“Allosanfàn” dei fratelli Taviani (2° parte)

“ALLOSANFA’N” dei fratelli TAVIANI, 1974, (seconda parte)

Estratti dal fascicolo di 106 pagine, pubblicato nel maggio 1997, custodito nella biblioteca dell’Istituto Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre; gli studenti sono diciassettenni.

 

Gli incubi e le paure del bambino

La sequenza si apre nel collegio dove Fulvio, dopo i funerali di Charlotte, ha appena accompagnato suo figlio Massimiliano. E’ sera, quasi notte, ed in primo piano sfilano davanti alla scrivania della direzione, in una stanza debolmente illuminata, alcune sagome di giovani studenti che salutano (in francese) il direttore, augurandogli la buona notte. La ripresa si sposta poi sul primo piano del bambino, sprofondato in una grande sedia massiccia, con un’espressione triste e malinconica. Il padre, nel frattempo, sta pagando la retta; è inquadrato di spalle, come se fosse suo figlio –seduto in disparte- ad osservarlo. La debole illuminazione e la freddezza del luogo esprimono chiaramente i sentimenti del bimbo: egli probabilmente non si rende ancora conto che suo padre lo sta per lasciare ma dentro di sé, anche se non si ribella, si sente forse già angosciato.

La scena si sposta sul corridoio che porta alle camere: precede il guardiano, seguito da Fulvio che tiene in braccio il piccolo come per sentirlo suo ancora una volta. Le figure sono distinguibili sullo sfondo, intagliate dalla luce che penetra da una vetrata. Durante il tragitto che porta alla stanza dei nuovi ospiti Massimiliano chiede al padre cosa vogliano dire le parole “Mon amour”, ascoltate la sera prima a cena in un ristorante di Roma; Fulvio gli spiega come assumano significato se dette ad una persona alla quale si vuole bene; il figlio contempla il padre e ricade in quel silenzio che l’aveva dominato fino a poco tempo prima. Una volta in camera e messo a letto il bambino, Fulvio rimane chino su di lui per contemplarlo; a questo punto Massimiliano guardando negli occhi il padre gli ripete le parole “mon amour”, che tanto parevano averlo incuriosito, come se potesse con tali parole impedirne la partenza. Fulvio, mentre suo figlio dorme, è in piedi, si avvicina alla finestra: evidente contrasto luminoso tra il bianco delle lenzuola e dei suoi stessi abiti col buio della camera. Strano a dirsi, ma l’uomo, che è sembrato fin qui sempre forte e determinato, cede e piange. Perché un uomo forte piange? Forse perché è toccato nei suoi affetti, si sente un padre fallito (praticamente è stato sempre assente dalla vita di suo figlio) e ora ha paura di perderlo definitivamente, non vorrebbe allontanarsene. Nella stanza domina il silenzio che però è rotto improvvisamente da una nota brusca, un suono che crea aspra tensione. Inizia il delirio, l’incubo del bambino che si agita nel letto, vuole scacciare il padre (“Pussa via”) che gli dorme accanto, vuole fuggire per tornare a casa, in campagna: ha il viso angosciato.  Il padre, per impaurirlo e riportarlo a sé, gli narra la storia del rospo: un bambino non ascoltò suo padre e scappò nel bosco, in una casa abbandonata; la notte era buia e un grande rospo entrò nella casa e si mangiò il bambino. Fulvio racconta con un tono basso per aumentare la suggestione: copre anche la lampada con un panno verde per creare una luce soffusa e inquietante. Lo spettatore prova sicuramente tenerezza e pena per il povero Massimiliano: è così piccolo ed è solo di fronte al vuoto della stanza, alla sua paura e soprattutto alla sua solitudine.

Fulvio è un padre inesperto. Crede che per farsi ubbidire basti impaurire il bambino con storie fantastiche, senza dare spiegazioni; in questo modo invece ottiene l’effetto contrario; infatti terrorizza il figlio rendendoselo quasi nemico. Poi pentendosi, ma ormai è troppo tardi, abbraccia il suo bimbo che piange. Sembra anche lui in preda alle allucinazioni: dice di vedere infatti un grosso rospo sulla porta, come se fosse la punizione per tutto ciò che aveva raccontato prima; l’animale lo sta trascinando verso il letto, vuole divorarlo. Massimiliano non vuole più ascoltare. Allora l’uomo con un gesto rapido toglie il panno dalla lampada per spegnerla definitivamente nella speranza che il buio possa riavvicinarli. Si mette quindi in ginocchio sul letto e dice: “Sì, sono vivo: sono il rospo incarnato, ho mangiato tuo padre e prima che lo digerisca…solo un bambino può salvarlo”, ma il figlioletto non si fa coinvolgere più di tanto, cela soltanto la paura dietro gli occhi chiusi. Azzardo un’ipotesi: il rospo, che secondo il racconto fantastico avrebbe dovuto mangiare Fulvio, potrebbe essere una spia premonitrice della sua morte, non troppo lontana.

Il bambino, stretto dall’abbraccio paterno, rimane distaccato, non parla e non risponde più. La strana figura del rospo si trasforma in quella del guardiano (giunto per svegliare Fulvio: sono le quattro e deve partire) che, impassibile, parla con voce monotona e pacata. La sequenza finisce con un ultimo primo piano del piccolo che, il volto bagnato dalle lacrime, tenta di distaccarsi dal padre e di mostrare la sua rabbia chiudendo gli occhi e la bocca e irrigidendo i muscoli. E proprio questa sarà l’ultima immagine, l’ultimo ricordo che l’Imbriani avrà del suo bambino.

 

                                                                       Elisa  C.

 

 

Su una nave nel Mediterraneo

 

Il fluttuare delle onde apre la sequenza: forse che quella tempesta di passioni, forti turbamenti, paura ed entusiasmo prendano vita da quella distesa d’acqua che culla gli eterni sognatori? L’oscillare della nave è minuziosamente riprodotto dalla macchina da presa che fluttua, trasportata dalle onde. A questo movimento fisico dell’immagine, a cui sicuramente non si attribuisce staticità e/o contemplazione, è associato, quasi repentinamente, il vagheggiare di Fulvio, ancora sotto l’effetto della medicina somministratagli e caricato incosciente a bordo: il primo piano ne ritrae l’essere spaesato, ancora assopito, immerso nei suoi sogni. “L’America! Navighiamo…verso l’America, vero?”, quasi farfuglia sottovoce nel dormiveglia: una leggera brezza gli scompiglia i capelli, gli accarezza il viso, quasi si accenna un sorriso, segno del confidare in un nuovo inizio, oltre quel passato a cui non si sente più di appartenere, in una vita lontana dalle rinunce e dai tormenti della rivoluzione. Gli occhi lentamente si socchiudono: sulla scena compaiono i vecchi compagni di lotta. L’impatto è forte, violento, spigoloso: è attorniato dai “fratelli” che sembrano vegliare su di lui, in attesa del suo risveglio, in fondo lo sentono ancora un capo. Resa con efficacia è, secondo me, l’antitesi tra l’America, terra promessa per l’Imbriani che ripone nel nuovo continente il suo futuro di uomo nuovo, e il Sud Italia, luogo da cui i rivoluzionari sperano che si avvii la diffusione della “felicità universale”, la liberazione dall’oppressione straniera, il concretizzarsi di anni di fatiche e sotterfugi. Dal basso verso l’alto Fulvio scruta i compagni. Il gioco visivo di alto e basso mi suggerisce una chiave interpretativa dei sistema dei personaggi che compaiono in questo frammento: nel ritrarre il gruppo da questa particolare angolazione sembra quasi che i Taviani vogliano suggerirci la nobiltà degli ideali, l’astrattezza di una ricerca affannosa che diventa elitaria, troppo utopica per avere riscontro nella realtà storica; Fulvio è invece appesantito dal suo ritirarsi, il suo tradire, l’uccidere, l’ingannare, il tacere, lo fanno gravitare verso il basso. “Navighiamo verso l’America” / “Navighiamo verso il Sud, Fulvio”. L’anafora del verbo “navigare” sottolinea il prossimo approdo ad una realtà che cambierà il destino di tutti ma le destinazioni sono davvero così estranee l’una all’altra da rendere palese il contrasto drammatico.

La reazione dell’Imbriani è brusca, violenta, rabbiosa: con impeto si alza e sbraita, con foga picchia un compagno sulla guancia. Il suo scatto d’ira è enfatizzato, i movimenti sono rapidi, convulsi, quasi deliranti: la “camera” si muove nello spazio ritraendolo sempre di spalle. I fratelli tutti gli si stringono intorno. “Cialtroni!!, dice Fulvio. Le mani di Tito gli afferrano la testa e la scuotono, come se quel contatto potesse riportarlo alla ragione. Rivolgendosi direttamente a Tito, Fulvio grida: “Mi hai fottuto e ha fottuto anche voi”. Le immagini si susseguono vorticosamente, pronte a catturare il corpo a corpo che ha luogo tra i due leaders: si fronteggiano due vite diverse, due visioni opposte, una volta accomunate dallo stesso fervore patriottico. L’ansimare violento, il dimenarsi di Fulvio è smorzato dal moderato Tito che grida: “Stai delirando, stai delirando”, e sulla scena cala un silenzio improvviso, innaturale, fittizio. Il rapido primo piano dei due rivela efficacemente la sottile complicità che va creandosi dopo l’exploit di accuse e di furore: entrambi sanno che quella missione non poggia su solide basi, non è equipaggiato a modo il gruppo rivoluzionario, non ci sono armi, non ci sono munizioni. Ecco: Tito invita Fulvio alla menzogna pur di preservare il sogno, l’utopia, il desiderio; il tutelare un troppo ardito progetto richiede l’omertà, il sotterfugio, l’omissione. E’ quindi l’inganno di una speranza rincorsa per tutta una vita ed ora inevitabilmente inattuabile? Anche nella mente dell’Imbriani balena fulminea l’idea della finzione, di un nuovo inganno per esorcizzare l’ostilità dei compagni. Lo scambio di sguardi che intercorre tra i due basta a sottolineare quest’aria di complicità che aleggia. Finge di non essere cosciente, di non sapere dove si trovi, di non riconoscere il volto dell’amico che poco prima cercava lucidamente di strozzare. “Dov’è Tito? Portami da Tito”, recita Fulvio per sviare l’attenzione da quella pesante accusa prima lanciata (“Ha fottuto anche voi”).

I compagni, ignari della realtà delle cose, lo circondano e lo invitano a sdraiarsi. S’allenta (per il momento almeno) il clima di tensione che era venuto a crearsi: si ironizza sullo stordimento del caro fratello, si scherza sul suo delirare irrequieto e poi pacato. Lo abbracciano, lo aiutano a stendersi, uno lo tocca, lo guardano felici.

“Fulvio ha detto la verità, anche delirando si può dire la verità!”, è un fulmine a ciel sereno questa rivelazione fatta da Tito. Di colpo l’ilarità viene meno e, bruscamente, la “camera” si sposta per inquadrare Tito: inizialmente egli è solo sulla scena ma, via via che le rivelazioni si completano, il gruppo si compone come attirato da una forza centripeta. L’incredulità viene espressa dalla risata timida dei compagni che cominciano a riempire il vuoto prima creatosi intorno allo stesso Tito: egli è il perno su cui gira la trottola di una rivoluzione ilare, giocosa, bambinesca nelle illusioni, testarda, cieca. Ad uno ad uno i fratelli costellano il campo lungo di cui è “padrone” Tito; sono scoperchiate le casse nel tentativo, quasi disperato, di trovare le armi, indispensabile requisito per la buona riuscita del progetto. La presa di coscienza della realtà effettiva delle cose è fulminea: nessun fucile, niente denari. I compagni si allontanano precipitosamente da Tito.

“Ma i fucili dove sono?”. “Sta scherzando! Andiamo, saranno in qualche altra cassa!”. “E’ inutile, non ci sono, io lo sapevo: Fulvio me l’aveva detto ma non ho voluto fermare la spedizione”. “Troppo spesso dici io. Chi ti ha dato il diritto di decidere anche per me?”. Solo le voci di Tito e di Allosanfàn risuonano ora: il precario equilibrio, che poggiava su un solido entusiasmo di gruppo, su un’ingenua convinzione, viene meno. Si insinuano, tra i “fratelli sublimi”, fantasmi simbolo di un’imminente rottura, di una crisi ormai preannunciata dai vaneggiamenti di Fulvio, dalla smentita e dalla successiva conferma di Tito: lo stesso giovane Allosanfàn, figlio del Gran Maestro Filippo suicidatosi sotto il glicine, è il fantasma di un individualismo che si fa largo all’interno delle decisioni prima delegate ciecamente al capo. Egli è animato da sentimenti rivoluzionari anche più fanatizzati ma mantiene la propria personalità, la propria volontà di decidere il da farsi: con la sua secca affermazione egli si insinua tra i meccanismi di organizzazione del gruppo, ormai logori e sfatti. Altra presenza spettrale è quella di Fulvio, traditore astuto e rabbioso che, nel tentativo ostinato di inseguire il sogno di una nuova vita, finisce col rimanere imbrigliato e imbrogliato nella rete del passato, in ideali e dinamiche che non gli appartengono più. Presenza spettrale è anche lo stesso Tito, condottiero ostinato, rivoluzionario senza risorse, talmente geloso della sua “isola che non c’è” da decidere per gli altri compagni: è la sovversività del singolo, la lotta di un uomo solo o una battaglia delle masse? E’ questo un interrogativo importante che si insinua tra le immagini proposteci dai fratelli Taviani: la voglia di giustizia, la tenacia nel voler attuare la spedizione sembrano trovare conforto in un processo rivoluzionario di parole e di idee, non di fatti tangibili, concreti, reali. E’ proprio il potere della parola che legittima Tito a scegliere per il gruppo: egli è il capo, la fonte da cui le speranze disilluse attingono nuovo vigore, è centro propulsore di stimoli combattivi. Allosanfàn questo lo contesta e con il suo “Troppo spesso dici io” cerca di intaccare la figura solenne, centrale, portante di un gruppo ormai gerarchicamente strutturato da anni. Allosanfàn-Fulvio-Tito-Allosanfàn-Tito: in questa non perfettamente geometrica successione di primi piani emerge chiara la presenza insolita dell’Imbriani. Perché viene chiamato (visivamente) in causa se non prende parte attivamente al dialogo? Anche Fulvio scatta e reagisce a quel decidere senza interpellare, in fondo anche il suo destino ora è segnato. La tensione è alle stelle e il campo lungo della ripresa inquadra la piccola imbarcazione in fermento, agitazione, subbuglio: l’equilibrio si è rotto.

La narrazione riprende ancora con un campo lungo sulla nave: ora fa la sua comparsa la musica che prende il posto di un silenzio che altrimenti parrebbe troppo finto, vista la situazione caotica che si era determinata. Ricompaiono i fratelli (a mezzo busto), allineati, a braccia conserte, ancora scossi dalle rivelazioni di Tito e dal suo battibecco feroce con Allosanfàn: pare quasi siano sul punto di emettere una condanna.

“Non mi guardate così, mi fate vergognare. Allosanfàn ha ragione: anch’io spesso mi chiedo se quanto faccio sia solo per orgoglio, perché non voglio ammettere, Tullio, che forse oggi occorrerebbe la pazienza invece di questa mia fretta. Se non avessi 40 anni ci proverei, Giulio, mi piacerebbe provare ma li compio proprio in questo maggio (…) Ormai sono capace di fare soltanto questo, quello che ho fatto fino ad oggi: non riesco che a vivere così, in questo mondo dove tutti sembra che dormano e soltanto noi siamo svegli”. Tito realizza, con amarezza, la realtà delle cose: nel pronunciare il suo discorso la macchina da presa lo ritrae rannicchiato, solo, avvolto in una coperta: la tempesta si è placata, la rabbia si è smorzata. Ora resta solo la dolorosa constatazione di un vivere ormai vincolato dal perseverare a credere in un sogno: è solo questo ciò che Tito sa fare. Nessuna prospettiva c’è per un uomo che ha edificato solo su illusioni, slanci del cuore e della mente, sedotto da una novità inattuabile: egli è giunto ai suoi 40 anni con un pugno di speranze, tradito forse da un ostinato orgoglio interiore, da un non volersi arrendere anche all’evidenza dei fatti. Lionello però, prima di lui, capendo che erano arrivati troppo tardi o troppo presto, chissà, aveva intuito la complessità della storia, la sua discontinuità e le sue sfasature cronologiche. La voce di Tito è sola: nessuno osa fiatare di fronte all’umiliazione, al denudarsi di colui che fino a qualche minuto prima era il capo, il motore del gruppo. C’è un suo timido appello ai compagni, un chiamarli in causa durante la confessione: non riceve alcuna risposta.

La “camera” si sposta verso l’azzurra distesa d’acqua, il mare è calmo, nessun movimento. Di nuovo compare il viso di Tito, rassegnato, velato da una tristezza che non può più rimanere segreta. Gli si affianca un compagno che gli porge una bevanda calda. Vanni Peste interrompe il clima di commozione esprimendo il desiderio di proseguire da solo il proprio cammino: egli vuole ostinatamente riscattarsi di fronte a coloro che l’hanno emarginato e condannato, non è sfiorato dalla paura o dallo sconforto, non ci sta a tornare indietro. Tito vuole aggregarsi a lui, visto che nessuna alternativa gli si prospetta dopo il fallimento della spedizione.

“Terra! Terra! Vedo terra! Terra!”, irrompe il grido di uno dei “sublimi”. E’ giunta l’ora dello sbarco: si avvicina il momento della verità, è la resa dei conti. “Però, penso che ci siamo…”. Ricompare il motivo musicale dell’inizio. Allosanfàn indossa la divisa dei sovversivi. La cinepresa lo scruta minuziosamente nella sua vestizione, quasi a sottolinearne la ritualità. Un’isola si profila all’orizzonte. Nel bel mezzo del sonno di un popolo imbelle sorgerà una spinta verso la rivoluzione?

                                                                       Silvia  I.

 

 

 

Il canto della “Marsigliese” e Vanni Peste

La nave si trova in una stretta gola, la musica è cessata, ha lasciato spazio all’ipnotizzante vista di un mare infinito. E’ calata la notte e l’inquadratura si spezza in due colori: il blu intenso dell’orizzonte contrasta vivamente col rosso delle divise indossate dai fratelli. Essi si sono raggruppati e uno di essi intona la “Marsigliese”, poco dopo le voci degli altri si congiungono alla sua. La loro disposizione sulla nave ci ricorda l’articolata struttura dei naufraghi nel dipinto “La zattera della Medusa” di Géricault: i più animosi e speranzosi si collocano sulla prua, sono i primi a cominciare a cantare e a trascinare gli altri, sono loro che nel quadro rappresentano la volontà di salvarsi; in un decrescere di volontà poi vengono coloro che hanno bisogno di essere incoraggiati e incitati e, infine, coloro (Vanni e Fulvio) che non si sentono appieno o per niente parte della confraternita. Anche la posizione trasversa della nave ci incoraggia in questa interpretazione: essa si impenna tra le onde che ne alzano lo scafo e che colloca gli uomini a prua in posizione più elevata rispetto agli altri.

Vanni, a fronte alta, ascolta commosso, pur non conoscendolo, l’inno rivoluzionario che viene intonato. Gli uomini cantano e Fulvio tace, le lacrime gli bagnano il volto; le parole inneggianti alla libertà per lui non hanno più senso, sono sillabe che non formano più parole ma solo suoni sovrapposti che si perdono nel buio. Non appena la luce incontra le sue lacrime egli chiude gli occhi, come se il bagliore –al pari d’una lama- l’avesse ferito. Compare l’ombra, poi di nuovo la luce: nella sua mente fuggono e si rincorrono le immagini del figlio e di Francesca. Vede gli occhi serrati di Massimiliano tremante che si accuccia quasi su una grande sedia, poi la “camera” si allontana velocemente retrocedendo nel corridoio al buio, e appare il dolce viso dell’amante di poche notti prima, che tira le sue trecce di bambina mentre è seduta, nuda, sul letto del tradimento e della menzogna.

Nell’immagine successiva Fulvio rialza il capo, si guarda intorno attonito come se si fosse improvvisamente svegliato da un lungo sonno e posa il suo sguardo su Vanni e gli chiede quale sia il suo nome. L’altro risponde: “Vanni Gavina, ‘u sai”. E Fulvio: “ma…come ti chiamano laggiù, dopo quello che hai fatto?”. Vanni lo guarda, sorpreso: “Vanni Peste, com’ u sai?”. Fulvio lo fissa e, abbassando gli occhi, mormora: “lo so”. Vanni, con lo sguardo rischiarato da una nuova speranza, domanda: “Ma tu credi davvero, vossignoria, ca se io arrivo laggiù con voi altri torneranno a chiamarmi col mio nome?”. Fulvio è girato verso destra e la sua figura è illuminata per metà dal riflesso della luna, si gira e la luce gli scorre sul viso; guardando Vanni, chiede: “Loro (e fa un cenno col capo in direzione dei compagni) lo sanno che ti chiami Vanni Peste?”. Vanni sorridendo: “No”, e Fulvio, abbassando lo sguardo: “Cialtroni”. La sequenza si chiude con l’immagine altamente simbolica dei “fratelli sublimi” che, rivolti verso sud, continuano ad intonare la “Marsigliese”.

“…scendete pure nel vostro Sud a suicidarvi fra contadini che non sanno nemmeno chi siete e che cosa volete, io prendo da un’altra parte”.

 Veronica C.  e Sara Pr.

Il prete coleroso, il massacro, il delirio di Allosanfàn, la morte di Fulvio

 

“Non sappiamo quello che ci aspetta, potrebbe anche andare male. Promettiamoci allora che, se vivremo, non ci dimenticheremo mai di questo momento, di come siamo ora qui, con le scarpe in mano, uniti da una speranza, diciamolo (…) Se un uomo riesce a raccogliere anche uno solo di questi ricordi, è salvo, io ne sono sicuro (…) ma io parlo così perché ho paura che vada male, ma perché dovrebbe andare male?”. Ha parlato Tito, rivolto commosso ai compagni.

Appunto, andiamo!”. Ed è sulle note tambureggianti del loro improvvisato canto di danza, che riempie lo spazio così luminoso, che il gruppo si avvia, un uomo dopo l’altro.

Mentre la musica va sfumando, si contrappone violentemente l’immagine cupa dell’altare di una chiesa, non completamente centrato: illuminato lievemente, esso è oscurato da un’ombra che lo attraversa in diagonale; risalta in tal modo un busto del Cristo, risultato del drastico gioco di luce e di ombra. E su note musicali stridenti, quasi grida terrificanti, si affianca la figura di un prete. Emerge il suo volto dal buio dello sfondo, emergono ora le sue parole dalla musica che si affievolisce sino a tacere. Da una posizione leggermente innalzata egli si rivolge al suo pubblico, volgendo lo sguardo prima a sinistra, poi a destra. E’ la sua invettiva contro “questi stranieri senza Dio” a prendere spazio all’interno della chiesa. E’ la rivendicazione della “piccola chiesa”, quasi madre affiancata alle schiere contadine, il tentativo di salvaguardarle dall’importazione di “armi e dolori e colera. E sapete qual è ch’ì guida?”.  Sembra quasi che egli voglia incitare il “suo popolo”. “Vanni Peste ì guida”, esita, e poi ancora “Vanni Peste”.

Lo spazio si riapre all’esterno: l’immagine è quasi colma di verde, a tratti schizzata di un verde più scuro e del marrone delle zolle mentre la completa una fascia di turchino. C’è silenzio ma non è indisturbato: c’è attesa, un brusio di fondo. C’è esitazione. La macchina da presa inquadra, in successione e in primo piano, tre “fratelli”. Il primo tiene in mano la bandiera che, arrotolata, solleva leggermente; “Eccoli”, dice. Il secondo inforca gli occhialetti e scruta con attenzione di fronte a sé. Il terzo è Tito che prova a leggere il proclama, ripetendolo a voce bassa. A fargli da sfondo è il resto della compagnia che emerge in singole figure. Fischia il vento: crea suspence nel momento culminante, sembra quasi colpire i corpi, sembra forse cullarli in un momento particolarmente difficile. Lo sguardo di Tito si alza verso l’orizzonte dove, al verde scuro della vegetazione e al marrone delle zolle, si sommano ora degli schizzi di bianco che via via si stanno avvicinando come, ancora una volta, trasportati dal vento. Tito interrompe la lettura e spalanca la bocca. Ora l’omogenea linea bianca, che si sovrapponeva all’orizzonte, si trasforma in deboli fantasmi che corrono. Un fratello volge lo sguardo e dice sicuro: “vedrai che Fulvio è già in mezzo a loro”. I registi affiancano queste parole all’immagine di Fulvio, una figura lontana che si muove a fatica, passo dopo passo. Egli, secondo i patti stabiliti nella confessione al prete, si spoglia della sua camicia rossa, della sua bandiera, della sua passione; accuratamente la ripone al suolo, evita di calpestarla e riprende la fuga; corre ora, vestito di bianco, sulla distesa verde.

I contadini si stanno avvicinando al gruppo dei rivoluzionari. Il viso di Allosanfàn emerge dalle sagome sbiadite dei suoi compagni: la sua espressione è incredula e visibilmente preoccupata. Poi, con lo sguardo fisso davanti a sé, dopo un breve momento di esitazione, dice: “Quelli ci vengono ad ammazzare!”. Un altro dei compagni incita alla fuga. I registi esitano ancora sulla staticità della scena che vede i protagonisti quasi immobilizzati. L’inquadratura si ferma su Vanni Peste: mentre alle sue spalle quattro “figure rosse” si allontanano, egli –col fucile in mano- respira profondamente; “Pam”, uno sparo. La folla contadina, bianca, retrocede e si riunisce attorno al corpo colpito, è quello di una bambina: nella massa di bianco che colma lo schermo spiccano il rosso del sangue della sua ferita e il rosa del tenero volto sofferente; nel silenzio solamente i suoi deboli lamenti. “Pam”, un secondo sparo: è quello di Tito contro Vanni. E’ un fatto accidentale, visto che Tito raccoglie quasi con disperazione il corpo del compagno ucciso? O può considerarsi una punizione, poiché la loro azione non aveva previsto un attacco armato contro la folla? Comunque sia, la scena è soppiantata dalla ripresa della corsa dei contadini che si avvicinano ora con più impeto, accelerato dalla musica. La situazione precipita velocemente: le camicie rosse sono accerchiate e violentemente colpite con zappe e forche. La “camera”, che prima riprendeva la scena al livello dei due gruppi e volgeva prima a destra poi a sinistra a seconda di chi si muoveva, ora è posta in una posizione più elevata e scruta il massacro; in un secondo momento si avvicina al centro in cui predomina il bianco delle camicie dei contadini ed emerge a fatica qualche spruzzo di rosso. La musica lascia spazio alle grida e ai lamenti. Il volto della bambina, sostenuta dalle braccia di una figura non riconoscibile, è in primo piano: gli occhi scrutano intensi, in silenzio. La violenza contadina non risparmia nessuno. “Quello! Quello!”, grida una voce di donna. Uno è raggiunto ma, nel frattempo, approfittandone, un altro scappa (Allosanfàn). Si riprende ancora una volta il viso della bimba, che ora chiude gli occhi, e –dall’alto- lo spiazzo su cui giacciono i corpi dei vinti e vagano in modo disordinato i vincitori. Il sibilare del vento, ora meno sommesso, racchiude il tutto.

“Fulvio! Fulvio!”, sono le grida di Allosanfàn che raggiungono l’Imbriani e ne frenano per un istante la fuga. Fulvio tenta di ignorarlo ma l’altro insiste. La corsa affaticata, ripresa dopo la breve esitazione, rallenta e si blocca. Il tono del giovane si fa più implorante e Fulvio gli si avvicina, camminando lentamente. Sono faccia a faccia.

“Ce l’abbiamo fatta! Si sono uniti a noi!”. Fulvio non capisce, chiede spiegazioni e attacca violentemente il suo interlocutore. Non può credere alle sue parole. “Ti hanno colpito alla testa”, gli dice. Ed è significativo il “Peccato che tu non ci fossi” dell’altro. Dopo un ennesimo attacco di Fulvio, egli inizia “la sua narrazione dei fatti”. Il volto è illuminato: si asciuga il sangue che gli riga il volto. “Sono venuti giù tutti assieme, noi li abbiamo aspettati. Ci hanno visto da lontano, da lontano non riuscivano a capire. Gioacchino allora ha alzato la bandiera, Tito ha letto il proclama, il nostro proclama, in dialetto ha cercato di leggerlo per farsi capire…. CI HANNO CAPITO! Qualcuno ha cominciato ad applaudire, anche gli altri…”. Riprende il motivo musicale, bellissimo, che li aveva accompagnati all’inizio della sequenza e che doveva condurli al trionfo, trionfo che invece raggiungono ora solo nelle parole deliranti di Allosanfàn. Parole, musica, lacrime. “Noi ci siamo messi a correre, loro si sono messi a correre e ridevano venendo verso di noi…ci siamo incontrati…”. Ed è solo quel loro canto di vittoria che risuona ora nello spazio, niente più vento; e che importanza ha se ad udirlo sono solo loro due? Esso risuona imponente ed incalzante: nella danza Tito, Gioacchino e tutti gli altri sono affiancati dai contadini, e c’è anche Vanni Peste, e rosso e bianco si muovono in armonia, insieme. Due passi avanti, due piccoli saltelli sul posto e una piroetta attorno a se stessi: camicie bianche e camicie rosse colmano lo schermo.

“Non è vero!”, grida Fulvio gettando una secchiata d’acqua (presa chissà dove!) sulla faccia di Allosanfàn. Tutto, di colpo, si blocca e il viso di quest’ultimo è ripreso in primissimo piano, attonito e rigato dal sangue. Resta in silenzio e poi, quasi esitando, dice: “Io…io torno là”. Fulvio, con una reazione inaspettata, gli chiede di fermarsi, lo prende per la camicia (stranamente appoggiata sulle spalle) ma quello procede diritto. C’è silenzio. Fulvio prende la direzione opposta con passo deciso trascinando con sé la camicia. La lascia cadere, dopo averla accidentalmente calpestata, e noncurante procede. Suonano le campane. Si arresta. “Ma allora è vero? Allosanfàn, allora è vero!!”. Raccoglie e indossa la camicia. Un fischio. Figure di soldati si delineano all’orizzonte, lo indicano… Pam!…Pam!…Pam! Fulvio si avvita su se stesso, cade a terra. Sagoma bianca sulla distesa di verde, mentre il turchino del cielo si è fatto grigio. Ulula e sibila il vento.

 

                                                                                  Sara  P.

 

Dio e i suoi gendarmi. Siamo all’interno di una chiesa e l’ambiente è cupo. Una musica inquietante, lugubre fa presagire qualcosa di terribile. La luce sembra provenire da sinistra e in modo labile rischiara la figura del Cristo crocifisso. Dal fondo emerge un prete che, in dialetto, si rivolge ai fedeli. L’inquadratura è frontale. “Chi sono, che vogliono da noi, che ci portano: acqua, medicine, farina? Sono stranieri senza Dio, ci portano armi e dolori. Il colera ci portano, io lo so (mettendosi la mano sul petto), sono loro che ci portano il colera. E sapete quello che li guida? Vanni Peste li guida, Vanni Peste!”.

La sequenza precedente si era conclusa con la danza di fiducia, di speranza dei “fratelli sublimi” pronti ad incontrare i contadini. I gesti, i passi, accompagnati da un ritmo incalzante bene esprimevano i sentimenti di forza, di gruppo, di conquista dell’”allegra compagnia”. Tutto allora poteva ancora accadere, il sogno si sarebbe potuto incarnare nella realtà. L’immagine è contrapposta alla scena ora descritta. Da un lato i rivoluzionari speranzosi, abbagliati dal miraggio ormai quasi palpabile dell’unione alle masse, dall’altro i contadini pronti all’attacco, quasi belve pronte all’assalto. Chi vuole l’unione, chi è pronto a combattere per respingere “gli stranieri”. Interessante è il gioco che si crea con l’introduzione (nella 1° inquadratura) del prete nella scena; si genera una sorta di parallelismo, uno sdoppiamento, in quanto il prete si sovrappone, si sostituisce al Cristo e si fa Dio (il crocifisso scompare e al prete subentra Dio). Ora al centro dell’altare si trova il sacerdote che è diventato portavoce della parola del Signore. Un Dio che incita i suoi fedeli alla rivolta contro coloro che sono accusati di causare malattie e dolore. Il discorso è in dialetto, enormemente più efficace e comunicativo. Sono spinti a difendere le tradizioni religiose (“contro stranieri senza Dio”). Le battute finali incitano alla vendetta: più volte si sottolinea che a guidare il gruppo di sciacalli è un loro compaesano, Vanni Peste.

L’attesa, l’impatto, la fine. C’è un paesaggio deserto di campagna. In lontananza, sullo sfondo, notiamo piccole case rurali. Si percepisce un rumore sordo e confuso. C’è vento. Primo piano di un “fratello” che osserva il progressivo avvicinarsi dei popolani. I suoi lunghi capelli sono mossi dal vento, il suo sguardo sembra già essere filtrato da un velo trasparente di rassegnazione, le sue parole cariche di una cosciente constatazione. “Eccoli!”. Un altro “fratello” inforca gli occhiali. Rumore del vento. Primo piano di Tito che rilegge silenziosamente, quasi sussurrando, il proclama di propaganda da spiegare ai contadini. E’ agitato, lo si legge nel volto; ha paura di cosa? Cosa ha intuito? “Siamo venuti dal nord per unirci contro la miseria”. Campo lungo dei popolani che avanzano come un’onda in progressione. Rumore del vento. Primo piano di un volto di “fratello” che pensa a Fulvio con sentimenti pieni di speranza e fiducia. “Vedrai che Fulvio è già in mezzo a loro”.  Ancora una volta la nostra attenzione è posta su un paesaggio di campagna. Al centro c’è un uomo intento a togliersi una giacca rossa, che poi nasconde dietro un rialzo del terreno. Poi si allontana verso sinistra. E’ Fulvio che sta scappando. E’ solo.

L’ammasso lontano di contadini, che prima vedevamo in lontananza, ora è un’innegabile realtà. Si stanno avvicinando, sono tanti e la loro corsa non è quella di chi è pronto ad abbracciare i liberatori ma è una corsa feroce, impaziente, pronta all’attacco. Si risente la stessa musica inquietante ascoltata all’inizio: non promette nulla di positivo. Primo piano di Allosanfàn. E’ incredulo, si guarda attorno, capisce, sentenzia: “Quelli ci vengono ad ammazzare!”. Un “fratello” si volta e rivolta per osservare le reazioni dei compagni; nessuno si muove, stanno lì, immobili, quasi aspettando la disfatta; l’uomo sente il bisogno di reagire, non vuole morire e l’unico modo per sopravvivere gli sembra quello di incitare i compagni alla fuga. “Andiamo via” (ripete). Come immaginare tanta ferocia ed energia in un popolo povero, ignorante, malato? Vanni Peste chiude gli occhi, solleva il fucile e spara sulla folla. E’ un atto di vendetta? Non penso proprio. E’ disperazione, frustrazione: non può osservare impassibile una sua nuova sconfitta, non può più scappare, ha bisogno della sua terra. Nel momento in cui decide di alzare l’arma il suo petto inizia a muoversi con affanno e il fatto stesso di chiudere gli occhi mentre spara sottolinea che l’atto è più indotto dalla prostrazione che da un sentimento di conflitto o di vendetta.

Lo sparo si è disperso tra la folla. I contadini che prima avanzavano decisi ora si fermano e subito indietreggiano uniti. Qualcuno è caduto a terra, forse c’è un ferito. Primo piano di un uomo che si china e solleva una bambina. L’uomo, forse il padre, stringe a sé la piccola che ansima e che lo guarda. Tito colpisce alle spalle Vanni e subito accorre a sorreggerlo. I compagni fuggono. Ma perché Tito ha sparato? In campo lungo si vedono i contadini che riprendono la corsa, avanzano ancora più decisi, aggressivi, agitando rabbiosamente i loro utensili da lavoro. I “fratelli” si avvicinano l’uno all’altro, ora, nel momento della sconfitta. La folla, impazzita di fame di paura di colera, inizia a colpire uno ad uno i rivoluzionari che cadono inerti. Rumori del vento, dei gemiti di fatica degli uccisori, dei lamenti di dolore degli uccisi. Cambia l’angolazione, la m.d.p. segue la scena dello sterminio dall’alto. Gli ultimi sovversivi stramazzano al suolo come sterpaglia falciata da un energico coltivatore. Zoomata su quei corpi abbandonati. Primo piano della bimba ferita che osserva la devastazione. Il padre con una mano le solleva la testa e con l’altra la sorregge. Tutto è finito. I contadini si allontanano disperdendosi ai lati. Qualcuno approfitta e ruba le armi degli sconfitti. Sul lato destro della scena vediamo fuggire un ribelle sopravvissuto, una donna lo avvista e avverte, “Quello, quello!”. Non c’è nulla da fare, l’uomo è braccato e ucciso a colpi di falce…ma c’è qualcuno che è riuscito a farcela. Nuovo primo piano della bambina ferita. Torna il silenzio, confuso all’impertinente fruscio del vento. I contadini si allontanano dalla zona in cui si è consumato lo sterminio; ciò che ne rimane è una desolata visuale dei “fratelli” immobili. Nella loro stasi di morte sono ammassati l’uno sopra l’altro, e questo è ciò che resta della loro illusione. Voglio sottolineare che la serie di primi piani sulla bambina ferita mi ha lasciata perplessa. Cosa vogliono significare? La prima impressione è quella di un padre che vuole (lo fa tenendole fermo e sollevato il volto nella scena del massacro) rendere partecipe la moribonda della distruzione dei suoi assassini. L’idea che ne esce è quella di un ambiente chiuso, ancorato fortemente ai temi di vendetta, di odi familiari, di invidie contadine…questa è l’unica risposta che ora riesco a darmi. Finisco con una notazione sull’immagine dei “fratelli” morti, un conglomerato “rosso” di corpi inerti, stretti l’uno all’altro, disposti in forma (più o meno) circolare. Ciò che è circolare non ha uscite, è destinato a ripetersi, a rincorrersi. Questo indica qualcosa? La minoranza è destinata alla sconfitta? Bisogna seguire il corso della storia? Quel grumo di morti tra poco vincerà?

Il delirio di Allosanfàn e il racconto dell’utopia.   C’è un paesaggio spoglio, privo di figure umane, poi intravediamo qualcuno: è Fulvio che prosegue la sua fuga. Corre, è stanco. Subito ci appare limpido un contrasto; se ricordo bene, infatti, l’ultima inquadratura si era conclusa con un campo lungo di quel groviglio rosso di carne e avevo sottolineato l’idea di unità, di coesione che l’immagine nella sua amarezza e drammaticità esprimeva. Ora invece ci è apparso un Fulvio solo che cammina fra la desolazione di un paesaggio brullo. Egli non è fra quei corpi, non è fra il sangue dei suoi compagni ma solo nella sua fuga e nel tormento della sua volontà. La nostra attenzione si sposta ora su un altro uomo: deve essere il sopravvissuto allo sterminio. Indossa una casacca rossa…è sicuramente lui. Procede con andatura zigzagante. L’uomo invoca più volte il nome di Fulvio, inseguendolo, ma questi cerca di dileguarsi, è fermo, poi continua a camminare, poi ancora si ferma. Il ferito è Allosanfàn, che appare come un fantasma dal libro dei ricordi. I tentativi dell’Imbriani di separarsi con violenza da una parte di se stesso si rivelano ogni volta fallimentari e questo è dimostrato dalla frequenza con la quale i fantasmi riappaiono e nei momenti meno desiderati: Charlotte, Tito e gli altri nella villa, ancora Tito e i fratelli al funerale di Charlotte, Lionello, Francesca e ora il giovane Allosanfàn. “Ce l’abbiamo fatta, si sono uniti a noi”. Fulvio gli si rivolge con voce alterata: “Chi?”. A: “I contadini”. F: “A chi si sono uniti?”. A: “A noi, Fulvio”. F: “Che stai dicendo, imbecille?”. A: “Che vengono qua tutti insieme”. F: “Ti hanno colpito alla testa”. A: “Sono caduto, peccato che tu non ci fossi”. F: “Tu stai delirando!”. A: “Ho visto con i miei occhi”. F: “Cos’hai visto, imbecille?”. Primissimo piano di Allosanfàn: “Ti dico tutto da principio”. “Tu stai delirando” (voce fuori campo di Fulvio). “Aspetta!” (le due voci si sovrappongono), “Aspetta”. Al centro dello schermo ora appare solamente il volto del giovane e non più Fulvio di spalle. Lo sfondo viene sfocato maggiormente con l’intento di dare risalto alle parole. Inizia a sentirsi lontana una musica di sottofondo. “Sono venuti giù tutti insieme, noi li abbiamo aspettati, ci hanno visto da lontano, da lontano non riuscivano a capire, Gioacchino allora ha alzato la bandiera. Tito ha letto il proclama, in dialetto ha cercato di leggerlo, per farsi capire; ci hanno capito, qualcuno ha iniziato ad applaudire (la musica si fa più forte), anche gli altri ci salutavano, applaudivano. C’era anche una bambina fra loro, ci ha salutato”. Primo piano di Fulvio. Voce fuori campo di A. che ripete: “ci ha anche salutato. Peccato che tu non ci fossi, Fulvio, noi ci siamo messi a correre, loro si sono messi a correre venendo verso di noi, ci siamo incontrati, Vanni ha abbracciato tutti, ma tutti”. La musica aumenta confondendo le ultime parole del narratore; sul suo volto si scorgono delle timide lacrime. Fulvio gli si avvicina ma questi si allontana di scatto. La musica si innalza spargendosi nello spazio deserto.

Il racconto immaginario ora è reso azione; era sembrato il delirio di un sognatore, ora è la riaffermazione di un’utopia concreta, di una necessaria probabilità di trasformazione. Musica popolare dal ritmo incalzante di danza. Tito, Vanni e tutti i “fratelli sublimi” avanzano ballando tutti insieme, in una danza aggressiva e liberatoria Primo piano di Tito che danza.  Campo medio: Tito, Vanni, contadini, “fratelli”, tutti danzano. Fulvio grida e butta un secchio d’acqua in faccia ad Allosanfàn. La musica bruscamente si interrompe. L’atmosfera muta.

La sconfitta di un passato volto al presente. Fulvio ora si avvicina ad Allosanfàn. Posa la mano sulla spalla del compagno sfilandogli accidentalmente di dosso la casacca rossa. L’altro, deciso, si allontana: “Io torno là”. Fulvio si ferma, perplesso. Sente il suono delle campane che rintoccano festose dal vicino paesino. Cammina, poi si blocca. Ha deciso, torna indietro in direzione di Allosanfàn. Campo medio di un gruppo di rocce poste quasi a formare una piccola muraglia. Fulvio sta correndo, ora crede anche lui all’unione –che riteneva impossibile- tra i contadini e i “fratelli”. D’un tratto si ferma, raccoglie la casacca dell’amico, poi la indossa. Non ha intenzione di farsi vedere dai compagni privo della divisa da battaglia, non è anche lui uno del gruppo? Non ne è stato un capo? Rumore del vento. Visuale di un gruppo di sassi; dietro vi si intravedono delle figure umane. Sono soldati e uno di loro indica Fulvio. Questi cerca inutilmente di strapparsi di dosso la camicia rossa (rimane a metà braccio). Quattro colpi di arma da fuoco. Campo lungo di alcuni uomini armati. Fulvio si accascia al suolo. E’ morto. Continua il rumore del vento, incessante. L’ultima immagine è quella del suo corpo abbandonato in mezzo alla vallata, lontano da quelli dei compagni. La separazione è definitiva. La divaricazione è netta. Primo piano del sipario rosso che si richiude, così come si era aperto all’inizio del film. Si salva, non si sa, la figura del giovane idealista Allosanfàn, simbolo della fede nella rivoluzione, mentre Fulvio Imbriani cade solo, al centro di una scena da teatro, vittima della sua stessa commedia.

 

                                                                       Silvia  Z.