Eugenio Montale (1896-1981), Lo scrigno a chiusura ermetica, 1940
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose, hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Mezzodì: allunga nel riquadro
il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre
che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.
da “Le occasioni”, Einaudi, 1940
Poesia chiusa, piuttosto indecifrabile a una prima lettura: chi è la donna (anzi l’essere umano, perché nemmeno il sesso è precisato; anzi l’essere, perché perfino la sua umanità è messa in dubbio dalle “penne” (v. 3)), chi è la creatura a cui ci si rivolge e perché sta lì? Perché la sua presenza resta incognita alle “altre ombre”, v. 7? Perché sono ombre, e il loro non-sapere merita di essere segnalato?
Guardando alla data, 1940, si direbbe in modo spiccio “ermetismo”; ma non è come in Quasimodo o in Luzi, dove l’oscurità del testo tende a dilatarsi portando le parole verso un limite di significazione indefinita, o abissale: qui l’incomprensibilità tende al segreto, come se il testo fosse uno scrigno di desiderio e di verità da difendere gelosamente –sottraendo ai profani quegli umili dati circostanziali che chiarirebbero la situazione. E’ un difetto di contesto insomma, non un’ambizione di poesia pura perché vaga e generalizzante. Anzi, dal punto di vista formale tutto è molto preciso e realistico: i passanti non girano l’angolo ma “scantonano nel vicolo” (vv. 7-8), l’ombra nera è incorniciata con nettezza nel riquadro del cortile, l’ora è esatta –e sembra un’incisione di Durer l’immagine dell’essere alato con la fronte imperlata di ghiaccioli, le penne lacerate, persa in un sonno che è stanchezza e incubo da cui si riscuote “a soprassalti”. La metrica è un vero gioco a incastro: due quartine di endecasillabi apparentemente non rimati (tranne le quasi-rime “alte/soprassalti” e “ghiaccioli/sole”); ma poi mezzodì rima con qui, raccogliesti con desti, nebulose è in quasi-rima con freddoloso e gli sdruccioli dei vv. 5 e 7 (nespolo e scantonano) si rispondono. La sintassi si inarca sulla metrica annullando il ritmo endecasillabico, ma pezzi di versi contigui formano invece endecasillabi perfetti (s’ostina in cielo un sole freddoloso, vv. 6-7). E’ un rimpiattino con la tradizione, un adeguarsi e un sottrarsi, come un prestigiatore che fa sparire un oggetto e poi riapparire come per magia.
Diamoli allora questi dati circostanziali che chiariscono il testo. La donna è Irma Brandeis, un’ebrea americana d’origine austriaca di cui Montale s’era innamorato a Firenze nel 1933; amore passionale ma poco vissuto, lei nel 1938 era tornata in America a causa delle leggi razziali, lui non aveva avuto il coraggio di raggiungerla (Drusilla Tanzi, che poi avrebbe sposato, minacciava il suicidio se abbandonata). Stanche e tristi lettere erano intercorse dopo la partenza di lei: l’ultima è datata al dicembre 1939, un mese prima della composizione del nostro testo. Lei torna, in sogno o in visione, a visitarlo. Ha traversato l’Atlantico volando negli strati alti dell’atmosfera (le “nebulose” saranno le nuvole ma certo alludono al cosmo), “metà angelo e metà procellaria”; lui, riscattando oniricamente una debolezza di cui si rimprovera, assiste al suo sonno e la cura, la protegge. La frangia dei capelli era il dettaglio di lei che amava di più e gliela accarezza scaldandola; è un’ora comune per tutti ma per lui è l’ora delle visitazioni angeliche. Lei si chiama Brandeis, che in tedesco può essere scomposto e letto come “incendio di ghiaccio” (“fuoco di gelo”, dirà in un’altra poesia); qui il freddoloso sole invernale è un accenno criptato al suo cognome, il particolare che forse l’ha evocata, un ammicco tra loro che deve restare segreto all’altra donna.
Con Irma (a cui in altre poesie attribuirà i soprannomi di Clizia o Iride) arriva alla massima chiarezza l’idea montaliana di amore-passione: la donna è la scala per un’ossessione più metafisica, messaggera di un aldilà di cui Montale non sa nient’altro se non che deve esistere, oltre una barriera. La Brandeis era venuta a Firenze perché studiava Dante e certo le donne poetiche montaliane somigliano a Beatrice ma per un Dante che non crede in Dio. Per questo la donna è meglio lontana che vicina, così può idealizzarla come vuole –l’amore diventa un marchio di aristocrazia per gli uomini che non si accontentano di vivere e basta. Gli uomini che invece non sanno niente di Irma e della sua visitazione sono “altre ombre” che quasi non si distinguono dall’ombra del nespolo: uomini che scantonano via dall’Assoluto, mai esponendosi all’amore verticale ed escludendo la possibilità stessa di “un’altra orbita”.
Per Maria Luisa Spaziani, dieci anni dopo, Montale scriverà versi che richiamano questi: anche lei gli ricorderà “lo strazio / di piume lacerate”, anche lì compiangerà i “ciechi” che “non ti videro / sulle scapole gracili le ali”. Ma sarà un surrogato, un tentativo di mediazione tra cielo e terra: l’esperienza folgorante dell’angelo incarnato si vive una volta sola nella vita. Da vecchio riparlerà con ironia tenera della Brandeis e della vigliaccheria propria (lei lo voleva arruolato volontario nella guerra di Spagna); non sarà più così bisognoso di sublime, si mostrerà vecchio dandy superstizioso e disilluso; ma l’Assoluto che ti viene a trovare in camera, di nascosto da tutti, quello non potrà mai dimenticarlo. Lei nel frattempo è diventata un’accademica esperta della Divina Commedia e lui loderà i suoi scritti: ma nell’ultimo bigliettino che le manda, poco prima di morire, ancora la chiamerà “my divinity”.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 18 maggio 2014, p. 52