Libera Bosch a malo!
Ambiguo, irrazionale, visionario. Il Rinascimento dell’artista fiammingo è molto lontano da quello classico.
Se le arti si allontanano dal male, diventano noiose. Secondo Bataille l’arte non deve mai imbrigliare la propria carica destabilizzante, sovversiva e –insieme- sublimante e catartica, soprattutto quando si misura con i lati disturbanti del visibile.
In questa tensione è il senso profondo della poetica di Jheronymus Bosch (1453-1516), in mostra al Palazzo Reale di Milano (fino al 12 marzo 2023). Radunando dipinti, sculture, arazzi, incisioni, bronzetti, volumi antichi e oggetti rari, questa esposizione si basa su un approccio comparativo: alcuni capolavori di Bosch (tra gli altri, Trittico delle tentazioni di Sant’Antonio, Le tentazioni di sant’Antonio, Trittico del Giudizio Finale, San Giovanni Battista, Trittico degli Eremiti, gli arazzi dell’Escorial e un cartone andato perduto e poi ritrovato nelle collezioni degli Uffizi) sono posti in dialogo con i lavori di altri pittori (come, tra gli altri, Bruegel il Vecchio, Marcantonio Raimondi, Albrecht Durer e Francesco Colonna). Un approccio storico-critico originale, per interrogare, in una prospettiva contemporanea, l’epica del male elaborata da Bosch. Un’epica che attinge a fermenti ereticali, ad allusioni alchemiche e millenaristiche, ma anche a rinvii fiamminghi e a rimandi mediterranei (in particolare, italiani e spagnoli).
Passaggio decisivo della mostra è il Trittico delle tentazioni di sant’Antonio (proveniente dal Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona. In particolare si osservi il pannello centrale. Con la mano benedicente, il santo in meditazione indica la piccola cella ricavata in un torrione diroccato, dove è l’apparizione del Cristo. A sinistra, un corteo di demoni, accompagnati da simboli di lussuria, di eresia e di stregoneria. Una donna nera porta un rospo su un vassoio. E, poi: una cattedrale abitata dai peccatori. Architetture perforate. E grotte. Sullo sfondo, una città in fiamme. Il cielo è solcato da un uccello-nave, da pesci volanti e da imbarcazioni alate. Appoggiato a un muro, un uomo con barba e con cilindro, probabilmente il mago direttore di tutta la drammaturgia.
Rebus in forma di pittura. Tutto è perfettamente leggibile, nitido e, al tempo stesso, misterioso, nelle opere di questo interprete di una religiosità ambigua, legato ad alcune sette del XV° secolo, sapiente nel definire un fantastico privo di fantasmi, costellato di immagini di rara efficacia, che accolgono in sé tanti lati oscuri. Si spalancano le porte di un Rinascimento alternativo, irrazionale, visionario, lontano dal Rinascimento classico. Addio bellezza. Siamo nei continenti del Brutto, del Deforme, dell’Osceno, dell’Abiezione, del Perturbante, pensato come trasgressione di ciò che è confortevole e tranquillo. Infine, del Male: forza anonima e spaventosa.
Per un verso, Bosch esibisce individui, oggetti, architetture e ambienti riconoscibili. Per un altro verso, sorretto da una strabiliante e perversa esuberanza fantastica, si abbandona alla hybris –tensione che dice tracotanza, dismisura, scarto, differimento, violenza, abbandono agli eccessi e alle pulsioni.
Forse memore di una quotidianità piena di storpi, di bordelli, di paralitici e di ciechi, Bosch ordina un défilé dell’orribile. Viola i confini fisici del corpo. Altera anatomie e lineamenti, opera sfregi sui volti, fino a dischiudere identità segrete. Scolpisce quelle anamorfosi che, ricordava lo storico dell’arte lituano Jurgis Baltrusaitis (1903-1988), proiettano “le forme fuori di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili”. Un incubo. Entriamo in un mondo folle, capovolto, dominato dal diabolico. E’ il regno del mostruoso, il cui autore è un pittore che, attingendo soprattutto ai bestiari medievali, mette in scena esseri fantasmatici e torbidi. Titani sfrenati, che non nascono dalla mescolanza di tratti animali noti, ma custodiscono una propria autonomia. Non si sa se siano giunti dall’abisso o se siano abitanti inosservati delle nostre città.
Pur se tenebrosi, questi personaggi hanno qualcosa di carnevalesco. Sono déi o demoni nei quali si incontrano l’enigma e il sarcasmo. Esseri ferini, distorti, che stravolgono le morfologie regolari, suscitando un misto di stupore e repulsione. In essi, potremmo dire con Jean Clair, convivono “rispetto di un’organizzazione vivente e gusto del prodigioso”. Siamo dinanzi agli indiretti sintomi della crisi della coscienza europea, che celano follie e angosce. Epitomi metaforiche dell’immaginario di “un’intera società che sente la necessità di individuare una rappresentanza visibile delle sue paure e dei suoi terrori”.
Manifestazioni ardite dell’incessante divenire della natura, i mostri di Bosch preludono agli esercizi visionari dei surrealisti (come ricorderà Antonin Artaud, 1896-1948). Sono epifanie che sfidano ogni immobilità e adattano il reale a condizioni mutevoli. Ritratti di un’umanità alienata, distorta e favolosa, liberata dai suoi limiti, esito di un’improbabile ingegneria. Anime in pena che si aggirano su sfondi infuocati. Disperati, smarriti nel buio, mossi dall’odio, impegnati per sopravvivere a un’apocalisse imminente.
Menzogneri, irrazionali, aggressivi, ripugnanti, i diavoli e gli omuncoli di Bosch esprimono il desiderio di riscoprire l’ebbrezza dell’orrore e del furore dionisiaco. Non sono contro l’umano: ne sono parte integrante. Frequentatori dei territori elusi dalla logica, dicono il bisogno di esorcizzare l’ignoto. E annunciano un mondo dal quale Dio si è assentato, lasciando la terra in balia di spettri antropomorfi. Forse, secondo Umberto Eco (1932-2016), si tratta di allegorie moraleggianti. Scandalose trasfigurazioni dei vizi dell’epoca in cui Bosch viveva. Riscritture della realtà quotidiana, che mettono a nudo le ossessioni dell’uomo rinascimentale. Mentre la bellezza evoca un sistema governato da armonie e proporzioni, la bruttezza mette in crisi ogni gerarchia. Muovendo da questa idea, Bosch ci consegna iconografie sulfuree dell’aldilà. Il suo è un inferno polifonico, delirante, ma claustrofobico, pieno di dettagli ossessivi, sconnessi e grotteschi. Puro horror vacui. Nessun altrove. Nessuna continuità tra un’azione e l’altra. L’orizzonte è assente, privo di percorsi e di pause, senza passato né futuro.
Sono trascorsi più di cinque secoli. Eppure, i fiori del male di Bosch continuano ad affascinare e a insinuare domande, disseminandosi tra pratiche e linguaggi. Dagli aedi del post-umano in arte (tra gli altri, El Greco, Goya, Redon, Ernst, Dalì, Grosz, Barney) ai registi di autentiche teratologie (da Lynch a Cronenberg). Artisti diversi, che presentano personaggi e oggetti destabilizzanti e, tuttavia, dotati di una perversa carica seduttiva, capaci di innescare in chi osserva quella che Stefano Ercolino e Massimo Fusillo, in un acuto libro, hanno chiamato empatia negativa (Bompiani, 2022). Invenzioni aberranti sulle quali sembra allungarsi l’ombra lontana del pittore del Male.
Vincenzo Trione
Antonio, campione dell’ascesi monastica
Antonio non fu il primo, ma certamente fu il più famoso dei primi monaci cristiani. Nato intorno alla metà del III secolo in una cittadina del medio Egitto, da una famiglia abbiente e cristiana, la sua vita cambiò quando udì per caso in una chiesa le parole di Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutti i tuoi beni e dalli ai poveri, poi vieni e seguimi”.
In quel momento nacque l’asceta che nel deserto ricercava la perfezione, lottava con il diavolo e ne vinceva le tentazioni, guariva nel corpo e nello spirito i malati che si recavano da lui a frotte per essere curati, educava i monaci più giovani nello stile di un insegnamento fatto di brevi domande e fulminanti risposte, i cosiddetti apoftegmi. Vissuto più di cento anni, la fama di Antonio venne consacrata dalla biografia che, dopo la morte, gli dedicò Atanasio, vescovo di Alessandria di Egitto; prontamente tradotta in latino, favorì la diffusione anche in Occidente del fenomeno monastico e del culto del suo campione.
Di tutto questo, però, nel trittico di Bosch vi è solo un pallido ricordo: in primo piano non troviamo il santo, né la sua vita ascetica, modello di generazioni di monaci. Il santo appare impassibile a quanto gli accade intorno, il suo sguardo è sempre decentrato rispetto ai diversi episodi peccaminosi rappresentati e si rivolge piuttosto allo spettatore o al cielo, come nel pannello di sinistra dove Antonio è trascinato in volo da demoni pisciformi. Egli appare un corpo estraneo in un mondo in disfacimento, corroso dai vizi puntigliosamente rappresentati dal pennello di Bosch e ormai caduto nel totale possesso del Diavolo e dei suoi scherani, che al centro celebrano una messa nera proprio accanto all’eremita; questi, dal canto suo, invita lo spettatore a rivolgere lo sguardo a un Cristo seminascosto in una chiesa diroccata, che a sua volta indica il crocefisso, in un gioco di rimandi che sembra amplificare la distanza tra il mondo e la salvezza.
Nel clima inquieto che caratterizzava l’inizio del XVI secolo, percorso tanto da istanze di riforma ecclesiale, quanto da confuse tensioni apocalittiche, incombe sullo sfondo un incendio che devasta la città degli uomini: una visione ancora più preoccupante, se si pensa che Antonio era invocato quale protettore dal fuoco sacro, l’infiammazione che ancora oggi prende il nome da lui.
Al contrario, nell’originale racconto di Atanasio, la lotta di Antonio con il Diavolo determina tutt’altro esito: il deserto si trasforma in città e giardino da luogo selvaggio, inospitale, e che per questo offriva riparo ai demoni, ora invece scacciati definitivamente. L’ascesi monastica, individuale o collettiva, purifica non solo l’anima e il corpo di chi la pratica, bensì pure l’ambiente che la circonda e la rende possibile, anticipando la promessa escatologica di una natura pacificata e rigenerata (splendida anticipazione storica di quello che sarà, in Occidente, il monachesimo benedettino).
I miracoli incessantemente compiuti da Antonio –e di cui nel dipinto di Bosch non compare traccia- moltiplicano e diffondono la nuova condizione possibile in virtù del monachesimo tardo antico: una visione del mondo destinata a durare un migliaio di anni, per collassare proprio ai tempi del Trittico di Lisbona e della sconfessione teologica del monachesimo ad opera di Martin Lutero.
Marco Rizzi
Gli articoli sono pubblicati, alle pp. 44-45, ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera del 30 – 10- 2022