Storia del giornale “L’Ora” di Palermo

Storia del giornale “L’Ora” di Palermo.

L’avventura di un quotidiano che fu protagonista della vita di una regione, la Sicilia, e dell’Italia dal 1900 al 1992.

 

Nel “Corriere della Sera” del 7 novembre 2021, a pag. 34, è pubblicato un articolo di Antonio Calabrò nel quale si racconta la storia del quotidiano palermitano, nato su impulso della famiglia Florio,  che per quasi un secolo fu un testimone eccezionale di battaglie democratiche.

                                                                  Gennaro  Cucciniello

 

Fare un buon giornale è come costruire ponti, per rendere più facile e frequente lo scambio di idee, valori, progetti e, perché no?, emozioni tra parti diverse dell’opinione pubblica. La lunga esperienza di un piccolo grande quotidiano come “L’Ora”, in tutto il corso di un Novecento tumultuoso, ne è la conferma. E Vittorio Nisticò, nei vent’anni della sua direzione, sino al 1975 e poi nella stagione della presidenza della cooperativa editrice de “L’Ora”, è stato sicuramente il migliore interprete dell’anima del giornale, orgogliosa, curiosa, autonoma. Legata, comunque, a un’etica del giornalismo, della politica e della cultura tra le più solide e fertili nel panorama italiano contemporaneo. Un ponte, dunque. Tra la sinistra e le altre componenti di un ampio fronte progressista, comprese le correnti più dinamiche del mondo cattolico. Tra la politica, l’economia e la cultura. Tra la Sicilia e il resto del Paese, tra l’isola fiera, il Mediterraneo e l’Europa. “L’Ora” è stato un giornale radicato soprattutto nelle province occidentali siciliane. Ma mai viziato dal provincialismo.

Sono caratteristiche forti. Evidenti fin dalla nascita del quotidiano, il 21 aprile del 1900, per iniziativa dei Florio, imprenditori con il gusto dell’innovazione, anche se un po’ appannata nel tempo da un’infausta attenzione per il nazionalismo torbido e pasticcione di Francesco Crispi e, purtroppo, da un’eccessiva passione per i lussi principeschi. Un giornale, comunque, sempre di idee liberali, attraente per le grandi firme (Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao) e pronto alle relazioni con testate internazionali, da “The Times” di Londra a “Le Matin” di Parigi e al “New York Sun”. L’impronta aperta si conferma con la gestione dei Pecoraino, imprenditori sapienti e di solide inclinazioni liberali (erano tra gli editori de “Il Mondo” di Giovanni Amendola). Dopo il ventennio del cupo conformismo fascista, riecco un editore democratico, Sebastiano Lo Verde, genero di Filippo Pecoraino, vocazione netta meridionalista e antifascista, impegnato a ispirare il giornale a quell’antica idea di libertà, saldando lotte popolari contro l’arretratezza del feudo a slanci per dare all’Autonomia regionale siciliana appena nata valori e strumenti di sviluppo economico, sociale e civile.

A metà degli anni Cinquanta il rilancio, con il passaggio a una società editrice vicina al Pci (come per Paese Sera straordinario quotidiano romano, Il Nuovo Corriere di Firenze apprezzato anche dal cattolico Giorgio La Pira e dal grande poeta Giuseppe Ungaretti e Milano Sera con la redazione guidata da un poeta, Alfonso Gatto, e affollata da politici e uomini di cultura come Giancarlo Pajetta ed Elio Vittorini, Paolo Grassi e Giorgio Strehler). E l’arrivo, alla direzione, di Vittorio Nisticò. Le scelte di senso sono chiare: politica riformatrice, autonomismo regionale con un robusto tono progressista, impegno antimafia e dialogo aperto con tutte le forze culturali e sociali attive sul fronte del cambiamento e con le componenti del mondo politico che sia a sinistra (i socialisti, che avevano comunque rotto dal 1956 il fronte comune con i comunisti) sia sulla sponda del governo (esponenti della Dc e del Pri) mostrano comunque un impegno chiaro verso il rinnovamento della Sicilia e del Sud. L’amicizia personale di Nisticò con Aldo Moro, leader Dc, e con Ugo La Malfa, segretario del Pri, ne è stata a lungo un’esemplare testimonianza.

La speranza di spezzare la povertà dell’isola.

“Spezzare la povertà della Sicilia e fare di quest’isola un angolo del mondo dove chi nasce possa vivere ringraziando Dio d’esservi nato. Dovremmo pur essere stanchi di sentirci i professionisti dell’esilio, i paria della nazione…” scrive Nisticò in uno dei suoi editoriali, alla fine degli Anni ’50, quando l’Autonomia siciliana comincia a mostrare più i guasti delle clientele che le inclinazioni allo sviluppo economico, l’emigrazione verso le fabbriche del Nord è diventata un fenomeno di massa e le famiglie mafiose si sono messe a trafficare per nuovi affari nelle città, dopo avere devastato le campagne. “La mafia dà pane e morte”, è il titolo esemplare di una pagina della straordinaria inchiesta antimafia del 1958.

Cronaca, inchieste, denuncia documentata, scrittura severa. Poca retorica. Mai propaganda. Il Pci, editore sensibile a un ampio sistema di relazioni (la migliore lezione della guida togliattiana) è comunque tenuto a rispettosa distanza: tra i provvedimenti di Nisticò, già all’inizio della sua direzione, c’è il divieto di costituire, all’interno del giornale, una cellula del Pci e, per i redattori, di assumere incarichi di responsabilità negli organismi dirigenti di partito. Mai suonare il piffero per la rivoluzione, per dirla con l’efficace sintesi di Elio Vittorini. Alcuni di noi redattori e dei commentatori politici avevamo in tasca una tessera del Pci. Parecchi, invece, no. E le cronache e i commenti sono in ogni caso poco ortodossi, attenti alle distinzioni tra buon giornalismo e scelte di partito. Semmai, c’è’ una severità particolare nei giudizi verso la sponda politica che ci è più vicina: la capacità critica senza pregiudizi né obbedienze di schieramento –ha insegnato Nisticò, spesso con durezza- è il miglior servizio che un giornale di sinistra possa fare alla sinistra stessa. Lezione sempre d’attualità.

Ecco perché L’Ora è stato un ponte, in continua manutenzione. Un luogo spregiudicato di dialogo e di confronto. Uno spazio per discutere di rinnovamento politico e di economia e dare respiro a quelle imprese che provavano a evitare le secche mafiose e le corruzioni clientelari, gli appalti di favore e le più plateali speculazioni immobiliari, i contributi assistenziali e le illegalità rispetto ai diritti dei lavoratori (ce n’erano imprenditori così: pochi ma vitali). Una tribuna libera per personalità della società e della cultura anche di estrazioni e appartenenze diverse rispetto al Pci. Un porto accogliente in cui lo storicismo e il progressismo d’impronta comunista si confrontavano con l’illuminismo disincantato e ironico di Leonardo Sciascia. Una miscela originale molto siciliana e dunque aperta, accogliente, critica.

 

                                                                  Antonio Calabrò