta si trasforma in rivoluzione?

Penso che ai vecchi risentimenti popolari, alla paura o al malcontento, si debba aggiungere qualcosa di utopico. E’ necessario avere “il futuro sulla canna della pistola”, come diceva Victor Hugo ne “I Miserabili”. E’ quello che è successo nel 1789, e che è mancato due anni fa. I gilet gialli non sognavano una felicità futura, non avevano un’utopia. Sono persone in rivolta contro una forma di anonimato che li sta inghiottendo in nome della globalizzazione e della democrazia tecnocratica. E’ stato un tentativo di resistere in un vecchio sistema che sta scomparendo. I gilet gialli erano sulla difensiva, non sull’offensiva. Questa è la grande differenza.

Nelle democrazie contemporanee le rivoluzioni sono ancora possibili?

Se ci dovesse essere un’esplosione sociale violenta, penso che sarebbe per questioni di etnie, immigrazione, comunità, o di scontro tra queste varie tematiche. Non faccio una previsione, non ne sarei in grado, ma penso che questi siano gli ingredienti possibili. Oggi le ragioni religiose offrono una sorta di revival della Rivoluzione, che si è svolta, secondo me, perché la Francia aveva fallito la sua Riforma nel sedicesimo secolo. Veniva condotta in nome della laicità contro l’alleanza del trono e dell’altare, come si diceva all’epoca. Per tutto il Diciannovesimo e fino al Ventesimo secolo, la rivoluzione incompiuta è la storia di un violento scontro tra la République e il cattolicesimo francese. Ora sembra lontano, ma sono morte tante persone in quello scontro, a cominciare dai centomila preti uccisi durante il Terrore. E ci è voluto molto tempo, fino al 1905, per riuscire a far coesistere cattolici e République.

 

                   Anais Ginori       Emmanuel de Waresquiel