Masaccio, “Polittico di San Giovenale”
Realizzato il 23 aprile 1422, il trittico è considerato una pietra fondante del Rinascimento toscano e italiano.
L’articolo, scritto da Antonio Rocca, è pubblicato nel quotidiano “La Repubblica” del 2 dicembre 2022, alle pp. 36-37.
Masaccio datò il Polittico di San Giovenale ma non lo firmò, ponendo così le premesse di un lungo dibattito attributivo. La questione è stata risolta solo recentemente in virtù di una perizia grafologica, che ha inequivocabilmente riconosciuto la scrittura del pittore nel testo recitato da San Giovenale: l’incipit del salmo 109.
Compiuto il 23 aprile 1422, il trittico è oramai considerato pietra fondante del Rinascimento pittorico. Privo di maestri e senza discepoli, Tommaso di ser Giovanni s’era conquistato il suo soprannome per la trascurataggine, un’attitudine che lo pose come modello dell’artista moderno. L’associazione con il bohémien è un anacronismo, certo, ma in Masaccio tutto è tensione a strabordare dal proprio tempo. Anche nell’esordio prende vertiginosa distanza dalle cortesie tardogotiche per la scelta di mettere in scena, in veste di santi, contadini accigliati che hanno precedenti solo nella nobiltà popolare giottesca e che solamente nei compari di Caravaggio troveranno autentici discendenti.
Definita la paternità dell’opera, il polittico di Reggello continua a regalare sorprese. In occasione degli studi condotti per il sesto centenario di quelle tavole, Annamaria Bernacchioni ha chiarito l’esatta identità di Giovenale, sin qui confuso con il patrono di Narni e nel quale invece si deve riconoscere l’omonimo teologo di Gerusalemme. Secondo la leggenda fu il vescovo gerosolimitano che, nel 439, consegnò all’imperatrice Eudossia le catene che avevano tenuto prigioniero l’apostolo Pietro in Terra Santa. Giunto a Roma, quel dono prezioso sarebbe stato confrontato da papa Leone Magno con i vincoli petrini provenienti dal Carcere Mamertino. Il racconto prosegue con un prodigio: poste una accanto all’altra, le due reliquie si sarebbero riconosciute e si sarebbero fuse in un’unica catena, che costituisce il fondamento della basilica eudossiana. I vincoli di San Pietro divennero allora il più alto simbolo dell’unità inscindibile della Chiesa d’Oriente e d’Occidente.
Con l’inasprirsi dei rapporti tra cattolici e ortodossi, di questo santo quasi si perse memoria e il Giovenale di Gerusalemme finì con l’essere assimilato al martire venerato a Narni. Ma l’iconografia è chiara, il santo di Reggello non possiede gli attributi di un martire, ha invece un libro perché era un teologo. La creatura masaccesca è espressione di una tensione dialogica, che aiuta ad accostarci ai sorprendenti caratteri pseudo-cufici, intrecciati nell’aureola della Madre di Dio. Un’apertura che procede molto oltre il colloquio tra le Chiese greca e latina, e che s’incunea nel Mediterraneo sino a raggiungere l’Islam.
Accanto a San Giovenale, c’è un Sant’Antonio quasi torvo, è sulla settantina ed ha l’età che al tempo aveva Giorgio Gemisto, detto Pletone. Il neoplatonico, noto per il suo messaggio concordista, che qualche anno più tardi avrebbe scandalizzato Giorgio di Trebisonda. Pletone era l’esponente di punta di un movimento che ambiva al dialogo interculturale, anelito in Toscana favorito anche da ragioni commerciali. Fusione di istanze religiose e di concretezza che ben rappresenta l’aureola della Vergine: l’emblema celeste è, esso stesso, un oggetto reale. Anche il nimbo del Bambino è un pezzo di metallo, che s’eclissa infilandosi dietro il manto nerastro della madre. Maria ha lo sguardo delle icone, non c’è amarezza o dolcezza nei suoi occhi, ma qualcosa di disumanizzato. E’ un’intuizione del sacro che, in un colloquio che ignora i secoli, pone questo ventenne Masaccio accanto alle mistiche visioni bizantineggianti di Egon Schiele e ai graffiti che Jean-Michel Basquiat sembra tracciare in “newyorican”, lo slang dei portoricani di New York. Per questi ragazzi, morti a 27 anni, si addice la locuzione longhiana coniata per Masaccio, infatti tutti e tre sembrano nati muniti degli attrezzi del dipingere, al pari di Minerva che apparve dal capo di Giove già armata. Masaccio, Schiele e Basquiat forgiarono il proprio linguaggio e affrontarono subito il sommo quesito. Tale comune rabbia d’assoluto li condusse ad accostare il nero all’oro e li accese d’una tensione espressionista. L’inquietudine donatelliana che Masaccio agita entro la carpenteria gotica si accorda con le linee tormentate di Egon e la gestualità irruenta di Basquiat.
Nel bel museo di Reggello lo scarto dalla tradizione si palesa nelle lettere capitali romane impiegate in luogo dei consueti caratteri gotici e nell’aureola di Maria, con quei segni danzanti al confine dell’astrazione, dai quali riverbera la nostalgia di un linguaggio dimenticato. Nei dettagli si cela la speranza di un futuro concordista, come nel polittico “Toussaint l’Overture Vs. Savonarola” (1983), con il quale Basquiat accostava un eroe nero e un frate nero, Antille e Toscana. La metamorfosi delle parole in immagini e delle immagini in parole è anche quel che fa accadere Schiele, nei manifesti per la Secessione disposti sul crinale tra Ravenna e Parigi.
Nell’arco della loro breve esistenza, Tommaso, Egon e Jean-Michel compirono un pellegrinaggio alla ricerca di una sacralità non disinnescata da rassicuranti liturgie. Loro icona comune è “The Pilgrimage” (1982), nel quale Basquiat tracciò, come un’autoprofezia, quell’inspiegato “TWENTY SEVEN”. L’iscrizione è posta al centro di una croce ideale, definita da un uccello, una barca, un aereo e un vescovo a cavallo.
Antonio Rocca
Alle suggestioni proposte dall’articolo di Rocca voglio aggiungere alcune notazioni mie sul polittico di Masaccio. In particolare sull’aureola della Madonna. Vi è una scritta in arabo, pseudo cufico o naskhi, chiaramente leggibile e, per noi, rovesciata normalmente. E’ la classica professione di fede di chi crede nel Corano: “La Illah ila Allah Muhammad rasul Allah”. E cioè: “Non c’è altro Dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta”. Qs esaltazione dell’Islam e di Maometto, nella aureola di Maria, apre davvero uno straordinario e inconsueto filone di ricerca che, forse, non si è mai voluto percorrere fino in fondo. Come dimenticare che Innocenzo III, esortando i credenti alla Crociata, nel 1213 parlava e scriveva di Maometto identificandolo con la bestia dell’Apocalisse? Ancora nel 1480 il domenicano Annio da Viterbo scriveva dei “turchi saraceni” come il nemico terribile che impediva il “millennio di felicità del mondo sotto la monarchia pontificia”. Nel 1980-1985 Spallanzani, studioso di arte islamica, accennò per primo a questa scritta, con qualche dubbio, accostandola alle ben note influenze dell’arte orientale su quella italiana e toscana in particolare. “L’Islam scendeva giù dalla Spagna moresca e saliva verso il nord, dalla Sicilia araba. In più, Crociate o non Crociate, Venezia, Pisa, Genova, Amalfi, Siena e Firenze commerciavano col vicino Oriente, esportavano e importavano merci e cultura. Il commercio delle sete e delle stoffe fu sempre floridissimo ed è proprio su certe magnifiche sete e sul damascato e la mussolina provenienti da Persia, Siria e dagli altri paesi islamici del Mediterraneo che si trovavano pseudo-iscrizioni arabe con frasi perfettamente leggibili su Maometto, Allah, la grandezza di Dio e la bellezza della fede. Erano stoffe di grande prestigio e i pittori toscani del ‘300 le usarono a piene mani nei loro quadri. Se ne trovano in Giotto, Simone Martini, Lorenzetti, B. Daddi, Duccio, Beato Angelico, Paolo Uccello, Gentile da Fabriano, Pinturicchio e Filippo Lippi. Tracce saracene evidenti, lo sanno tutti, si trovano anche in pavimenti, portali, archi di chiese, finestre, anche di magnifici palazzi padronali e non solo di chiese. Per non parlare del famoso “Libro della scala di Maometto”, fatto tradurre in latino dal re Savio di Spagna e finito, di sicuro, anche in mano a Dante. Tutte queste influenze pesarono sul giovane Masaccio fino al punto di farlo decidere a utilizzare quei magnifici segni e quella superba scrittura nell’aureola della Madonna al posto del consueto gotico. Ma solo lui osò tanto. Tutti gli altri ricopiarono quelle scritte nei veli, mantelli, stoffe intorno ai troni, su certi pavimenti o sulle ampie vesti degli angeli. E’ pensabile che una scelta del genere sia stata solo frutto del caso? La scritta non è mai presente nell’aureola del Cristo, dei santi o degli angeli che lo circondano. E’ Maria la prescelta. Nel Corano Maryam, madre di Isa il Messia, è adorata allo stesso modo dei cristiani, per essere la madre del nabi Gesù, ossia di un inviato di Dio. Masaccio sapeva tutto questo? Certamente sì. Per leggere l’iscrizione, un arabo deve rovesciare la riproduzione del quadro. Oppure porsi davanti all’opera, di spalle, con uno specchietto in mano, per avere la scritta nel giusto verso di lettura. Insomma, un piccolo gioco di specchi per i colti lettori della lingua araba e strani e illeggibili segni di ornato per tutti gli altri” (Settimelli) .
Gennaro Cucciniello