L’onestà di Osip Mandel’stam rende effimera la rivoluzione bolscevica del 1917
Mi lavavo di notte nel cortile;
il firmamento splendeva di rozze stelle.
Il loro raggio – è sale sulla scure,
la botte, colma fino all’orlo, gela. 4
Il portone è chiuso a chiave,
la terra è severa secondo coscienza.
Non troverai trama di verità più pura
che in una tela fresca di bucato. 8
Nella botte si scioglie, come sale, una stella
e l’acqua gelata è più nera,
più pulita la morte, più salata
la sventura, più sincera e terribile la terra. 12
da “Poesie” 1921
Mandel’stam parla spesso del cielo, soprattutto del cielo notturno; ne parla come di uno spazio vuoto, gelido, con la purezza del nero. Niente consolazioni romantiche: il cielo è distanza siderale, nuda incomunicabilità. Che però è anche libertà, se quaggiù in terra la comunicazione diventa ipocrisia, ottusità, violenza. Il cielo è un’unità di misura esorbitante rispetto alla storia. Le stelle sono indicatori di direzione (come le frecce nei quadri di Paul Klee) verso una disciplina e una geometria eterne, impersonali, segni di una Legge superiore. Le stelle emettono il loro messaggio e l’uomo-poeta è come una conchiglia che lo raccoglie; una conchiglia sonora capace di riprodurre almeno in parte, azzardando l’insensatezza, la densità indecifrabile del cielo. “Per la beata parola senza senso”, scrive, “io pregherò nella notte sovietica”. Che ci fa un tipo così in mezzo alla Rivoluzione bolscevica?
Mandel’stam era nato a Varsavia da una famiglia ebraica della media borghesia, trasferitasi a Pietroburgo quando lui era piccolissimo; a sedici anni i suoi l’avevano mandato a Parigi, da lì ha viaggiato in Svizzera e in Italia. Tornato in Russia, ha conosciuto a vent’anni un gruppetto di poeti e ha fondato con loro una scuola, o tendenza, che hanno chiamato “acmeismo”; il loro programma era occuparsi dei vertici (acme) primordiali dell’esistenza, una poesia tutta cose, oggetti, senza nebbioline simboliche, con un richiamo alla semplicità e alla pulizia dei classici. Cinque o sei anni dopo su questi ragazzi e ragazze la Rivoluzione si abbatte con la forza di un ciclone: altro che la loro oggettività educata e cerebrale! L’epoca è “una belva”; lì ormai si tratta, scrive ancora Mandel’stam, di “agganciare le vertebre di due secoli / incollandole col proprio sangue”. Il poeta ha dubbi, la retorica rivoluzionaria gli ripugna; eppure si lancia, ma sì, proviamoci –un’immensa virata dell’umanità, sia pure scricchiolante e maldestra, e sempre ricordando che “la terra ci costa dieci cieli”. Sacrificare momentaneamente l’assoluto per cambiare il mondo.
Il testo che leggete in questa pagina è stato scritto nell’ottobre 1921; nell’agosto dello stesso anno Nikolaj Gumilev, uno dei compagni acmeisti, è stato fucilato con l’accusa di attività controrivoluzionaria. Mandel’stam apprende la notizia mentre si trova con la futura moglie a Tbilisi, in Georgia, ospite di una “casa delle arti” dove cerca di accreditarsi come scrittore di Stato, accettando vili ma per ora quasi insensibili compromessi. Lì una notte, mentre si lava in cortile, l’assoluto lo trafigge. Le stelle, ancora e sempre, ma rozze come possono essere in provincia; il loro raggio illumina il filo di una scure, reale o immaginaria. Il raggio è come sale: sia perché brilla, bianco, sia perché il sale è saggezza e quindi consapevolezza (della ferocia). Dopo il trattino del terzo verso l’io sparisce e scompare l’imperfetto narrativo: tutto è presente, necessario, senza sfumature e senza scappatoie. La superficie rotonda della botte è ghiacciata come uno specchio; la porta carraia è sprangata, il cortile è lo spazio della resa dei conti – l’aggettivo russo che il sesto verso attribuisce alla terra è quello che nel linguaggio comune si attribuisce a una professoressa: severa, proprio nel senso didattico. La durezza degli avvenimenti insegna alla nostra coscienza ad essere altrettanto dura, a non perdonarsi niente. La trama della vita ha una verità che dev’essere limpidamente compresa, nel bene e nel male, come si apprezza la trama di una tela appena lavata. “Un asciugamano di tela grezza che ci eravamo portati dall’Ucraina”, testimonia la fidanzata Nadezda; l’oggetto familiare provoca anche nei versi un’incrinatura di dolcezza. Questo è l’unico punto dell’intera poesia in cui due versi si legano insieme: in tutto il resto la metrica (cinque piedi trocaici a rima alternata) ha un passo uniforme e quasi solenne, ogni verso cade come un monito. Nell’originale russo 9 versi su 12 terminano con un sostantivo, la concretezza delle cose è maestra. Una stella, come un’ostia o come un grumo di sale-sapienza, viene a sciogliersi nel cerchio della botte; non c’è più schermo all’inflessibilità del dolore, né alla sua durata (il sale serve anche per conservare). Non ci sono scuse o invettive auto-assolutorie: il destino si guarda a occhi asciutti, ringraziando la terra della sua sincerità (per quanto terribile).
Siamo nel 1921, niente è ancora successo; i guai di Mandel’stam col potere sovietico cominceranno un paio d’anni dopo –progressiva emarginazione e offensivo disprezzo fino al soggiorno coatto e poi alla deportazione in Siberia. “Scrive poesie da salotto”, sentenzierà l’Unione degli scrittori. Lui e la Rivoluzione sono reciprocamente inutili l’uno all’altro; lui ha un temperamento gioioso, sogna di “fischiarsi la vita come uno storno / e divorarla come una torta di noci”. Ama le donne, legge Petrarca e Ovidio. Completamente disadatto all’impegno, non sarà mai un oppositore di quelli che fanno tremare gli Imperi; fosse vissuto in Occidente, sarebbe stato un Eliot o un Rilke. Ma lì, in quel cortile a Tbilisi, il suo talento non gli permette di mentire. Senza denigrare il Potere che lo schiaccerà: fissando lo sguardo in un gioco di luci che chi combatte per la Rivoluzione considera frivolo –mentre forse è proprio la Rivoluzione, di fronte a quel firmamento, ad apparire effimera.
Nel 1934 Mandel’stam sarà arrestato per aver scritto versi contro Stalin. Morirà in un gulag sovietico nel 1938.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 2 febbraio 2014, p. 52