Con Darwin e Leopardi ci si fa piccoli piccoli
Tanto vale esplicitare senza troppi imbarazzi i motivi di dubbio, perplessità, rovello, ma anche potenziale fascinazione suscitati dal nuovo libro di Antonella Anedda, “Le piante di Darwin e i topi di Leopardi”, un saggio-saggio, non un esercizio di poesia in prosa. Quando un autore o una autrice ti sta molto a cuore sei costretto a farlo, glielo devi.
Il succo della faccenda è questo. Tanto Leopardi quanto Darwin non credevano ad alcuna posizione privilegiata del genere umano nel cosmo e nella molteplicità delle specie. Nessuna teleologia, nessuno scopo, nessun disegno intelligente o anche solo maligno. Principio dinamico della vita sulla Terra è la trasformazione dei generi attraverso la morte degli individui: poco da stare allegri. Mai incontratisi per ragioni cronologiche, si erano forse però parlati a distanza tramite i testi di Erasmus Darwin, nonno di Charles, in cui già fermentavano idee evoluzioniste e che Giacomo Leopardi possedeva e aveva letto quasi di sicuro.
Tra i tre, nonno Erasmus, lucreziano, forse ateo, forse filo-giacobino ancorché inglese, è senza dubbio il più euforico. La straordinaria alternanza di forme che si succedono sotto il combinato disposto della causalità e della casualità (se X è evoluto in Y è perché è Z; ma poteva anche essere A, B, eccetera) lo entusiasmava invece di deprimerlo. Quanto deprimesse Leopardi, invece, questo e il rifiuto dei nuovi credenti adoratori del progresso, i cattolico-liberali del Gabinetto Vieusseux, è noto a tutti. Meno noto, e messo in luce con grande simpateticità, è quanto il dolore della singolarità pervada l’opera di Darwin (Charles), che per inciso non era affatto un fautore del cosiddetto darwinismo sociale (solo i più adatti sopravvivono, ed è giusto!) e nutriva fieri sentimenti anti-schiavisti come già suo nonno. Giusto e ingiusto, però, non intaccano mai la sostanza speculativa della sua impresa. Il mondo è tutto ciò che c’è. E lo stesso si può dire per Leopardi, salvo un maggior risentimento contro chi pretende che quella umana sia una vie en rose, o in procinto di diventarlo: stupidità e ipocrisia mescolate, e non a caso Anedda valorizza più il suo versante satirico che quello idillico, dai Puerilia alle Operette morali alle grandi poesie polemiche della maturità, attraversa con scrupolo lo Zibaldone e culmina con una appassionata lettura della Ginestra, dove Leopardi fonde in estrema e ineguagliata sintesi tutti i suoi registri e motivi.
Tutto qui? Non proprio, perché anzi il saggio, 250 pagine di analisi serrata, pullula di aneddoti, paralleli, notizie minute e pensieri abissali (allora e ancora oggi) ben alternati e piazzati. Se ne esce con gli occhi pieni di visioni, curiosità, desiderio di saperne di più in tanti campi, dalle osservazioni di sociologia della lettura (tipo: ma allora non è vero che gli intellettuali italiani non sapevano di scienza), a come certi motivi che formano la colonna vertebrale di un periodo possano migrare a volte per contatto diretto, a volte per pura rispondenza. Eppure… Insomma, il saggio di Anedda è portatore di un messaggio, che oggi purtroppo non è più eversivo come lo era in quel tempo di titani. Antispecismo, che forse si estende anche al regno minerale; e se si soffrisse perfino lì? Fischi all’antropocentrismo. Siamo fragili e caduchi. Saperlo è il nostro solo orgoglio, o meglio ancora dignità. La compassione, fortissima e teorizzata in Leopardi quanto in Darwin, è l’unico sentimento che non mente (su ciò esistono autorevolissimi pareri in disaccordo, prima e dopo; ci torniamo tra un attimo). Ora, però, è legge di natura, non c’è messaggio che non sia polemico. Si pensa sempre contro qualcuno. Contro chi pensavano Darwin e Leopardi lo sappiamo. Ma Anedda? Perché ignorare la grande impresa dell’hegelismo e del marxismo (essenza umana è ciò che si invera nel lavoro; report sugli animali in tal senso non sono pervenuti), o del pensiero negativo (Friedrich Nietzsche, che peraltro adorava Leopardi: la compassione? Ma la compassione è il più bugiardo e malvagio di tutti i sentimenti, un veleno mortale, un’accusa contro la vita, e infatti l’uomo è un animale malato). E si potrebbe continuare. Possibile che le uniche teste di turco con cui polemizzare siano quei poveracci del Gabinetto Vieusseux? E’ chiaro che con Leopardi e Darwin non c’è partita, ivi compreso l’infervorato nonno Erasmus. In sostanza: per affermare quello in cui si crede, e che tutti oggi un po’ credono, colpevolizzandosi e tirando avanti ad ansiolitici e antidepressivi, salvo gli sfruttatori più efferati, perché ritrarsi di fronte alla sfida di chi ha tentato, magari fallendo, di seguire l’altra strada?
Me lo sono chiesto a lungo, poi una risposta mi è venuta, o sembrata venire, dallo stile. Anedda è in possesso, in prosa e in poesia, di risorse stilistiche imponenti. Come mai invece questo libro è scritto in una lingua così dimessa, senza pretese, a tratti perfino un po’ pedante quando ripete concetti e immagini già detti molte volte? L’impressione che dà, e Anedda non può non saperlo, è quella di essere una buona tesi di laurea o di dottorato (testa anche la gran mole di referenze bibliografiche, non tutte di sangue blu). Non si tratterà mica di un esperimento? Perché alla sciatteria non si può credere neanche un istante. Ma un esperimento di cosa? Non c’è che lanciarsi a capofitto nel vortice delle ipotesi: un esperimento di umiltà. Su argomenti come questi –di cui peraltro Anedda è bravissima a far vibrare la corda esistenziale e non solo intellettuale- non si sdottoreggia, si posa piano un piede dopo l’altro come chi entri con timidezza in una stanza, non si mostra quanto si è facondi e a proprio agio col linguaggio. A proprio disagio, si direbbe al contrario, anche se non è buon italiano. E del resto, non è l’umiltà il contenuto più profondo e imperativo del libro? Tema e stile si sarebbero così saldati, come in genere in Anedda, nel migliore dei modi. Questo libro non è scritto bene perché non era lecito e onesto farlo. Ci avevano già pensato Darwin e Leopardi, davanti ai quali è doveroso farsi piccini. Se così fosse, sarebbe ancora una volta un risultato non da poco.
Daniele Giglioli
Questo articolo, interessante ma meschinamente ambiguo, è pubblicato ne “La Lettura” del 2 gennaio 2023, supplemento culturale del Corriere della Sera, a pag. 15.