“Una giornata particolare” di E. Scola, 1977 (prima parte)
Sceneggiatura: R. Maccari, E. Scola (e M. Costanzo). Fotografia: P. De Santis. Musica: A. Trovaioli Interpreti: Sophia Loren e Marcello Mastroianni.
Estratti da un fascicolo di 114 pagine, pubblicato nel giugno 1998, custodito nella biblioteca dell’Istituto Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre; gli studenti sono diciottenni.
Prefazione
“Una giornata particolare”. Per chi? Perché? Come?
Per Hitler e Mussolini che si visitano e pongono le premesse militariste della seconda guerra mondiale?
Per i romani festanti che applaudono i due dittatori e credono di aver vissuto un giorno indimenticabile?
Per Gabriele, giornalista “disfattista, imbelle e con tendenze depravate”, e perciò licenziato e confinato in Sardegna?
Per Antonietta, madre e sposa esemplare, che fa la serva a un marito e a sei figli, sfinita dalla stanchezza alle otto del mattino, intontita dalla radio? Solo alla fine di quella giornata trascorsa con quel diverso, così diverso dal marito, Antonietta dirà: “A una ignorante come me le possono fare qualunque cosa, perché non c’è rispetto. Come una pezza. Trattata come una pezza”.
Il film è questo: la ricerca del rispetto. Non c’è altro. Questo è il film nel quale Scola, forse più che in tutti i suoi altri, ha cercato di togliere invece che di mettere. Pochi avvenimenti, pochi dialoghi, pochi movimenti, pochi ambienti.
Roma, 6 maggio 1938. “In un formicolante caseggiato gli inquilini sono in subbuglio, è un andirivieni da un piano all’altro, uno scalpitare di scarponi sui pavimenti e uno sbattere di usci. La data è eccezionale, non una ricorrenza, non una festa, non un evento traumatico: in questo giorno Hitler arriva in città per ribadire solennemente i legami che uniscono la Germania nazista all’Italia fascista. La popolazione è stata mobilitata e fervono i preparativi di una coreografica messa in scena che deve dimostrare all’illustre ospite la potenza dell’organizzazione fascista e i sentimenti di amicizia nutriti verso il popolo tedesco e il Fuhrer. V’è nervosismo in giro, odore di polvere, minaccia di coinvolgimento in tragiche avventure, ma la gente non se ne accorge. Drappeggiati in buffi paramenti, ragazzi, giovani, uomini e donne di ogni età sciamano a frotte, diretti ai luoghi del raduno. Le case si svuotano e di guardia restano i portinai, gli anziani e le casalinghe che, svegliatesi all’alba, dopo aver servito la colazione a figli e mariti, rassettano le camere sconvolte dal chiassoso esodo.
Scende il silenzio nelle case semideserte e lo spezza il timbro metallico di uno speaker radiofonico che enfaticamente centellina la cronaca della calata di Hitler nella capitale e delle accoglienze tributategli. Antonietta, moglie di un usciere e madre di una prole numerosa, tira un sospiro di sollievo, sorseggia una tazzina di caffè allorché, sbirciando dalla finestra, si avvede di non essere l’unica persona rimasta nel palazzo: le è involontario compagno un tale intento a sistemare volumi e carte. Il coinquilino è un uomo riservato, Antonietta nemmeno lo conosce, si chiama Gabriele e lavora all’Eiar, è un annunciatore che sta passando dei guai con le autorità per colpa di una mezza battuta che ha indispettito qualche zelante gerarchetto. Uno scapolo cortese questo Gabriele, che pratica un mestiere invidiato, ma sospettato di essere un omosessuale e di avere amicizie particolari, una macchia incancellabile per i fascisti i quali predicano il culto della virilità. Un banalissimo incidente (un pappagallino di Antonietta è volato via dalla gabbia e si posa sul cornicione del dirimpettaio) permette ai due solitari di scambiare poche parole. Il ghiaccio è rotto e Antonietta e Gabriele, inseguiti dai suoni e dai rumori della radio, hanno modo di frequentarsi, scrutati a distanza da una maliziosa e invadente portiera che non ha in simpatia quel signore mai visto in divisa.
Antonietta è lusingata dal tatto e dalla gentilezza del vicino; guardandosi allo specchio e avendo la sensazione di non essere più attraente come una volta, si riassetta la veste e la pettinatura; incuriosita da Gabriele, sotto la crosta di un ménage coniugale speso a sacrificare qualsiasi anelito giovanile, sente che riaffiora un impulso di femminilità. Ha trascorso un tratto della sua esistenza attorno ai fornelli della cucina, a disfare letti e a rammendar calzini e così la giovinezza è svanita. Gabriele è per lei un tuffo in un ambiente diverso, l’ipotesi inattuabile di un destino altro dal suo, una possibilità di dialogo –da pari a pari- che in famiglia non c’è mai stata. E la donna spinge più a fondo l’improvvisa intesa con Gabriele, al quale l’accomuna una compressa insoddisfazione, una incolmabile solitudine, una pena che non è solamente esistenziale.
Sarà una rapida parentesi per Gabriele ma anche per Antonietta. Finite le parate, sopitosi il baccano e il rullar di tamburi e il frastuono delle fanfare nelle strade e nelle piazze romane, accaldati e stanchi i manifestanti rientrano all’ovile, reclamano che si scodelli in tavola la cena mentre rammemorano con eccitate espressioni la radiosa giornata. Due poliziotti in borghese bussano alla porta di Gabriele: sono venuti a prenderlo per accompagnarlo a Civitavecchia da dove egli sarà imbarcato per il confino, in una località della Sardegna. Ignara dell’arresto, Antonietta scorge l’amico allontanarsi, trascinando due grosse valigie: di Gabriele conserva un libro regalatole, “I tre moschettieri”, e inizia a sfogliarlo, profittando dei familiari che schiacciano il primo sonno” (M. Argentieri, in “Rinascita”, n. 38, settembre 1977, pp. 35-6).
E così siamo arrivati alla fine di questa nostra bella esperienza. E’ stato faticoso concluderla, come se fosse diventato soltanto un lavoro scolastico obbligato, tra i tanti, come gli altri. Eppure, a leggere tutte queste pagine, è altra l’impressione profonda che si ricava. Si capisce che in questi anni ci siamo nutriti di ragione e passione, di sentimento e comunicazione del sapere, dell’esperienza dell’immediatezza e del valore della meditazione: tante pagine, tutte le interpretazioni (vorrei dire) lo dimostrano. C’è una relazione tra tutto questo, tutto questo nostro sforzo di riflessione e costruzione e una segreta attrazione per la malinconia, sentimento che non si fida della realtà e che sospetta che il mondo sia stato sfigurato o mascherato, che qualcosa di fondamentale e autentico sia stato rubato? E’ stato contraddittorio davvero un aspetto del nostro essere di quest’ultimo anno scolastico, un intreccio, inestricabile e a volte inspiegabile, di impegni anche maniacali e di disinteressi vertiginosi, di passioni interpretative e di lassismi manierati, come se tutti non riuscissimo ad essere coscienti totalmente dei nostri doveri e contemporaneamente a far scattare il nostro senso del limite. Ecco, ho avuto l’impressione lucida di una classe (accomuno il linguistico e lo scientifico) di individui, narcisisti troppo adolescenti, che spesso hanno ignorato l’armonia sociale. Il crescere insieme e il rispettarci reciproco presuppone un apprendimento della responsabilità mentre il narcisismo, con le sue tensioni irrazionali, conduce a un rapporto passivo con la responsabilità, vissuta in modo inerte come un dato imposto. Sono convinto che solo un uso del tempo personale e della propria concentrazione indirizzati all’esperienza dell’ascolto, nel senso più pieno del termine, possa insegnare la libertà e dare un senso al nostro esistere.
Le scritture degli studenti, se lette attentamente, rivelano che un altro tema fondamentale di questo film è stato capito davvero ed è il concetto di “storia piccola”, un racconto di vite comuni, uguali a tante altre, ma nelle quali fosse possibile avvertire il flusso, la spinta e talvolta la violenza della “storia grande”: un concetto pensato proprio nel modo in cui Elsa Morante, nel suo romanzo “La storia”, pensava i propri personaggi: sono poveri, sono piccoli, non contano nulla, però sono raccontati come se fossero re e regine (per la verità, lo avevano scritto prima, e magistralmente, già Manzoni e Verga). Si farà sentire naturalmente anche la macro-storia ma non attraverso gli avvenimenti politici più noti; piuttosto attraverso i sogni, le speranze, le frustrazioni, le sconfitte, i dolori, i problemi e le contraddizioni che tagliano sempre il nostro banale quotidiano e il nostro immaginario. La vita degli uomini e delle donne non è un’opera buffa ma una commedia divina: un’esperienza esercitata con tutta la loro forza e crudeltà e idiozia e solitudine e tenerezza. Sono la pesantezza insostenibile dell’esistenza e la sua infinita leggerezza, un intreccio di insolenza e libertà che riesce a conciliarsi a volte con una profondità senza confini, l’esuberanza della vita unita al dolore del patire e al mistero della morte. Un personaggio –creazione artistica- guarda di solito alla propria vita come se fosse proiettata centinaia di anni in avanti e si chiede se tutto questo non apparirà, a quelli che verranno, sotto una luce diversa. Antonietta e Gabriele, personaggi in una Roma minore del 1938, ci suggeriscono che le loro vicende non si sono appiattite sulla cronaca di quegli anni, hanno guardato invece al loro vissuto quotidiano cogliendone l’elemento mitico, un po’ come il fazzoletto che compare nel finale di “Solaris” di A. Tarkowski, un oggetto da niente che –visto da un pianeta lontano- diventa un elemento di forte intensità emotiva.
Un altro errore che gli studenti hanno evitato è di scambiare il racconto di Scola per un film intimista, in cui gli affetti contrasterebbero il fanatismo collettivo, la violenza della storia, il dominio del sociale sul privato. I loro scritti ripetono tutti che Antonietta e Gabriele non trovano alcun rifugio e neanche una scappatoia nelle ore passate insieme e in un congiungimento durato poco più di un lampo e senza avvenire. Non è così perché la storia è sempre presente nelle loro vicende personali e le segna a fuoco (anche con la trovata ingegnosa del commento ossessivo e stentoreo della radio in un mixage di musiche marziali e di ovazioni della folla alla parata militare). Il fascismo nella più strisciante quotidianità permea non solo un clima generale quanto la stessa condizione dei personaggi: esseri umani defraudati e avviliti; una donna che non ha mai contato nulla e non ha una propria vera personalità e individualità; un uomo costretto a nascondere le sue inclinazioni in una società che lo espelle a causa delle sue abitudini sessuali e di un larvale dissenso nei confronti del regime. Ed è proprio delimitando e recintando quantitativamente lo spazio ricognitivo, scavando nell’ordine meno appariscente e più riposto degli affanni giornalieri, nelle increspature dei rapporti interpersonali, che il film raggiunge l’essenza di una realtà non circoscritta all’epoca storica rappresentata. Perché questa è la virtù più ammirevole in “Una giornata particolare”: riportarci a una stagione lontana, della quale si fotografano con sagacia psicologica le angustie, ma –nello stesso tempo- percepire gli elementi di continuità che sorpassano l’aneddoto e si protraggono nel presente, arrivano fino a noi oggi, nella sopravvivenza dell’intolleranza, del conformismo, di antiche storture, esclusioni e soggezioni.
Anche sul piano formale del linguaggio del cinema le osservazioni dei ragazzi sono acute e pertinenti, in alcuni casi eccezionalmente meticolose. Il film, realizzato nel rispetto classicistico delle unità di luogo –di tempo –di azione, ha un’infrangibile compattezza, una tessitura costante, una penetrazione introspettiva che incalza, ed emana un calore frammisto a umori agri, serpeggianti nella descrizione dei dialoghi, nel dosaggio degli effetti comici e delle situazioni drammatiche, negli smorti colori di una fotografia tendente alle dominanti impastate del bianco e del nero. E quella musica finale, quell’intreccio stupendo dell’inno nazista delle SS con il ritmo della rumba, quell’armonia dolce e triste, quasi abbandonata nella trascrizione al pianoforte, spiegano come mai si potrebbe a parole che la grande storia e la piccola vita quotidiana si sono fuse in una malinconia di morte.
prof. Gennaro Cucciniello
23 giugno 1998
La casalinga, l’intellettuale
Il film è ambientato nella Roma fascista che nel 1938 è scenario dell’incontro tra Hitler e Mussolini. L’incontro è testimoniato dai giornali Luce. Roma si prepara a ricevere il Fuhrer con grandi cerimonie e un’imponente adunata collettiva per mostrare al capo nazista la compattezza e la forza imperiale italiana. Tutti i palazzi e le case si svuotano, rigettando una marea di gente; si svuotano anche tutti gli appartamenti di un gigantesco palazzo popolare, al cui interno due individui, Antonietta e Gabriele, svolgono un’esistenza diversa eppure in un certo senso simile: entrambi sono infatti marginalizzati e rifiutati.
Gabriele ed Antonietta sono destinati a incontrarsi in una giornata uguale a tante altre ma che in seguito si rivelerà eccezionale, fuori della norma. Antonietta è una donna sulla quarantina, sposata a un uomo che la maltratta e tradisce, e madre di sei figli che non la considerano. E’ una donna sottomessa, non abituata a comunicare ma molto sensibile e vulnerabile. E’ relegata al suo ruolo di riproduttrice, a dare alla luce altri figli, figli della Lupa. Non crede nel regime fascista vero e proprio ma nella figura carismatica del duce, l’unico con il quale alle donne era permesso di fantasticare su immaginari incontri amorosi. Era stata tanto colpita da questo simbolo della virilità che aveva cucito un arazzo di bottoni raffigurante il volto volitivo del duce, e teneva un albo di foro del condottiero. Ella inoltre sostiene di averlo incontrato e che il suo sguardo maschio l’abbia fatta svenire. S’incanta come una bambina di fronte ai fumetti di Dick Fulmine tra i pigmei della giungla, dimenticati sul pavimento della cucina dai suoi figli. Gabriele sarà l’uomo dei suoi sogni perché, come lei, è costretto a fuggire in un’altra realtà, e perché pazientemente l’ascolta e la comprende, ritenendola sua pari.
Se Antonietta è emarginata dalla società e dal regime perché donna e quindi schiava del focolare, Gabriele è ripudiato dalla società fascista perché è un omosessuale di 40-50 anni, licenziato dalla radio nella quale lavorava come speaker per le sue tendenze trasgressive. Gabriele è colto, gentile, raffinato, pacato e riservato per quanto riguarda le proprie scelte erotiche e sentimentali, mentre Emanuele Tiberi, il marito di Antonietta, è un individuo rozzo, maleducato, tirannico, fascista fanatico, prepotente con sua moglie, debole coi figli, ed esuberantemente eterosessuale (frequenta case di tolleranza, porta a casa e somministra al figlio maschio più grande giornalini osé). Gabriele, invece, è acuto e pungente nei confronti dell’ideologia fascista, è un intellettuale dissidente sul piano dei valori civili. Non si sa molto della sua vita segreta ma si riesce ad intuire che il suo futuro è tragico.
Questa storia d’amore diversa non scema nel nulla ma è fruttuosa per entrambi: Antonietta dà a Gabriele l’affetto e la dedizione di una madre (sebbene a tratti un po’ incestuosa) e l’uomo dà alla donna una chiave per poter leggere nella sua vita, per liberarsi dalla frustrazione di un marito ingombrante. La sua femminilità è castrata, censurata, ma il suo aspetto trasandato nasconde in realtà uno spirito passionale. I due personaggi, abituati ad essere passivi in un mondo che sembra avere poco spazio per loro, diventano attivi in un rapporto in cui si regalano un amore vicendevole e dolce, in una situazione paritaria.
E’ l’alba: il palazzo si sveglia e si svuota.
Una madre, impegnata in più lavori contemporanei, scivola da un angolo all’altro della casa per stirare una camicia nera, seguire gli sviluppi del caffè e portarne a suo marito a letto una tazzina: questa Sofia Loren sciatta e trascurata, ma pur sempre bella, continua a sbattere la fronte contro un lume che pende dal centro del soffitto; ha il volto stanco e segnato, con occhiaie e capelli in disordine. Vive con al sua famiglia in un modesto appartamento di poche stanze; i suoi numerosi figli dormono sparpagliati: dietro un paravento sta Umberto, nella saletta da pranzo Romana, in uno stanzino Fabio e Arnaldo e nella camera da letto –con i genitori- Maria Luisa e Littorio. Emanuele è un omone rozzo che, svegliato dalla moglie, comincia subito a imprecarle contro; quando infine scopre che sono le sei della mattina si alza, spazientito per non essere stato svegliato prima. E usa un linguaggio volgare e maschilista. Quando i ragazzi sono tutti alzati, Antonietta deve organizzare la colazione e il turno del bagno: sorgono problemi perché Arnaldo si sta fumando una sigaretta nel gabinetto che, nello stesso momento, deve essere usato anche dal padre e dagli altri fratelli. La figlia più grande si sta mettendo il rossetto allo specchio e la madre, notando la lungaggine eccessiva dell’operazione, le chiese se per caso si stia recando ad una festa da ballo, e la figlia risponde con sgarbo, “Ma che vòi!”. Fabio e Maria Luisa sono impegnati in una lotta per impossessarsi del cesso ma la situazione si risolve con l’arrivo di Umberto, il maggiore. Nel frattempo Antonietta si trova in cucina e segue l’andamento della colazione, il vestiario della prole e la lucidatura degli stivali del marito. Uno dei figli non vorrebbe andare alla parata perché si vergogna della sua grassezza. La madre trova nel letto di Umberto un giornaletto porno francese e questo scatena un diverbio: lei sostiene che fare certe cose (il mastrurbarsi) può causare la cecità e dice al ragazzo di domandare al vice-parroco la veridicità di questa tesi ma Umberto chiede: “Quale vice-parroco? Quello mezzo cieco?” e Antonietta, non avvedendosi del sarcasmo, risponde ingenuamente di sì. In seguito aiuta Fabio ad avvolgersi una fascia nera alla vita ma il ragazzo vi rimane imprigionato con un braccio e bisogna districarlo; infine compare sulla scena Arnaldo che esibisce il suo fez al quale è stato staccato il pompon; da una camera esce il padre esordendo: “Non si dice pompon; è parola straniera”, e Antonietta di rincalzo: “Tu cerca di italianizzare anche i giornaletti che porti a casa!”.
Sistemato il problema del fez, la famigliola si siede a tavola e fa piazza pulita delle vivande, lasciando la povera madre con un mare di cose da sparecchiare e lavare. Ora che c’è da aiutare la donna-schiava, il marito e i figli appaiono tutti impazienti di prender parte al raduno, nel Circo Massimo per i maschi, sotto l’obelisco di Axum per le due ragazze. I sette, in divisa, pronti ad uscire, ricevono sulla porta d’ingresso le raccomandazioni premurose della mamma, mentre il marito si ferma sul pianerottolo per raccomandare alla moglie di stirargli il vestito blu: è atteso da amici l’indomani per festeggiare la promozione di un collega di lavoro. E’ la menzogna che nasconde l’ennesimo tradimento. Sul viso di Antonietta si disegna, appena percettibile, una smorfia.
Francesca H.
La casalinga Antonietta e il radiocronista Gabriele, soli, in casa.
A casa di Antonietta. Sola nel caos. Il palazzo è ormai vuoto, è andato via anche l’ultimo solito distratto ritardatario. Il brusio dell’alveare ha lasciato posto al silenzio. Una panoramica del cortile rimasto deserto sottolinea la scena; la macchina da presa assume il punto di vista di Antonietta che, dopo aver salutato la famiglia, rimane incantata a guardare, più o meno consapevolmente, il vuoto fino a perdersi nelle finestre dei piani alti. La donna, ora sola nel suo appartamento, si accinge a riordinare e, mentre osserva il gran da fare che avrà, pensa al famoso detto, “Di mamma ce n’è una sola”, ma lei di mamme ne vorrebbe almeno tre: una riordinerebbe le stanze, un’altra la cucina e la terza, cioè lei, andrebbe a letto a dormire; “una rifà le stanze, l’altra spiccia la cucina e la terza, che sarei io, si rificca a letto a dormì”. Svogliatamente prende una bottiglia e un cucchiaio da una credenza della sala per portarli in cucina, inciampa in una fisarmonica, la raccoglie da terra e la posa sul tavolo. Si dirige verso la cucina ed inizia a canticchiare mentre Rosmunda, il pappagallino di casa, fischia in sottofondo, in cucina ripone la bottiglia e il cucchiaio su un altro scaffale e si siede a tavola.
Triste colazione e faticosa lettura. Seduta a tavola, osserva triste il disordine, poi versa in una tazza i residui di caffè di altre due, beve, la riappoggia, si asciuga la bocca con la mano ed inizia a riordinare il tavolo da tazze, tazzine e pezzi di pane, “Cominciamo da qua”. Mette tutto ordinatamente da un lato, quasi con meticolosità, e con uno straccio pulisce la parte di tavolo sgomberato. Si accorge poi di un giornalino a fumetti caduto per terra, si china per raccogliere tutto e nota con dispiacere che le sue povere calze sono smagliate. (Il particolare, notato dal regista, sottolinea una sua vanità femminile che non è del tutto estinta e che attende solo di essere risvegliata). Raccoglie le cose da terra e si mette ad osservare il giornalino e a leggerlo, pur sbagliando il titolo ed assopendosi dopo tre vignette. L’immagine si fissa su un riquadro del fumetto, poi volutamente viene sfocata per dare l’idea di occhi che si socchiudono.
La fuga di Rosmunda. Nel frattempo Rosmunda la chiama più volte, ”Antonela”; il verso stridulo la sveglia, lei si alza, prende la gabbia, la posa su uno sgabello sotto la finestra della cucina e ribadisce il suo nome esatto che il pappagallo sbaglia sempre: “Mi chiamo Antonietta; o mi chiami giusta o non mi chiami proprio! L’osso de seppia te tieni questo, se ne parla venerdì prossimo. Guarda che stamattina nun c’è tempo da perdere appresso a te; adesso te do la canapuccia e poi stai apposto”. Prende la ciotolina del cibo e l’osso di seppia da dentro la gabbietta, li sciacqua e riempie la ciotola di canapa, tutto mentre parla con l’animale. Si gira per rimettere tutto a posto e si accorge che Rosmunda è uscita dalla gabbia lasciata aperta, è sul davanzale della finestra; lei si avvicina e l’animale velocemente scappa, svolazza e si posa sui finestroni delle scale di fronte, dalla parte opposta del palazzo, vicino alla casa di un uomo, anch’esso rimasto solo. “Rosmunda, dove vai, Rosmunda, torna qua! T’ho detto, torna qua! Guarda che non fai ridere nessuno, sa! Mannaggia, Rosmunda! Ecco, guarda, stai lì, non ti muovere!”. Antonietta lo vede dalla finestra e cerca di chiamarlo, ma lui non la sente. Il palazzo sembra una serie di celle di un gigantesco alveare di cemento grigio.
A casa di Gabriele. Pensieri di morte. La macchina da presa s’intrufola in casa. Gabriele, seduto ad una scrivania dando le spalle alla finestra, scrive e timbra delle buste, poi le depone con accuratezza alla sua sinistra. Accanto a lui, sulla scrivania, una pistola. L’uomo smette di scrivere e la guarda, inizia a riflettere, osserva nostalgicamente delle foto e si immerge nei suoi pensieri. All’improvviso con uno scatto di rabbia spinge furiosamente tutto a terra e poi si immerge nuovamente nei suoi ricordi e pensieri di morte sospirando, il tutto scandito dal ticchettio dell’orologio da tavolo posto sulla scrivania. Nel silenzio solitario del palazzo Antonietta e Gabriele lavorano soli, isolati dal resto del mondo come soli sono nella vita sociale.
Interruzione inaspettata. Il suono del campanello della porta lo ridesta, subito raccoglie le carte da terra, nasconde nel bagno le buste che ha sparso sul pavimento spingendole a calci, mette la pistola nel cassetto e va ad aprire la porta ma, prima di riuscirci, ecco un secondo squillo. Gabriele apre e vede Antonietta che dice: “Scusate tanto, mi è scappata Rosmunda”.
Nostre riflessioni. Uno dei temi dominanti della sequenza è quello della “stanchezza” sviluppato in due differenti sensi. Per Antonietta è stanchezza fisica: è assonnata, vorrebbe dormire e non riordinare le stesse cose di ogni giorno e rifare sempre le stesse cose di ogni giorno. Anche la sua mente è stanca, non è abituata a pensare, a leggere, a evadere. Questa stanchezza generale la rende un personaggio passivo e sottomesso ed ecco il secondo tema: “la sottomissione”. Per Gabriele invece si può parlare di stanchezza di vivere: medita seriamente il suicidio. I personaggi però sono uniti dalla sottomissione: una sottomessa dal marito e dai figli, l’altro dalla società e dal regime. Un terzo tema dominante è “la solitudine”. I due sono soli nelle loro case, come nella vita, e sentono pesare questa situazione. Antonietta pensa che di mamme ce ne vorrebbero tre per avere un aiuto in casa ma soprattutto per avere la vicinanza di qualcuno, poi si lascia riprendere da quell’invincibile spossatezza. Gabriele, invece, guarda con nostalgia delle foto: una ritrae forse il suo amore dal quale è stato diviso e l’altra forse la madre, poi erompe in uno scatto di rabbia improvviso scaraventando tutto a terra e riperdendosi poi nei suoi pensieri.
Questi temi centrali sono confermati da alcune azioni dei personaggi, dalle riprese e soprattutto dalla simmetria tra le due scene. La panoramica iniziale sul cortile deserto del casermone introduce al tema della totale solitudine. Da qui la sequenza è divisibile in due parti che potrebbero essere seguite in parallelo ma che vengono rese in successione dal regista forse anche per sottolineare la profonda diversità tra i due personaggi, diversità di vita, di classe sociale, di situazione familiare, di pensieri, ma che saranno però fortemente legati in seguito dai sentimenti e dalle emozioni. Si può innanzitutto notare che entrambi sono presentati attraverso una finestra, come per sottolineare che si entra a sbirciare nella vita di persone insignificanti, nella microstoria in un giorno così importante per la storia italiana, europea e mondiale. Il tema della stanchezza è poi introdotto dalle volontà dei protagonisti: lei vuole dormire e lui vuole morire. La realtà è però ben diversa: purtroppo Antonietta deve riordinare, lavorare anche se è pervasa da un senso di assopimento infinito, lui al contrario sparge tutto a terra e fa disordine in un momento di rabbia e di ribellione. La donna, dopo aver iniziato a riordinare il tavolo, si accinge a leggere il giornalino e quasi s’addormenta, invasa da quella stanchezza fortissima; l’uomo invece scrive, scrive su delle buste e le timbra, esplodendo poi in quel gesto di rabbia e si riabbandona in pensieri e sospiri. A. è richiamata alla realtà dal pappagallo, G. invece dalla donna che vuole riacchiappare Rosmunda scappata dalla gabbia, quasi fosse un presagio di quella fuga che compiranno in quella stessa giornata i nostri personaggi. A. cerca Gabriele e lui nasconde il vero se stesso coprendo le tracce dei suoi tormentati pensieri di morte, nascondendo la pistola e le lettere sparse a terra, come poi farà anche in una scena successiva nascondendo sotto il tappeto i chicchi di caffè.
Silvia S. e Silvia V.
Il volo inopinato di Rosmunda li fa incontrare: prima chiacchierata nell’appartamento di Gabriele.
Un evento casuale: inizia un giorno veramente particolare. La sequenza si apre con l’immagine di Gabriele, solo, alla scrivania del suo studio: appare molto turbato (infatti, poco prima stava pensando al suicidio). E’ tormentato dai suoi pensieri: nella stanza c’è un silenzio che accresce la tensione del momento. Improvvisamente un suono acuto del campanello; l’uomo inizialmente rimane interdetto, poi però con grande velocità raccoglie tutti i suoi fogli (che precedentemente aveva gettato con violenza a terra) e con azioni rapide e brevi li calcia tutti dentro un’altra stanza e chiude quindi la porta per nasconderli. La scena è caratterizzata dal rumore delle carte e dal suono del campanello (viene fatto suonare tre volte). Gabriele va ad aprire e con sua grande sorpresa si trova di fronte ad una donna che appare molto affannata e che comunque si scusa subito: “Scusate tanto, mi è scappata Rosmunda”. Il volto è in primissimo piano, ancora adombrato però dalla porta; non appena l’uomo apre il chiavistello il piano diviene più ampio: ora Gabriele è di spalle e Antonietta di fronte a lui. L’uomo sembra molto serio, non parla, potrebbe apparire quasi freddo, indifferente. La donna cerca subito di spiegare il motivo della sua improvvisa “irruzione”, tenta di mostrarsi calma ed educata (“se permettete”), parla lentamente. Gabriele comunque è forse ancora scosso e non riesce probabilmente a capacitarsi del fatto che una cosa così banale e casuale, ovvero il volo del pappagallino di una vicina, l’abbia salvato dal suicidio e in qualche modo l’abbia distaccato e allontanato dagli oscuri pensieri degli istanti precedenti. La donna, ansiosa di poter riprendere la sua Rosmunda, si reca alla finestra, seguita da Gabriele: i loro movimenti sono calmi e controllati, non vi è alcun sottofondo musicale, il silenzio accresce il momentaneo imbarazzo. I due ora sono alla finestra. Antonietta tenta invano di riprendere il pappagallo e cerca di rompere il silenzio con alcune battute che mostrano, da un lato, il suo affetto verso l’animaletto (“eccolo là! vieni, bello!”), dall’altro, la volontà di rendere partecipe anche il suo vicino (“eccolo là! è da ieri che non mangia”). Anche il piccolo uccello, come il marito e i figli, sembra non rispettare la povera casalinga (l’animale dice: “lasciami stare!”), abituata ormai ad essere al servizio di tutti. Gabriele non risponde mai a queste battute iniziali della donna, non parla ma riesce a riprendere Rosmunda servendosi d’una scopa. La luce entra dalla grande finestra e la macchina da presa effettua una veloce inquadratura del salotto; poi la ripresa è dall’esterno del palazzo, dal basso verso l’alto, e mostra chiaramente il contrasto tra i nostri due personaggi e l’enorme caseggiato caratterizzato da una forma imponente, rigidamente regolare e con grandi ed alti finestroni.
La scena ora ritorna all’interno dell’abitazione, nel salotto. Il regista cura una ripresa simmetrica: a sinistra vi è Gabriele con la scopa in mano e a destra Antonietta con Rosmunda tra le braccia, fa da sfondo la finestra. Poi ci si avvicina ai volti dei due e sono effettuati dei primi piani alternati (i visi risultano molto più luminosi). Il gioco di alternanza vuole creare probabilmente un parallelismo tra i due “eroi”, si vuole dimostrare come siano tra loro simili ed accomunati nel destino (nonostante siano ancora pressoché sconosciuti). Gabriele però appare ancora sorpreso, in effetti rimane silenzioso. Antonietta, al contrario, parla della sua Rosmunda e accenna alla parata (che è in corso per le vie della capitale): “meno male che voi non ci siete andato”. Questa battuta ha per me una duplice interpretazione: la prima è: “meno male che voi non ci siete andato…altrimenti come avrei preso Rosmunda?”, la seconda è da ritrovarsi appunto nel fatto che altrimenti non avrebbero potuto incontrarsi. Antonietta fa un altro tentativo di dialogo ed inizia a raccontare della sua famiglia: “Sapete quanti figli tengo?”; l’uomo però risponde: “No, nessun disturbo” (riferendosi ad una scusa precedente della donna): c’è disinteresse ma è solo apparente, in realtà egli è sempre sorpreso e non riesce ancora a rendersi bene conto della situazione. Antonietta comunque, nonostante Gabriele non abbia risposto a tono alla sua domanda, non si scoraggia e continua il discorso: ha già sei figli e con il settimo otterrà il premio per la famiglia numerosa; è rilassata, sorridente (è orgogliosa evidentemente del premio promesso, ammira il duce con grande trasporto, sembra felice d’essere madre così prolifica). Gabriele è ancora imbarazzato e sorpreso ma la situazione è improvvisamente rotta da una sua risata forte e totalmente inaspettata che crea un veloce cambiamento. Antonietta si sente subito colpita, crede che il vicino stia ridendo di lei e quindi gli chiede, senza mezzi termini e senza preoccuparsi di mantenere un certo registro formale: “e mmò perché ridete?”. Gabriele vela delicatamente le sue spiegazioni: “la vita è fatta di tanti momenti diversi, e ce ne sono alcuni in cui si deve ridere perché è un fenomeno naturale e vitale” (il suo animo è sofferente ma ora l’allegria data dalla semplice fatalità dell’incontro sembra aver in parte cancellato l’angoscia della sequenza precedente). Antonietta però non è ancora convinta: “State ridendo di me?”. “No!”, è la risposta secca. La macchina da presa continua ad effettuare dei primi piani sui due che ora sono più vicini: parallelismo tra un primo piano dell’una -spalle dell’altro e primo piano dell’altro- spalle dell’una; l’ambiente e l’atmosfera rimangono invariati, non vi è sottofondo musicale.
Gabriele inaspettatamente trattiene Antonietta, la invita a restare: mostra così il suo sincero desiderio di avere una compagnia, un piccolo grande aiuto al quale potersi aggrappare per sfuggire alla tristezza e per non sentirsi escluso. I due ora si spostano a sinistra, dove sono presenti molti libri, in disordine (sul pavimento, sulla scrivania, sulla libreria). Antonietta, vedendo un particolare volume e colpita dalla vista di tanti libri, esclama entusiasta: “I quattro moschettieri! quelli del concorso alla radio!” (la donna quindi conosce il romanzo attraverso la radio, un mezzo che sta diventando comune e popolare). Ancora una volta l’uomo dimostra la sua sensibilità e delicatezza: “beh, questi sono tre”, non facendo pesare l’errore. Non la umilia mai. Ogni piccola cosa è quindi il pretesto per instaurare un dialogo e per gettare le basi della conoscenza; entrambi cercano di evadere dalla dura realtà quotidiana. Gabriele vorrebbe donarle il romanzo ma lei rifiuta, non avrebbe il tempo materiale per leggerlo, quindi, con una frase di circostanza dice: “magari un’altra volta”. Gabriele sa che non potrà vedere mai più la sua vicina visto che presto, la sera stessa, partirà per il confino in Sardegna. Ma Antonietta non può ancora comprendere tutto (come del resto noi spettatori), è all’oscuro della situazione e tenta di far ritornare l’allegria (“quando Rosmunda tornerà a scappare”). Le loro risate leggere sono interrotte però dallo squillo del telefono. La donna è in salotto, ripresa molto da vicino, mentre l’uomo, di spalle, è in lontananza e si vede attraverso una vetrata (la sua voce soffusa si sente comunque nella stanza). La ripresa poi cambia perché Gabriele è inquadrato da vicino (di spalle) e più sullo sfondo si vede Antonietta che, intanto, tenendo sempre il pappagallino stretto al seno, si guarda intorno, si sofferma su un quadro incomprensibile, segue le strane impronte segnate sul pavimento: gli unici suoni che si sentono sono la voce calda e pacata al telefono e il fischiare di Rosmunda. Dalle parole e soprattutto dal tono di voce del nostro annunciatore si intuisce che egli si sta preparando alla partenza (sono presenti quindi già delle anticipazioni che introducono il tema malinconico dell’addio).
Terminata la telefonata, Gabriele sente forse il bisogno di sfogarsi, la sua rassegnazione sembra tramutarsi in rabbiosa energia e si concentra sulle impronte che poco prima Antonietta cercava di seguire, curiosa ma anche intimorita. L’uomo vuole farla ballare e le spiega che questi strani passi sono quelli della rumba. In dettaglio l’inquadratura si sofferma sulle calze di lei, strappate, con buchi. I due ora ballano insieme (Antonietta è però incerta, forse a causa dell’imbarazzo e di una così strana novità, quale questa rumba, inciampa e perde la ciabatta), seguendo il ritmo della musica (la canzone di un disco) che, così allegra, rispecchia l’allegria di Gabriele, almeno in questo momento. La piccola parentesi danzante è un idillio, un brevissimo istante di sogno e di felicità per entrambi. La vivacità del “sogno” è bruscamente interrotta dalla marcia fascista, dalla musica della sfilata proveniente dall’esterno: il nuovo rumoroso sottofondo musicale si sovrappone al motivo allegro della rumba e riporta i due alla realtà (la marcia militare è il simbolo del macrocosmo in opposizione al microcosmo quotidiano). La rottura è molto forte sia, come già detto, dal punto di vista sonoro, sia dal punto di vista visivo. Infatti ora la ripresa si sposta all’esterno, viene inquadrata l’entrata della casa della portiera: pianta –finestra –sedia –porta –finestra –pianta, la vecchia esce. Si ritorna su Gabriele, o meglio sul primissimo piano della sua mano che spegne il giradischi. “Questo è meno ballabile”; egli non usa mai un linguaggio diretto di accusa verso la società e il regime che lo condannano. I due ritornano alla porta. I loro volti comunque sono ora più illuminati e sorridenti. Solo a questo punto si presentano, solo alla fine della sequenza.
Antonietta esce e nel silenzio risuona chiara la voce di Gabriele: “è un bel nome!”. La donna è ripresa di profilo, in primo piano, col capo chino: è la prima volta probabilmente che qualcuno le fa un complimento sincero, è la prima volta che non è più trattata come una serva o come una macchina ma come una persona, con la sua dignità e i suoi sentimenti. E’ sorpresa e felice, prova la sensazione piacevole di sentirsi finalmente apprezzata. Scende lentamente le scale, torna verso il suo appartamento. Gabriele rientra in casa e chiude l’uscio dietro di sé.
Elisa C.
…E i due si rimisero al lavoro
Si è concluso con una dissolvenza quasi malinconica il primo e inaspettato incontro tra Gabriele e Antonietta. E’ calato il silenzio mentre sono cresciuti l’enfasi e il trionfo della musica marziale. Gabriele ha chiuso la porta. Il suo primo piano rivela l’affievolirsi repentino della tenue euforia di prima; al sorriso appena accennato subentra un visibile sospiro, un incupirsi e un corrucciarsi dell’uomo che, a passi lenti, raggiunge la finestra. Lo sguardo disorientato indugia sul telefono, si sofferma a ripensare a quella conversazione bruscamente interrottasi. Il frastuono della radio irrompe fragoroso nella stanza. “Giovinezza, giovinezza”: chiusa la finestra, Gabriele ne fischietta la melodia, ne scandisce il ritmo con le dita, ne vivacizza la monumentale retoricità.
Affaccendata nel riordinare la casa, Antonietta lavora in religioso silenzio seguita dalla “camera” che ne insegue i percorsi, ne cattura i movimenti stanchi. Ricarica la sveglia, rifà i letti, appende le camicie all’attaccapanni. Getta lo sguardo sull’appartamento di fronte, cercando ancora quell’uomo che, anche se per un brevissimo intervallo, l’ha lusingata. I suoi occhi lo cercano ancora, i suoi pensieri corrono a lui benché ella si immerga nelle faccende di casa: un campo medio la ritrae nello svolgere le sue mansioni lasciando intravedere la finestra di Gabriele alla quale ella rivolge lo sguardo per ben tre volte. “L’ha subito richiamata”, esclama con una nota di rammarico, “che me ne importa poi a me?”, conclude. “Antonietta!”. “Eh, brava! Mi hai fatto perdere tutta la mattinata”, risponde al richiamo di Rosmunda; una nota di disappunto le vena la voce: è irritata da quella telefonata urgente di Gabriele.
Una sigaretta, un frenetico accatastare, un orecchio teso all’assertiva voce della radio, un ambiguo assenso (o dissenso?): questo è Gabriele. Ora sta telefonando, la conversazione appare più come un monologo, una sorta di resoconto finale di un’epoca, la sua vita a Roma. “Eppure ci dovrei essere abituato, fin da ragazzo isolato o solo che poi è la stessa cosa (…) Ma certo che conti, solo che è tutto così assurdo; secondo loro dovremmo sentirci in colpa. Oggi stavo, eh…come si dice…stavo per commettere una sciocchezza; già, mi ha salvato l’arrivo di una che abita qui di fronte…No, stai sicuro, la vita, qualunque sia, vale la pena di essere vissuta, non si dice così? E poi arriva sempre un pappagalletto a ricordartelo: solo che oggi per me è una giornata particolare, lo sai. E’ come in un sogno, quando vuoi gridare e non ci riesci perché, perché ti manca il respiro. E poi la voglia di parlare, parlare, parlare; te ne accorgi, vero? Oppure, che ti devo dire? Scendere nella strada, fermare il primo sconosciuto e raccontargli tutti i fatti miei ma fino a spaventarlo, a scandalizzarlo, a menargli anche, guarda, sì, fargli del male, qualunque cosa piuttosto che restare solo in questa casa che odio…Non dici niente? Pronto?! Marco, e parla c…, ma dì qualcosa…ma quello che vuoi, non lo so: parla del tempo, di sport, di un libro che stai leggendo…Scusami; sì, lo so quello che senti anche tu…No, no, lo sai che non possiamo vederci e poi forse sarebbe anche peggio. Senti, quando si è scoraggiati bisogna trovare la forza di reagire subito, se no…non c’è niente da fare, sei fregato, capisci? Senti, perché non ci ridiamo sopra? Piangere si può farlo anche da soli ma per ridere bisogna essere in due. Ti ricordi quella volta a Ostia con quello lì del cocomero? Ma ridi, Marco, ti prego, ridi!! Ah, che amico triste mi sono scelto; sai che cosa è che mi peserà di più? La tua mancanza. Curati, fammi sapere della tua salute…Sì, appena succede ti richiamo…Ciao, pensami quando puoi”.
Si conclude così questo frammento del film: un’Antonietta ancora immersa nelle sue mansioni casalinghe, il campanello suona e dallo spioncino s’intravede il volto di Gabriele.
Silvia I.
Gabriele va nella casa di lei con un libro. I due cominciano a conoscersi e a scontrarsi.
Mentre Antonietta, assorta nei suoi pensieri, è indaffarata a riordinare la casa, suona il campanello. Va lentamente alla porta e vede dallo spioncino che dall’altra parte c’è lui: è sorpresa ma nello stesso tempo se l’aspettava, o forse lo sperava; improvvisamente la cosa più importante diventa il suo aspetto e quello della casa. Cerca di nascondere il disordine, si toglie il grembiule e apre. “Ah! Siete voi!”. Ella finge d’essere sorpresa della sua presenza e lui non si sente il benvenuto, “ Non sembra tanto contenta di vedermi”. “No, è cheee…quando bussano alla porta mi viene sempre un po’ di paura”. Che Antonietta sia attratta da Gabriele appare a questo punto scontato: egli è l’esatto contrario di suo marito, un uomo dolce, che le porta rispetto e che non ha, nei suoi confronti, un atteggiamento autoritario. Il pretesto dell’uomo è quello di prestarle il libro de “I tre moschettieri”: le dice che l’ha dimenticato. Lei risponde che non l’aveva accettato semplicemente perché non voleva essere troppo invadente. “Non l’ho dimenticato. Non volevo approfittare…e poi perché? No, no, grazie!”. “Se lo prenda, è lei che fa un piacere a me!”. Si sente il rombo degli aerei che passano e Antonietta, eccitata, corre alla finestra per guardarli. Insolitamente gli aeroplani non vengono inquadrati (la “camera” riprende la donna affacciata) ma di essi si osservano solamente le ombre sul muro del caseggiato e si sente il rumore frastornante. E’ un piccolo stacco, necessario a spezzare la tensione che c’è tra i due in quel momento di imbarazzo e di mancanza di parole. E’ un attimo, poi la donna torna a parlare del libro dicendo che ci metterà un po’ a leggerlo date le sue innumerevoli faccende di casa, “con tutto quello che ho da fa qua!”. Nel dirlo, c’è sempre il sorriso sul suo viso: è rassegnata. Accetta la sua condizione perché è sempre stata abituata a questa sottomissione, al punto da ritenerla giusta, una cosa normale, una legge, un obbligo.
Gabriele sta per andarsene quando…il suo desiderio di compagnia lo induce a tornare indietro e, a costo di apparire invadente, le chiede di offrirgli un caffè. Sulle prime lei non sa che dire, cosa rispondere: vuole accettare ma sa che quello che sta facendo è “sbagliato”, ma in quel momento la debolezza creata dal desiderio di stare con lui prende il sopravvento sulla razionalità, sulla sottomissione alle regole e alla fine lo fa entrare. “Accomodatevi. Però non guardate il disordine”. Un gran sorriso le si disegna sul volto. E’ felice, sì, confusa e felice, sbadata, impacciata (ma non eccessivamente) e fa di tutto per mettere a suo agio l’ospite. Lo fa accomodare nel salotto: la cucina è un posto che non si addice agli uomini. Egli risponde d’esserci abituato: è scapolo. Antonietta cambia espressione: è sorpresa, non se l’aspettava ma l’idea non le dispiace. “Allora pagate la tassa sul celibato?”. “Sì, come se la solitudine fosse una ricchezza”, dice lui afferrando la fisarmonica sul tavolo e accennando con lo strumento poche note. Poi si offre di aiutarla a macinare il caffè; le racconta che quando era piccolo suo nonno gli faceva macinare il caffè come premio (a lui e agli altri nipoti): tre giri a testa. Antonietta sembra non ascoltarlo e si perde nella sua immagine riflessa nello specchio. Si accorge che il suo viso è quello di una donna trascurata, di una donna che non ha mai avuto motivo di farsi bella per nessuno, neanche per suo marito, che quasi non la considera. Ed ora è giunto il momento di dare un po’ di colore alle guance e va in bagno, col pretesto di andare a prendere la macchinetta del caffè. In realtà anche le labbra le appaiono pallide ma mettersi il rossetto le sembra forse un po’ troppo “spudorato”. Si sistema i capelli. Si mette un paio di scarpe eleganti. Nel frattempo è inquadrato Gabriele che continua a macinare il caffè, improvvisamente uno scoppio improvviso trasmesso dalla radio lo distrae e lo fa sobbalzare e i chicchi di caffè gli cadono a terra. Cerca di nasconderli sotto il tappeto e continua a macinare facendo finta di niente. La donna torna da lui e tutti e due fanno finta di essere disinvolti. Lei gli chiede qual è il suo lavoro, “Voi siete impiegato?”, lasciando scivolare un ricciolo sulla fronte per mettere in evidenza un’acconciatura migliore, forse un po’ più provocante e maliziosa. Lui risponde di essere un annunciatore alla radio; Antonietta reagisce con ammirazione, cercando di non renderla troppo evidente. Gabriele le spiega che però al momento ci sono delle questioni da risolvere e che quindi è in aspettativa, poi fa un commento sul ricciolo che le accarezza la fronte. La donna parla ora del lavoro di suo marito; “lui” –dice con un certo sussiego- “lavora al ministero dell’Africa orientale, è un capo-ufficio del servizio uscieri”.
Suona il campanello. E’ la portiera, vuole le chiavi della terrazza per ritirare i panni. Gabriele si nasconde dietro la porta. La portinaia ha capito che la donna non è sola e la mette in guardia dicendole che è meglio stare sole che essere male accompagnate, “come se dice a Roma”: evidentemente ha una sorta di accanita repulsione verso quell’uomo diverso, quell’uomo “che sta de là, che sarebbe meglio perderlo che trovarlo. Io non so chi è ma è un cattivo soggetto. In altre parole, io non piaccio a lui e lui non piace a me”. Antonietta tenta di giustificarsi raccontandole la storia di Rosmunda ma alla portiera non interessa; le interessa soltanto informarla che quell’uomo è “solo un bisbetico, un lunatico, insomma, un soggetto da non frequentare”. Naturalmente ora la nostra eroina si trova in uno stato di confusione, di sensi di colpa, di ripensamenti, è esitante ma alla fine decide di mandarlo via. Gabriele, però, è così gentile che non se la sente di apparire maleducata e scorbutica e perciò gli specifica che è opportuno che vada via semplicemente perché la gente potrebbe parlare male alle loro spalle. L’uomo non fa resistenza, le dice soltanto: “finisce sempre che ci adeguiamo noi alla mentalità degli altri, anche quando è sbagliata”. La donna: “Ma anche voi avete smesso di macinare il caffè quando avete sentito suonare!”. Lui si sta avviando verso la porta per andarsene ma Antonietta, d’impulso, lo invita a rimanere: anche lei vuole il caffè. Non sa più cosa è giusto e cosa è sbagliato: forse ha ragione la portiera, forse ha ragione Gabriele…tutto quello che sa è quello che vuole. Ricominciano a parlare del lavoro di lui. La donna ammira il fatto che quando lui parla alla radio tutta l’Italia lo ascolta e, ironizzando un po’, gli chiede cosa succede se per caso gli viene da ridere. “Ah! E’ grave la risata in onda…certe multe!”. I due si incantano a guardare qualcosa (forse nulla) al di là della finestra; si sente la voce di Guido Notari alla radio che riempie trionfante le strade di Roma con l’esaltazione dell’Italia fascista. Antonietta gli chiede se è un suo collega. Gabriele annuisce esaltando la sua bravura: “a lui non scappa mai da ridere”. I discorsi sono insignificanti ma piano piano avvicinano i due verso una situazione di reciproca confidenza, di crescente fiducia. Egli prende il monopattino e comincia a girare per tutta la casa: le sue personalità appaiono multiple ed antitetiche: ora è triste, ora è spensierato come un bambino, poi è serio e di nuovo è allegro e voglioso di socializzare, tutti aspetti che mettono la donna in uno stato di dolce inquietudine e di meraviglioso disorientamento. Lei lo ferma e le loro mani si sfiorano; Gabriele sembra non farci caso, invece Antonietta percepisce un’emozione strana, piacevole ma nello stesso tempo insicura. Poi lei ritorna in cucina e, aspettando il caffè, sembra pensare.
Sorseggiando il caffè cominciano finalmente a parlare di cose serie. Lei gli dice che non le sembra un uomo tanto allegro e Gabriele ammette il fatto di essere lunatico dicendo che la sua allegria dipende dai giorni. Egli si mette a guardare l’album di fotografie del “Duce” e la macchina da presa riprende alternativamente lo sguardo di lui che guarda le foto con falsa attenzione e quello di lei che sembra chiedersi quali siano le sue idee. Lei gli chiede se l’album gli piace ma lui preferisce non rispondere direttamente alla domanda. Antonietta gli racconta di una cosa che le è capitata quattro anni prima: dice di aver incontrato il Duce a Villa Borghese, lui passava a cavallo e lei si fermò attonita a guardare quell’uomo che le lanciò uno sguardo così penetrante da farla svenire. Gabriele le fa notare una frase scritta davanti ad una fotografia del suo album: “inconciliabile con la fisiologia e la psicologia femminile, il genio è soltanto maschio”. Le chiede se è d’accordo. Lei risponde affermativamente dicendo che, fino a prova contraria, è sempre l’uomo che riempie i libri di storia. Lui nota: “sì, forse anche troppo, così non c’è più spazio per nessuno, e tanto meno per le donne”. Si comincia a cogliere la contrarietà di Gabriele all’ideologia fascista e Antonietta, che ancora non l’ha capito pienamente, si limita solo a ritenerlo una persona complicata. Egli non cerca, però , di farle cambiare le sue idee, tenta solo di indurla a interrogarsi su di esse per cercare di dare loro una giustificazione sensata.
Per la prima volta Antonietta è risvegliata da nuove riflessioni. Gabriele allora comincia a parlare di sua madre. Dice che anche se non era un uomo era comunque un genio perché dipingeva, lavorava come contabile ed era lei che mandava avanti la famiglia e che prendeva tutte le decisioni. “L’unica decisione che prese mio padre fu quella di andarsene di casa”. Dice che era una gran donna ma che non si seppe tenere il marito, o forse non se lo voleva tenere. (Questa battuta può essere interpretata come una provocazione, forse non pienamente voluta di Gabriele, ma sicuramente voluta dal regista: Antonietta non ha nessuna stima per suo marito, è consapevole della sua infedeltà e del menefreghismo nei suoi confronti ma –nonostante ciò- “se lo tiene”. Questo discorso per l’ennesima volta mette in difficoltà la donna il cui volto è ripreso immediatamente dalla “camera” che resta ferma su di esso, turbato, interrogativo, inquieto, fino a quando gli occhi non si abbassano. Così inizia a parlare di sua madre, dicendo che lei era completamente diversa; non ha il tempo di finire di parlare che suona nuovamente il campanello. Capisce subito che è di nuovo la portiera. Va ad aprire e quest’ultima le chiede se l’uomo è ancora lì. Ella risponde di sì, fingendolo in cucina a riparare il lume. La portinaia sconvolge ancora più profondamente i suoi sentimenti perché le racconta quello che sa sul conto di Gabriele. Ecco quello che dice: “L’inquilino del terzo piano è una mezza cartuccia, un disfattista, un antifascista (…) secondo voi perché l’hanno mandato via dall’Eiar? Lo sapete che gli hanno detto? E mò che fai, te metti a sputà nel piatto dove magni? Ebbé, allora ridacce er piatto!”. Ad Antonietta sembra impossibile che una persona così per bene sia un antifascista. La vecchia risponde che uno può essere anche un mascalzone, ma quello che bisogna vedere è se è fedele o no al partito.
Antonietta chiude la porta e trova Gabriele in cucina intento a riparare il lume: aveva ascoltato la conversazione e per prudenza si è messo a fare quello che la vicina aveva detto alla portiera. All’inizio finge di non aver ascoltato il resto della chiacchierata ma poi ella lo incolpa di essere antifascista. Egli non lo nega e perfino ironizza: “io non credo che l’inquilino del terzo piano sia antifascista, semmai il fascismo è anti-inquilino del terzo piano”. Sembrerebbe una battuta ma fa riflettere. Gabriele è omosessuale (anche se Antonietta non lo sa ancora) e il fascismo non ammette assolutamente quelli come lui. La tensione è grande ma l’uomo cerca comunque di sbloccarla facendo finta di prendere una scossa elettrica, sperando così di farla ridere. Non ci riesce. Forse adesso Antonietta è convinta che Gabriele sia un uomo da non frequentare, da cui stare lontana…
Teresa C. e Giada T.
Sulla terrazza
Questa non vuole essere una seriosa e pedante analisi di una sequenza cinematografica, fatta magari inquadratura per inquadratura e con ricerca di presunti preziosismi registici. Lasciamo queste cose ai posatori che, pieni di affettazione, devono inventarsi un’arte che non hanno. Noi, le persone semplici, che un film lo guardiamo anche molte volte, sequenza per sequenza, scena per scena, attimo per attimo, non per coglierci qualche freddo particolare ma perché innamorati di una cosa, di un personaggio, di una situazione, noi, i perdenti, vogliamo raccontarvi una storia d’amore, una storia d’amore che dura un attimo, giusto il tempo di piegare un lenzuolo.
La scena ha come palco la terrazza di un grande palazzo, dove la nostra protagonista stende al sole il suo bucato, affiancata dalla strana conoscenza fatta in quella mattinata un po’ particolare (non ricordo i loro nomi… forse hanno tutti i nostri nomi…). Lo sfondo è una grande città dove, proprio in quel giorno, si tiene un importante incontro tra due leader politici. Lei è una bella donna, ma di una bellezza ormai sfiorita e lacerata dal parto di sei figli, moglie di un uomo che probabilmente non ama ma che rispetta e serve, forte della convinzione (impostale da chissà chi) che l’uomo è marito padre e soldato, quindi oggetto di tutta la sua più supina subordinazione. Lui è un altrettanto bell’uomo, intellettuale, che lei crede eccentrico ma che presto si scoprirà in tutto il suo dramma esistenziale, indipendente quando l’ideologia sembra venire imposta e accettata da tutti, omosessuale in una società machista e intollerante, straniero in terra straniera. Cosa ci fanno dunque due personalità così antitetiche, sole, in un posto così insolito?
E’ un continuo incalzare di domande che vengono poste a lei, che sembra avere un’espressione triste. Perché mai? Non va tutto bene, tutto come vuoi tu, non sei madre di ben sei figli? Guarda me, stasera parto e sono senza lavoro, eppure sono felice… Ma lei non risponde. Tuttavia è solo adesso che, inaspettata, arriva la scena più bella: d’improvviso lui la cinge con un lenzuolo e comincia ad abbracciarla. Entrambi ridono, sono felici, sembra di essere ritornati bambini. Ancora un secondo di spensieratezza e lei è di nuovo arrabbiata. E’ un piantagrane. Ah, adesso ho capito: con la scusa del libro che mi ha regalato lui vuole… ma chi si crede di essere? Sono tutti uguali gli uomini! Ormai sconsolato per la perdita di quella che poteva essere l’insolita amica di una giornata tanto particolare, Gabriele ritorna da lei per aiutarla a piegare un altro lenzuolo e, quando si avvicinano per unirne i lembi, le in lacrime bacia le mani di quell’uomo che, anche se solo per un momento, l’aveva resa veramente felice: sente tutta l’invidia per il suo mondo, quello della radio, fatto di grandi stelle e dive, perfino del telefono che si è fatto mettere in casa. “Ce l’ho con me, non con voi, perché è tutta la mattina che vi guardo: andatevene, fuggite da questo mondo ingiusto e crudele, di cui io sono la regina” –sembra voler dire- “voi siete troppo puro”. Ormai al culmine della tristezza e della malinconia lo abbraccia e avvicina le proprie labbra alle sue in un bacio disperato, che porta con sé tutte le brutture di una vita grigia e noiosa, di una vita che non le appartiene, che le è stata tolta di forza nel momento in cui si è sposata.
Ma ecco che un equilibrio viene improvvisamente spezzato: quel bacio è accolto con freddezza, lui non vuole contraccambiarlo, non può farlo. Non è né marito né padre né soldato. Lei non vuole capire le sue parole ma viene subito incalzata: purtroppo è così, mi dispiace, hai capito benissimo. Sono un frocio. Riceve uno schiaffo. Cosa c’è in quello schiaffo? C’è solo il risentimento per se stessa, per aver ciecamente consegnato nelle mani di quello sconosciuto le sue frustrazioni, ingenua nel poter credere di aver trovato qualcuno che la potesse capire…. Maledetti, maledetti voi, o grandi capi di questa società, che avete dimenticato di cosa è veramente fatto l’uomo. Il vostro uomo è fatto solo di una divisa, una grande testa vuota ed assorbente ed un unico grande muscolo che funziona al posto del cervello, lo stesso muscolo che lui le vuole far sentire come unica possibilità di essere considerato una persona come tutte le altre. Credete la donna mero strumento dei vostri ordini, oggetto dei vostri desideri, macchina da figli che solo voi educherete secondo la vostra stupidità. Tu non sei più tua: sei sua, gli appartieni. Lui la aggredisce, le vuole far sentire quello che anche lei, che si dichiara tanto per bene, cerca in un uomo, glielo grida in faccia a quella sporca provinciale tutta casa e famiglia. In questo si svela la tensione di una vita che egli fa sempre più fatica a sopportare: ora non è più in grado di capire il dramma di una donna schiacciata dalle macerie di quei piccoli ed esili valori sui quali ha fondato la propria vita. Ma ancora: le corre dietro, continua ad urlare, vuole far sentire a tutto il palazzo, a tutta la città affollata ed adorante i due fuhrer, a tutto il mondo la sua fiera diversità. Lei è sempre più annichilita e l’unica cosa che le rimane da fare è scappare fra le sacre mura domestiche. Chiude la porta e lui scompare dalla sua vita anche se lo sente ancora urlare: oddio, e se lo sente la portiera, quella pettegola?
L’ultima volta che lei lo vedrà sarà quella sera stessa quando, tornata a casa tutta la famiglia, lo vedrà andarsene con tanto di valigie e accompagnato da due signori. Cosa le resta? Le resta la malinconia per una persona, ormai irrimediabilmente persa, che, unica nella sua esistenza, le aveva fatto provare delle emozioni e le aveva fatto sentire, anche se solo per un attimo, la gioia di vivere la vita. Le resta un libro, un suo regalo, che lei leggerà tutte le sere prima di coricarsi, magari senza capirci nulla, ma inestimabile “reliquia” di un impossibile amore. Le resta una famiglia numerosa da lavare, stirare, vestire, nutrire, altri bambini da sfornare. Ma soprattutto le resta il ricordo di una giornata particolare, a tratti straordinaria, a tratti banale, a tratti drammatica, ricordo che nessuno potrà mai levarle.
Luca S.