Belli. Sonetti. “La notte de Pasqua Befania”
E’ cosa nota che Belli, sperimentatore irrefrenabile in fatto di soluzioni linguistiche, andasse in giro per Roma munito di penna e foglietti, annotando con precisione di cronista esclamazioni, modi di dire, interi brani di dialoghi che sentiva dai suoi interlocutori popolari. E’ anche vero che il romanesco di allora non era una lingua molto omogenea. Per più ragioni. Nella prima metà dell’Ottocento l’antico dialetto romanesco –che era più simile al napoletano (come si può dedurre dalla trecentesca e bellissima “Vita di Cola di Rienzo”)- era quasi scomparso dalla città. Da una parte, infatti, il sacco del 1527 e le epidemie avevano quasi spopolato Roma dei suoi abitanti originari, dall’altra lo Stato Vaticano ha sempre avuto una classe dirigente non locale. I cardinali arrivavano qui dalla Lombardia, dall’Emilia come dalla Campania e dalla Sicilia. In particolare la Curia romana è stata soggetta a una forte toscanizzazione già dal ‘400, con il risultato che anche la borghesia aveva preso a sdegnare un dialetto col quale si esprimevano solo le classi popolari e che perciò immediatamente denunciava il basso livello sociale di chi lo parlava. Diventata la lingua dei miserabili e dei reietti (a differenza del milanese usato da Porta, che era parlato dal popolo ma anche dalla famiglia Manzoni), il dialetto romanesco acquista anche una sua grandiosa espressività, tragica e grottesca insieme: è un volgare duro, sguaiato, incazzoso e sfottente, la lingua del sesso, della violenza, della miseria estrema, dell’empietà, del ghigno beffardo e sarcastico con il quale l’oppresso reagisce ai soprusi.
A volte sembra che quei popolani non conoscano la differenza tra umano e disumano. Tutto ciò che accade confonde il loro agire con l’agire naturale degli elementi. La violenza di un temporale, il flagello del vento, l’implacabilità del sole, l’avarizia della terra, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non sono semplici dettagli atmosferici ma la culla di sordide e violente tragedie. A volte i personaggi non sanno neppure perché uccidono e, se uccidono, a volte non ricordano neppure perché fuggono e da chi. C’è uno stordimento che confonde torti e colpe e allinea le loro azioni all’istinto degli animali braccati. E’ un’umanità minore e dannata che, inconsapevole, agisce fuori dalla storia (v. il sonetto “er lupo manaro” del 15 gennaio 1833). Non conoscono la trama della loro infelicità, non ne intuiscono le conseguenze: continuano a vivere dentro la sventura ignari del proprio destino. Ma così riescono ad assaporare anche tante gocce di breve contentezza. “La coscienza che nulla può cambiare (nella mente del popolano le rovine della Roma antica testimoniano questo) accomuna tutti i personaggi. Allora unica difesa dei poveracci è il buon senso, la capacità di prendere la vita con filosofia; dalla descrizione di questo atteggiamento nascono parecchi sonetti nei quali donne e uomini, vecchi e disillusi, traggono le conclusioni della loro esperienza per trasmetterla a chi non sa ancora come vanno le cose del mondo. Sono questi i temi della meditazione sulla morte, sulla vecchiaia, sulla fugacità della bellezza, sull’illusorietà delle speranze in un domani migliore, risvolto amaro delle risate beffarde, degli insulti triviali e degli scherzi”.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Gibellini-Felici-Ripari, “Belli. I sonetti. Edizione critica”, Einaudi, Torino, 2018.
La notte de pasqua bbefania 6 gennaio 1845
Mamma! mamma! – Dormite.- Io nun ho ssonno.-
Fate dormì chi l’ha, sor demonietto.-
Mamma, me voj’arzà.- Giù, stamo a letto.-
Nun ce posso stà ppiù: qui me sprofonno.- 4
Io nun ve vesto.- E io chiamo nonno.-
Ma nun è giorno,- E che m’avevio detto
Che ciamancava poco? Ebbè? v’aspetto?-
Auffa li meloni e nu’ li vonno!- 8
Mamma, guardat’un po’ ssi ce se vede?-
Ma tte dico ch’è notte.- Ajo!- Ch’è stato?-
Oh dio mio!, m’ha ppijato un granchio a un piede.-11
Via, statte zitto, mo attizzo er lumino.-
Sì, eppoi vedete un po’ che m’ha pportato
La befana a la cappa der cammino. 14
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).
La notte dell’Epifania
Mamma! mamma! – Dormite.- Io non ho sonno.- Fate dormire chi ce l’ha, signor demonietto.- Mamma, voglio alzarmi.- Giù, stiamo a letto.- Non posso starci più: io qui mi sprofondo.- Io non vi vesto.- E io adesso chiamo nonno.- Ma non è giorno.- E che mi avevate detto che ci mancava poco? Ebbene? Vi aspetto?- A ufo i meloni e nemmeno li vogliono! (questa è un’esclamazione scherzosa nata dalla somiglianza tra “auff” –modo popolare di esprimere l’impazienza- e la frase dei venditori di cocomeri). Mamma, guardate un po’ se ci si vede?- Ma ti dico che è notte.- Ahi! (esclamazione di dolore). Che è stato?.- Oh, dio mio, mi ha pigliato un crampo a un piede.- Via, stai zitto, ora accendo il lumino.- Sì, e poi vedete cosa mi ha portato la Befana nella cappa del camino.
Analisi.
Siamo nell’interno di una casa, nella camera da letto e dialogano tra loro una mamma e un bambino. Il tutto è immerso nell’atmosfera fiabesca della notte magica dell’Epifania, non c’è traccia di visioni razionaliste e realiste. Scrive il Vigolo: “E’ tra le cose più belle del poeta, e fra le più tipiche della sua ultima, pacata vena. Non più il greve vernacolo, procace, barocco, a momenti surrealista, della prima scoperta del romanesco, ma la sua stessa pronunzia familiare, addolcita e fatta più lieve da una delicata tenerezza”. Noi ascoltiamo il vivace colloquio tra il bambino impaziente che si agita nel letto accanto alla sua mamma, che cerca inutilmente di calmarlo e di farlo dormire. Ma la donna non tarda però a cedere alla curiosità del piccolo, e dunque accende il lumino che, nel buio circostante, farà apparire i doni come in un sogno affascinante, moltiplicando la sorpresa.
Nello stesso giorno Belli completa il racconto giocherellone:
La matina de Pasqua Befania
Ber vede è da per tutto sti fonghetti,
Sti mammocci, sti furbi ciumachelli,
Fra ‘na battajeria de giucarelli
Zompettà come spiriti folletti! 4
Arlecchini, trommette, purcinelli,
Cavallucci, sediole, ciufoletti,
Carrettini, cuccù, schioppi, coccetti,
Sciabbole, barrettoni, tammurrelli… 8
Questo porta la cotta e la sottana,
Quello è vistito in càmicio e ppianeta,
E quell’antro è uffizzial de la befana. 11
E intanto, o pprete, o chirico, o uffizziale,
La robba dorce je tira le deta;
E mamma strilla che ffinisce male. 14
E’ un bel vedere dappertutto questi funghetti, questi bambocci, questi furbi lumachini, fra una batteria di giocattoli andar saltando come spiriti folletti! Arlecchini, trombette, pulcinelli, cavallucci, sediole, fischietti, carrettini, cucù, fucili, giocattoli di terracotta (piattini, tazzine, pentoline di coccio), sciabole, berretti di foggia militare, tamburelli… Questo porta la cotta e la sottana, quello è vestito con il camice e la pianeta (prete pronto a dire la messa), e quell’altro è un ufficiale della Befana. E intanto, o prete, o chierichetto, o ufficiale, sono tutti attirati dalla roba dolce, e mamma strilla che finisce con un’indigestione.
Ora è rappresentato uno sciame di bambini che dalle stanze delle case dilagano nelle vie e nelle piazze di Roma e nello spazio intero del sonetto, lasciando a una mamma solo l’ultimo verso. A girare la scena è un divertito operatore cinematografico Giuseppe Gioacchino Belli. Il ritmo è frenetico e si conclude nello strillo di una mamma appena spazientita.
Gennaro Cucciniello