Utopie mignon domestiche e praticabili, realistiche.
L’ansia distopica pervade l’età neoliberista. Ci si affida a piccole ricette di cambiamento: rassegnazione o realismo?
Non ci sono più le utopie di una volta, decisamente. E quando si affacciano, magari un po’ timidamente, lo fanno con nuovi connotati.
In questa nostra epoca, infatti, ad andare alla grande sono le distopie. O la Realpolitik che vola piuttosto basso, e si giustifica spesso a colpi di “Tina” (“There Is No Alternative”, come soleva ripetere compiaciuta la signora Thatcher), ma che pressoché nulla ha a che spartire con il realismo alto di personaggi come Thomas Hobbes o Voltaire. E d’altronde, in effetti, ce n’è ben donde, sull’onda di una crisi finanziaria ed economica –o meglio, come palese, un autentico cambio di paradigma del capitalismo- che non molla la presa ormai da un decennio. E il nostro immaginario, nel corso del secondo Novecento, si è così via popolato di distopie proiettate dalla letteratura e dal cinema di fantascienza, in particolare per effetto del successo della narrativa di Philip K. Dick (a cui naturalmente si rifà anche il nuovo Blade Runner 2049). E sempre fantascienza distopica è quella al centro del serial televisivo “The Handmaid’s Tale” (Il racconto dell’ancella), ricavato dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood del 1985, che ha furoreggiato nelle premiazioni degli ultimi Emmy Awards.
Ma se l’ansia distopica pervade l’età neoliberista –e, a volte, si ha effettivamente l’alquanto spiacevole sensazione di vivere dentro un racconto di James Ballard-, esiste anche chi si dà da fare per mettere in campo delle ricette alternative (magari discutibili, ma comunque utili per cercare di sottrarsi all’onnipresente pensiero unico).
Al proposito, c’è un piccolo Paese che mostra una spiccata vocazione a sfornare visioni utopiche. Si tratta dell’Olanda, nazione libertaria per antonomasia, patria di Erasmo da Rotterdam, di Baruch Spinoza e del comunismo consiliare di Anton Pannekoek (che fu anche il fondatore dell’Istituto di astronomia dell’Università di Amsterdam, a lui intitolato insieme a un asteroide). E, più recentemente, culla dei movimenti per il reddito universale e quello di cittadinanza. Dalle terre basse arriva l’ultima novità in materia –e chissà che non siano proprio la loro collocazione geografica e la natura orografica di piatto fazzoletto di terra, che ha quale unico orizzonte l’infinita visuale del mare e dell’oceano-ad agevolare il plusvalore del pensare oltre certe compatibilità rigide dell’esistente.
A fare dibattito oltre i confini dei Paesi Bassi è un libro di Rutger Bregman, classe 1988, storico ed editorialista del trendissimo giornale online nato col crowfunding “De Correspondent”, che ha ottenuto un paio di nomination per lo European Press Prize.
Si tratta di “Utopia per realisti” (Feltrinelli), dove lo studioso, dalla scrittura brillante, corre su e giù per la storia (dalla rivoluzione francese alla robotica contemporanea, dal luddismo all’economia dello sviluppo) perorando la causa di un’utopia “da non prendere troppo sul serio”, pena la caduta nel girone infernale dell’utopismo pernicioso e delittuoso di fascismo e comunismo. Dunque, per cominciare, niente fanatismo o settarismo utopistico, da cui uomini e donne di buona volontà si devono premurare di sgombrare il campo. E poi, pur avendo individuato lì l’avversario e la fonte della gran parte dei problemi e delle ingiustizie, un riconoscimento (con una punta di ammirazione) –un po’ come fece Karl Marx nei confronti della borghesia e del capitalismo- alla forza trasformatrice del neoliberismo e alla sua capacità di riplasmare il Villaggio globale a propria immagine e somiglianza. A partire dalla persuasione, espressa da Friedrich von Hayek, che “le idee e le credenze umane siano i motori principali della storia” (una visione, solo in questo, sorprendentemente similare alle convinzioni del suo antagonista per antonomasia, il grande John Maynard Keynes). Per continuare con la reinvenzione semantica e ideologica –dagli effetti devastanti- della categoria di “liberismo”, la quale, nel senso comune e nell’immaginario-ideologia collettivo, ha smesso da tempo di identificare l’originaria dottrina economica per trasformarsi nella facoltà –dichiarata alla stregua di un “diritto”- di “essere solo ste stessi e di fare quel che si desidera”, come dire dalle macchine desideranti di Gilles Deleuze al “capitalismo libidinale” trionfante descritto da Bernard Stiegler.
Il punto è che indietro (dalla condizione postmoderna), in tutta evidenza, non si torna. E, quindi, bisogna immettere al suo interno un progetto –concetto caro alla modernità di derivazione illuministica- differente, e alternativo. Et voilà l’utopia per realisti, che magari rischia di provocare qualche delusione nei romantici inguaribili e negli antisistema accaniti, così come nei nostalgici della restaurazione di un (impossibile) mondo fordista. E il catalogo dell’intellettuale olandese prevede il decremento dei consumi e la riduzione dell’orario di lavoro (un cavallo di battaglia di Keynes nel suo utopistico “Prospettive economiche per i nostri nipoti del 1930”), una società aperta che superi i confini statali e una drastica lotta contro la povertà combattuta con un reddito universale di base. Nei cui riguardi, forzando un poco (ma senza esagerare), si può dire che Marx e Karl Polanyi erano duramente contrari, mentre Richard Nixon e Milton Friedman favorevoli (o almeno possibilisti). Perché una destra e una sinistra classicamente intese esistono ancora, sostiene Bregman, ma faticano sempre più a dare risposte adeguate a fronteggiare i complicatissimi tempi che viviamo. E sembrano intrise di “Retrotopia”, per dirla col titolo dell’ultimo testo (edito da Laterza) dello scomparso Zygmunt Bauman. E un’utopia per realisti potrebbe anche essere quella tratteggiata dallo studioso di geopolitica Parag Khanna nel suo “La rinascita della città-Stato” (Fazi), dove teorizza il modello degli “Info-Stati”, la cui governante si basa su tecnocrazia illuminata e Big data per dare risposte efficienti ai cittadini (e il cui simbolo è Singapore, che per qualcuno potrebbe invece identificare una distopia).
In ogni caso, qui non siamo precisamente dalle parti di Tommaso Moro, di Tommaso Campanella o di Etienne-Gabriel Morelly. Quanto, piuttosto, in presenza di utopie a congruo tasso di realismo. Visioni, per certi versi, più domestiche e praticabili, con ricadute circostanziate e determinate, e quindi contestualizzate in un quadro che si caratterizza per la resilienza e la longevità quasi inscalfibile del pensiero unico. La nozione di “un’utopia realistica”può allora suonare come un autentico paradosso. Ma, appunto, di paradossi (post-moderni) è disseminata e costellata la nostra problematica contemporaneità.
Massimiliano Panarari
Quest’articolo è stato pubblicato nell’Espresso del 22 ottobre 2017, 82-3.