Il sogno dell’unità nel cuore degli arabi

Il sogno dell’unità nel cuore degli arabi

 

Stiamo aspettando il treno / aspettando il viaggiatore sconosciuto come il destino / per uscire dal manto degli anni per uscire da Badr / da al-Yarmuk / da Hittin / per uscire dalla spada di Saladino”. Sono versi del grande poeta arabo contemporaneo Nizar Qabbani e forse la migliore introduzione possibile a una storia complessiva degli arabi: come può quel popolo sfuggire al suo passato? Quello segnato dalle famose battaglie antiche ricordate dal poeta e in generale da una storia fitta di conquiste e di grandi eventi? Un passato sempre presente che però contiene in sé anche il futuro. E questa è un’immagine che forse può valere quasi per tutti i popoli della Terra, ma di certo sembra valere un po’ di più per quel mondo del Vicino Oriente in bilico da sin troppo tempo tra guerre e tentativi di rivoluzione, crisi economiche e impressionanti ricchezze regionali, riaffermazioni religiose e spinte modernizzatrici.

Tim Mackintosh-Smith, grande arabista britannico, viaggiatore e traduttore, di casa nella sofferente regione dello Yemen oggi sconvolta dalla guerra, parte da qui per delineare una sua vasta affascinante storia millenaria intitolata appunto, “Gli arabi” (Einaudi). E come spesso capita con simili antichi nomi di popoli, il primo problema che gli si para davanti è quello di trovare una definizione sufficiente di quella specifica parola, ‘arab, arabi. Forse non un vero popolo in origine, se è vero che quel termine può ricondurre all’idea di essere “mescolati assieme”; forse un sinonimo di badw, beduini, gente del deserto, nomadi insomma. Ma c’è un’altra definizione possibile, sicuramente la più recente: gente parlante arabo.

Come dichiara apertamente l’autore: “Questo libro guarderà più a quell’apparentemente eterno e spesso tragico susseguirsi di unità e frammentazione, e anche a quella forza che alimenta il fuoco, nutre le rivoluzioni e ha definito, più di ogni altra cosa, gli arabi attraverso una storia di spostamento e raggruppamento delle identità: la lingua araba. La lingua è ciò che lega insieme tutti questi sviluppi storici-chiave basati sulla tecnologia dell’informazione, dalla parola di Dio catturata per iscritto alla videoscrittura e all’elaborazione mentale da parte dei nuovi regimi reazionari. La lingua è il filo conduttore che tutti gli aspiranti leader arabi hanno cercato di afferrare”.

Dunque eccola: una storia degli arabi vista attraverso la loro lingua. Una storia antica, antichissima, che comincia nella Mezzaluna fertile almeno quattromila anni fa. Tracce linguistiche che diventano graffiti e si moltiplicano nella poesia. Sino a quando nel VII secolo d.C. quella lingua diventa il centro della predicazione islamica. Lingua comune forse, usata solo fra tribù differenti per comunicati ufficiali o per parlarsi attraverso la poesia (qualcosa di non troppo dissimile, forse, dalla lingua omerica).

E’ in quella lingua, dai tratti arcaici e raffinati, che avviene la Rivelazione, è in quella lingua che si fissa il Corano. Quindi ecco che la storia degli arabi diventa anche quella di un mondo politico che cresce al passo delle loro conquiste: la storia del califfato Omayyade prima e del califfato Abbaside, poi: quello che fonderà la città capitale di Baghdad e che estenderà il suo potere lungo le strade e le rotte dell’Oriente. La storia di una lingua che diventa mondo. L’arabo si fa infatti lingua della religione e delle istituzioni civili: della giurisprudenza e delle lettere. Lingua delle traduzioni, attraverso le quali la nuova società islamica si appropria delle tradizioni e del sapere antico. Perché la traduzione è forse uno dei più grandi strumenti di conquista: Platone diventa Aflatun, Aristotele Aristutailis e via dicendo; e non è un semplice cambio di nome, ma una trasformazione ben più profonda che toglie quei sapienti dalla Grecia e li rende in qualche modo arabi (un po’ quello che succederà, al contrario, secoli dopo a un sapiente musulmano come Ibn Sina al momento di essere tradotto in latino col nome di Avicenna).

E la lingua, con l’identità culturale e politica che si porta dietro, rimarrà protagonista anche al momento della frattura insanabile di quel vasto mondo; quando attorno al X secolo il califfato, uno per definizione, si moltiplicherà in tre differenti centri di potere; ci saranno un califfo a Cordoba, uno al Cairo e uno –quello in teoria legittimo- a Baghdad. Decisamente troppi. Ma proprio l’arabo, insieme ovviamente alle ormai consolidate istituzioni civili e religiose, insieme all’Islam, sarà uno dei più forti collanti di quella cultura, capace di superare le divisioni politiche ed assicurare una forma di continuità.

Verranno i tempi delle invasioni. Quelle dei faranj, i cristiani (franchi in senso molto generale) e delle loro crociate, dei turchi, nomadi delle steppe, che si insedieranno in vari territori islamici, poi dei mongoli che distruggeranno non poco, ma assicureranno a loro modo la sopravvivenza di tanto di più. Quindi il declino, quello del mondo arabo soggiogato, prima dal potere ottomano, poi dal colonialismo europeo.

Infine la rinascita, quella delle spinte culturali e politiche dell’Ottocento, della ricerca della modernità e della nascita di forme di Islam sempre più politiche. Le dittature del Novecento in bilico tra una nuova idea di nazione, una ricerca di radici passate e legami complessi con un Occidente rapace, affamato di petrolio. E un tempo presente, infine, dove l’unità di un mondo che possa definirsi arabo rimane forse un miraggio lontano, ma dove la necessità di ritrovare o costruire un destino comune rimane pur sempre una necessità per quanto dolorosamente lontana o persino utopistica.

Il lavoro di Mackintosh-Smith si chiude con le immagini più recenti: quelle della guerra civile in Siria, della guerra in Yemen e della pandemia. A questo bisognerebbe ora già aggiungere infiniti tasselli: quelli degli echi della guerra in Ucraina, dei tanti scontri verbali e degli accordi sottobanco che si rincorrono negli ultimi mesi tra le varie potenze della regione. Non ultimi, i mondiali di calcio in Qatar, che lungi dall’essere solo una parentesi sportiva sono stati anche, tra le tante cose, un tassello fondamentale delle politiche dell’area.

L’autore usa con grande convinzione l’interpretazione che della storia araba fornì Ibn Khaldun, il grande erudito maghrebino vissuto a cavallo dei secoli XIV e XV. Detto in parole molto povere, egli proponeva un modello di analisi della società araba, secondo cui bisognava ipotizzare uno sviluppo progressivo a partire da una fase beduina (badawi) sino alla fase sedentaria propria del potere regale; ma come parte fondamentale della spiegazione di tali meccanismi, aggiungeva il ruolo e l’importanza della ‘asabiyya, che lui intendeva come una sorta di legame di gruppo proprio delle forme tribali. Ora, è sicuramente vero che il mondo arabo sia stato spesso segnato da una simile alternanza; ma non sono del tutto sicuro che questo possa essere un modello sufficiente per seguire una parabola storica così lunga e complessa.

Detto questo, il libro rimane una vera esperienza. Un viaggio di secoli in una delle culture che hanno segnato il destino della storia mondiale, seguita attraverso le affascinanti modificazioni della sua parola: quella lingua che è stata ed è poesia, messaggio divino, raffinata letteratura, strumento di scambio e di comunicazione; e traccia profonda di un’antica unità che forse un tempo esistette, che spesso è stata cercata, che oggi, per le strade di Baghdad o Damasco in tanti sognano ancora.

 

                                                        Alessandro Vanoli

 

Questo articolo di Alessandro Vanoli è pubblicato ne “La Lettura” del 22 dicembre 2022, alle pp. 12-13, supplemento culturale del Corriere della Sera.