Mia prefazione alla cronistoria della Repubblica democratica napoletana e meridionale (23 gennaio-14 giugno 1799). Note di metodo.

Prefazione alla cronistoria della Repubblica democratica napoletana (23 gennaio-14 giugno 1799). Note di metodo.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica democratica napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti documentati intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”. Però, abbiamo sempre il bisogno di non perdere memoria di quanto è avvenuto e di quale tecnica –via via più perfezionata- si è stati capaci di usare.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore – nella guerra antifeudale del 1647-’48.

 “Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro, G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975, pp. 28-29). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di Giuseppe Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Sono consapevole che c’è una dimensione di “transizione” che continuamente evoluziona e trasforma la società. La si può definire come l’incontro tra il “tempo corto” delle azioni di ogni giorno e il “tempo lungo” del divenire storico, dei mutamenti socio-economici, politico-istituzionali e comportamentali, nello sforzo di riprodurre non tanto la “quantità” degli avvenimenti (è possibile per tutti?) ma “la qualità”, abituandoci ad applicare a società lontane e diverse parametri d’interpretazione non deformanti sia per lo studio dei fattori economici sia per lo scavo di strutture mentali collettive di uomini e donne. Possiamo trovare risposte ai fatti che indaghiamo solo se sappiamo fare buone domande.

Per quanto riguarda la voce “fatto storico” sembra scontato che non ci siano sorprese: siamo nel campo più classico della storiografia ma è sempre opportuno richiamare l’esistenza di due atteggiamenti storiografici canonici, quello positivistico e quello ermeneutico, a parziale contrasto tra loro, e sottolineare che “la valutazione dell’evento” è tuttora uno dei punti più caldi del dibattito. Per intenderci si sono lette una trentina di anni fa, ne “Il sogno della storia” di Georges Duby, frasi –un tempo ereticissime- come queste: “Io credo che un libro di storia sia un genere letterario, che ha a che fare con la “letteratura di evasione”, che soddisfa un desiderio di evadere da sé, dal quotidiano; sono convinto dell’inevitabile soggettività del mio discorso storico (…) Invento, ma mi preoccupo di fondare la mia invenzione sulle basi più solide, di edificarla a partire da tracce rigorosamente criticate; il discorso storico è il prodotto di un sogno, di un sogno che non è tuttavia interamente libero giacché i grandi sipari di immagini di cui è fatto devono necessariamente essere assicurati a dei ganci: e questo vale tanto per la storia recente, benché in essa vi sia sovrabbondanza di fonti, quanto per la storia di un mondo molto antico, dove la documentazione è estremamente lacunosa, dove lo spazio lasciato alla libertà del sogno è immenso”. Ed è del 1988 il libro di Jean Lévi, “Il grande imperatore e i suoi automi”, (Einaudi), del quale l’autore confessa di averlo cominciato come libro di storia e che via via gli si è trasformato in romanzo a causa della qualità dei documenti che maneggiava: il testo si apriva alla favola, al simbolismo, all’inverosimile, insomma a quella dimensione fantastica che uno storico avrebbe dovuto abolire. Sono evidentissimi i contrasti con altre interpretazioni ed usi –specie di derivazione neo-positivistica- delle nozioni di fatto e di documento.

Credo che oggi non esistano sostanziali divergenze di opinione sul fatto che sia superato quel canone classico –per così dire- secondo cui la storia sarebbe una sequenza unitaria di eventi, un processo lineare di sviluppo. Sia pure con matrici diverse –hegeliana, positivista, marxista, idealista- questa concezione ha conosciuto fino a poco tempo fa molta fortuna. Ma, lungo la strada, l’idea che il corso storico sia una successione di stadi regolati da leggi precise e da meccanismi di transizione quasi automatici è apparsa sempre più inadeguata a cogliere la complessità della realtà e del suo divenire. D’altra parte la visione evoluzionistica, lo sappiamo, era legata all’ideologia del progresso di derivazione sette-ottocentesca e ad una concezione eurocentrica del corso generale della civiltà umana. Mutati però i perimetri e gli orizzonti tradizionali della storia, si è posto il problema di stabilire quali dovevano essere le dimensioni e i contenuti del nuovo campo di indagine: l’area di osservazione non era più limitata a soggetti e avvenimenti “prioritari” –per convenzione- rispetto ad altri, ma diventava assai più vasta e multiforme sia nei suoi scenari che nei suoi attori, implicando di necessità analisi più articolate e l’impiego di nuovi metodi di ricerca. Valerio Castronovo ha parlato di “una moltiplicazione delle piste di ricerca e di una riorganizzazione della cassetta degli strumenti di cui la storiografia si serve”.

Le nuove linee di indagine sono state attente non più solo all’elemento biografico, alla storia etico-politica e a quella delle idee, all’avvenimento e alla “breve durata”, ai processi convulsi delle lotte per il potere e al funzionamento di determinati sistemi politico-istituzionali. Soprattutto non sono più stati confinati in un ruolo secondario il vissuto quotidiano su piccola scala, le credenze popolari, i fattori di continuità e permanenza, quello che è proiezione dell’anonimo e del collettivo o che è lenta maturazione su piani molteplici (da quello biologico a quello mentale, a quello tecnico, economico e via dicendo) di stratificazioni sociali apparentemente invisibili o a malapena percepibili, ma comunque essenziali negli equilibri o nei processi di trasformazione di una data epoca. E’ una storia stratificata in una triplice dimensione: quella del tempo rapido, convulso a volte, degli avvenimenti (una battaglia, un’elezione politica, una rivoluzione istituzionale), quella del ritmo lento (una fase di depressione economica) e quella del tempo quasi immobile della “lunga durata” che traversa i secoli e i millenni (il lavoro della terra, i rituali religiosi, l’adattamento all’habitat).

Per finire, va sottolineato che la riflessione storiografica –negli ultimi decenni- è giunta, se non a una sfiducia verso i propri metodi, sicuramente a una maggiore consapevolezza del loro funzionamento e dei loro limiti. “Come è ormai pacifico e da tutti accettato, lo storico –nelle sue ricostruzioni- inserisce il suo punto di vista, la sua cultura, finalità estranee ai testi e ai fenomeni osservati. Per quanto cerchi di adattare il suo bagaglio concettuale all’oggetto della ricerca, riesce di rado a sbarazzarsi del filtro personale con cui studia le cose. Se diventiamo consapevoli di questo, fino a che punto possiamo ritenere affidabile una ricostruzione storica? Esistono varie prospettive sul passato, ognuna con una sua legittimità, certezze assolute non ce ne sono più” (Mauro Pesce). La molteplicità delle interpretazioni dipende dalla prospettiva di chi guarda, dagli aspetti che si vogliono o che si è capaci di cogliere.

Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

Gennaro Cucciniello