Voltaire detective: “L’affaire Calas”, 1761.

Voltaire detective: “L’affaire Calas”

Un padre messo a morte per aver ucciso il figlio.

 

Omicidio camuffato da suicidio o viceversa? E’ quanto si chiede tutta Tolosa nell’ottobre del 1761. Ma la notizia è rimbalzata fino alla corte di Parigi. La vittima si chiamava Marc-Antoine Calas, 28 anni, figlio di Jean, commerciante in indenne –tessuti di cotone stampato. Il giorno 13, il cadavere del giovanotto è stato ritrovato nel negozio sopra al quale abita la famiglia. Il collo recava lividi da strangolamento: Marc-Antoine si è impiccato o l’hanno strozzato? A indagare è tale David de Beaudrigue. Il magistrato non può immaginare che quell’inchiesta diverrà una maledizione, per lui e per la sua discendenza.

Questa la prima ricostruzione dei fatti: alle ore 19, Jean Calas e la moglie Anne-Rose cenano in casa con la domestica, un amico di famiglia, Gaubert Lavayasse, e due dei sei figli: Pierre e Marc-Antoine. Mezz’ora dopo, quest’ultimo saluta e si ritira. Quando, più tardi, Pierre riaccompagna l’ospite Lavayasse all’uscita scopre dabbasso il corpo del fratello, steso a terra –sostengono inizialmente i familiari. Qualcuno si è introdotto nell’abitazione e ha assalito il ragazzo? Mentre gli inquirenti procedono alle constatazioni, una folla si addensa intorno all’edificio di rue des Filatiers. La città non è tanto piccola, ma la gente mormora. E rapidamente il mormorio assume la muscolatura di una diceria che oggi definiremmo virale.

Omicidio religioso.

Secondo i rumors, Marc-Antoine è stato ucciso dal padre Jean, di confessione protestante, perché stava per convertirsi al cattolicesimo. La sentenza è già scritta: parricidio (ai tempi, era classificato così anche l’omicidio commesso da un genitore). Nella calca, l’ispettore de Beaudrigue che fa? Tanto per cominciare sbatte tutti al gabbio: i Calas, più l’amico e la domestica. Sotto torchio, i cinque si contraddicono. Fino a fornire una nuova descrizione della scena criminis: il cadavere –affermano adesso- non è stato ritrovato sdraiato, ma penzolante da una corda. Se si è trattato di suicidio, perché mascherarlo da omicidio? Perché all’epoca chi si toglie la vita non ha diritto a degna sepoltura: faccia a terra, il cadavere del reo verrà trascinato da cavalli lungo le vie della città e buttato in una fossa comune. I coniugi Calas avrebbero dunque mentito per evitare al corpo del figlio quello scempio, e lo stigma che l’insano gesto avrebbe inciso sulla reputazione familiare. Ma qualcosa ancora non torna. Marc-Antoine si sarebbe impiccato legando una cordicella a una sbarra piazzata sui battenti di una porta. Operazione troppo arzigogolata, giudica il magistrato. Viene lanciato un appello a testimoni. Di fatto, un pubblico invito alla delazione tra i fedeli delle parrocchie. Alla fine, sulla base di un pissi-pissi e senza uno straccio di prova, passerà la tesi della vendetta religiosa.

Ma come? Dopo una cenetta, il papà scende e accoppa il primogenito a freddo? Un uomo di 63 anni fa fuori un giovane nel pieno delle forze senza lasciar traccia di colluttazione? Poco importa: Jean Calas, la consorte e il figlio Pierre sono condannati all’impiccagione, l’amico di famiglia ai lavori forzati, la domestica all’ergastolo. In appello, la sentenza verrà addolcita per tutti, salvo che per Monsieur Calas. Il 9 marzo 1762, il commerciante calvinista, che anche sotto tortura ha continuato a negare, è messo al supplizio della ruota (cioè legato alla ruota di un carro dove gli arti gli vengono fracassati a mazzate), quindi strangolato e gettato sul rogo. Maggiore indulgenza per gli altri: Pierre è bandito dal territorio francese, Madame Calas –a cui sono stati confiscati i beni di famiglia- viene allontanata da Tolosa, l’amico Lavayasse e la domestica sono rilasciati. Ingiustizia è fatta. Sipario.

Come Nero Wolfe.

Il lettore italiano che voglia farsi un’idea passabilmente più chiara della turpe vicenda ha ora a disposizione “Il caso Calas” (edizioni Marietti). Nel libro-dossier sono riuniti i maggiori scritti dedicati da Voltaire a quel giallo (inclusa una nuova versione del celeberrimo “Trattato sulla tolleranza”), più alcuni testi, inediti in Italia, nei quali il filosofo trascrisse le testimonianze della vedova Calas e dei suoi figli. L’affaire segna, come noto, uno spartiacque nella traiettoria del Voltaire polemista. Con oltre un secolo d’anticipo sullo scandalo Dreyfus e il J’accuse di Zola, rappresentò il primo vagito di una figura messianica, quella dell’intellettuale engagé, e il momento aurorale del dibattito sulla pena di morte. O almeno, è così che ci è stato sempre raccontato. Ma, sottoposta a riesame, la valorosa battaglia dell’eroe dei Lumi contro il fanatismo presenta non poche zone d’ombra. Attinenti tanto al caso in sé quanto all’uso strumentale e perlomeno spregiudicato fattone da Voltaire.

Quando comincia a interessarsi alla faccenda, il filosofo è una star di quasi 70 anni. Ha alle spalle una vita leggendaria fatta di corti, salotti, impertinenze che gli sono costate pestaggi, incarcerazioni. E poi fughe, amori, occhiute speculazioni finanziarie. Risultato: un immenso successo senza frontiere. Con venerazione o terrore, dai Pirenei agli Urali non si parla che di lui, l’iconoclasta, l’avventuriero, ma soprattutto il poligrafo geniale: teatro, poesia, saggi, racconti, e un diluvio di lettere (tredici i volumi della corrispondenza nell’edizione Pléiade). Quello che, in età pensionabile, riapre il Caso Calas è insomma un divo della letteratura e del costume, ma non ancora a pieno titolo di ciò che chiamiamo impegno. Sulle prime, Voltaire sbircia a distanza nel fattaccio tolosano col cinismo che gli è proprio. Convinto della colpevolezza di Calas, commenta in una lettera: “Un bravo ugonotto condannato alla ruota per aver strangolato il figlio… Pensava di essere superiore ad Abramo, poiché Abramo non fece che obbedire, mentre il nostro calvinista ha impiccato il figlio di propria iniziativa e per scelta di coscienza”. Voltaire scrive queste parole dal castello di Ferney, la località francese a pochi km dalla calvinista Ginevra, che ha eletto a rifugio e buen retiro. Tutta la contro-inchiesta sull’affaire Calas la condurrà da lì, da casa. Un po’ come Nero Wolfe, il detective che risolve i gialli senza uscire dall’appartamento newyorchese. Da colpevolista a innocentista: qualcuno ha definito la metamorfosi di Voltaire una conversione. Eppure sul Caso Calas, Arouet si fabbrica una nuova opinione nello stesso modo con cui si era formato quella precedente e opposta, ossia basandosi su quanto gli viene raccontato dai variopinti ospiti che riceve nel suo castello: ambasciatori, notabili, un mercante marsigliese di religione protestante… E infine Donat Calas, giovane figlio del disgraziato Jean, che pur non essendo direttamente implicato nella vicenda ne traccerà al filosofo un quadro tale da fargli cambiare idea una volta per tutte. Più tardi, Voltaire racconterà: “Lungi dal considerare la famiglia Calas fanatica e parricida, ritenni di credere che fossero stati dei fanatici ad accusarla e a causarne la perdizione. Sapevo da tempo di che cosa sono capaci la faziosità e la calunnia”.

Sponsor influenti.

Nell’affaire il “patriarca di Ferney” irrompe a gamba tesa appena un mese dopo l’esecuzione della condanna. Come? Innanzitutto dando fondo all’agenda, mobilitando la sua poderosa rete di contatti e sponsor negli ambienti giusti. E’ sempre stato un formidabile propagandista, specialmente di se stesso, ma stavolta si supera: tra il 1762 e il 1765 smitraglia oltre trecento lettere sul Caso Calas. Con missive, opuscoli, pamphlet, e con l’acribia di cui sono capaci solo certi anziani ringalluzziti, monta su un can-can mediatico che farà epoca. “E’ un uomo solo, relegato alle frontiere del regno, che sfida l’ostilità di potenti e burocrati” ricordava lo storico Pierre Milza in un’ottima biografia di Voltaire. Un uomo solo, sì, ma dotato di un invidiabile réséau (circolo) di amicizie influenti, nonché d’una rabdomanzia, di un fiuto particolare per catturare l’aria dei tempi. E quelli di Voltaire sono tempi che, seppur in forma ancora elitaria, vanno partorendo una nuova creatura, insieme mirabile e mostruosa, chiamata opinione pubblica. Esagerando, distorcendo, manipolando i fatti, Arouet la solletica, la teleguida, ne dirotta il corso dove vuole lui. L’affaire Calas è un plateale errore giudiziario. E il martirio dell’ugonotto è subito puntato come una pistola contro il Fanatico, contro la Chiesa cattolica e il sistema Ancien Régime, suo complice. Si avvia così la revisione del processo, che dopo varie tappe approderà alla completa riabilitazione di Calas buonanima. I familiari vengono scagionati e risarciti. Viva Voltaire.

Un mistero irrisolto.

Arouet è in solluchero. Benché diminuito dagli acciacchi senili, il ruolo di paladino contro la mala giustizia gli piace assai. Prima di morire a 83 anni, farà riaprire altri casi controversi. Ma la vicenda Calas rimarrà esemplare. Tanto nel metodo quanto nel merito. Perché il modus operandi volterriano è quello della battaglia giudiziaria interpretata come lotta ideologica in cui qualsiasi fatto dovrà rientrare nella gabbia di un teorema: in questo caso teorema innocentista, ma potrebbe valere anche al contrario. In realtà, barando non poco, Voltaire riesce a convincere tutti non tanto dell’innocenza di Calas quanto dell’indimostrabilità della sua colpevolezza. Così facendo, renderà altissimo servigio al garantismo, ma pessimo all’accertamento della verità –qualsiasi cosa si intenda con questa formula. Del resto, la morte di Calas jr. rimane a tutt’oggi un mistero. Se il giovane si suicidò, perché lo fece? Conflitti economici col padre? Debiti di gioco? Delusioni amorose? Di sicuro c’è solo che la pista religiosa non stava in piedi. Anche perché i Calas erano ugonotti sui generis. Avevano fatto battezzare cattolicamente tutti i figli. E a Tolosa –città di radicata tradizione ereticale- la famiglia praticava la religione riformata in modo più che tiepido. Ma questa storiaccia di fake news sarebbe costata carissima anche al magistrato de Beaudrigue, che da accusatore divenne l’emblema del crudele inquisitore, fino a impazzire e a uccidersi. Mentre, secondo una leggenda perfettamente plausibile, suo figlio venne ghigliottinato durante la Rivoluzione: solo perché figlio di un “infame”.

 

Marco Cicala

 

Questo articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 21 gennaio 2022, alle pp. 90-93.