“Spoon River”, Il pianto della collina

Spoon River”, Il pianto della collina

L’Antologia di Edgar Lee Masters, celebre libro di poesia.

 

Si tratta del libro di poesia contemporanea forse più conosciuto al mondo, e dunque, a tutti gli effetti, di un mito, che come tale possiede anche qualcosa che esula dalla ragionevolezza, da ciò che può essere spiegato attraverso i parametri consueti, e perfino, quasi finisse per mandarlo un po’ in crisi, dal cosiddetto giudizio estetico.

Lo stesso Lee Masters tentò più volte di rendere ragione, forse anzitutto a se stesso, dello straordinario successo che fin da subito arrise a questa sua opera, addirittura già prima della sua stessa pubblicazione (la prima edizione è del 1915, la seconda e definitiva del 1916). Nella primavera del 1914, infatti, quando già da parecchi anni esercitava l’avvocatura a Chicago, aveva cominciato a pubblicare sotto pseudonimo su un settimanale di St. Louis, il “Reedy’s Mirror”, le poesie che di lì a pochi mesi sarebbero confluite nell’Antologia. Ma il consenso e di conseguenza l’interesse dei lettori erano stati così forti da spingerlo a rivelare la sua vera identità. E questo straordinario successo di pubblico non si sarebbe più fermato, allargandosi anzi a macchia d’olio via via che sempre nuove traduzioni rendevano disponibile il libro nel mondo intero.

Eppure le opinioni della critica, diciamo così, professionale sono state sempre molto contrastanti al riguardo, cioè divise tra l’esaltazione trionfalistica e, più spesso, il contenimento, se non la denigrazione, in quest’ultimo caso dando a volte l’impressione, però, che il giudizio sul valore intrinseco delle poesie fosse in qualche misura condizionato dalla constatazione, e in fondo dal problema, dello stupefacente successo del volume, volta a volta accusato di essere trascurato stilisticamente, sciatto e prosastico, metricamente arbitrario (è scritto sostanzialmente in verso libero), piattamente realistico, scadente dal punto di vista linguistico, limitato dal punto di vista concettuale e filosofico, e tant’altro. Di fatto nel canone ufficiale dei grandi poeti statunitensi del ‘900 Lee Masters non c’è, non nei primi posti almeno. Ci sono invece Robert Frost, Wallace Stevens, William Carlos Williams, oppure gli espatriati T.S. Eliot e Ezra Pound, e magari qualche altro con loro. E, del resto, anche Lee Masters rimase sempre piuttosto perplesso riguardo alle vie imperscrutabili della letteratura e al singolare, misterioso destino della sua celebre raccolta. Scrisse moltissimo, infatti, ed era convinto che alcune sue opere di poesia le fossero indiscutibilmente superiori. Lee Masters morì praticamente in miseria nel 1950, come se la sua creatura poetica avesse finito per oscurarlo, rubandogli non solo il palcoscenico ma la vita stessa.

Anche in Italia la fortuna dell’Antologia di Spoon River è stata, non può dirsi diversamente, straordinaria. Detto altrimenti –il caso tende all’unicità- è una raccolta di poesia che sempre, costantemente continua a venire acquistata. Le traduzioni si sono moltiplicate. La prima nacque per la casa editrice Einaudi, sotto gli auspici di Cesare Pavese, per mano di Fernanda Pivano, in una scelta parziale nel 1943, quindi integralmente nel 1947. Poi va ricordato ovviamente “Non al denaro non all’amore né al cielo”, l’album di Fabrizio De André, uscito nel 1971 e ispirato direttamente dai personaggi delle poesie. Poi per Mondadori uscì nel 1987 la traduzione di Antonio Porta, vale a dire un poeta di qualità.

Sorvolando su altri episodi che in realtà andrebbero ricordati, si fa notare adesso per accuratezza e organicità “L’Antologia di Spoon River” tradotta e commentata per La Nave di Teseo da Alberto Cristofori, che nella sua bella introduzione riflette con equilibrio sui pro e i contro di quest’opera dalle vicissitudini così eccezionali. Può essere fruttuoso comparare anche le diverse traduzioni, che risulteranno tutto sommato piuttosto simili. Questo a dire di come e quanto il discorso poetico di Lee Masters, che è sempre diretto e comunicativo, privo d’immagini di particolare densità e autonomia, sia essenzialmente una questione di voce e di respiro, di andamento volta a volta legato a questo o quel personaggio.

Dell’Antologia possono darsi sostanzialmente due letture diverse, che è giusto e produttivo far convivere in qualche misura. Una più attenta all’aspetto storico e sociale, ai contenuti determinati e dunque alla comunità dei parlanti che si rappresenta, personaggio dopo personaggio, recitando direttamente il proprio epitaffio. E sono allora, sempre e comunque con i loro nomi, le donne e gli uomini presi in un’infinità di mestieri, di caratteri, di passioni e rancori, di rovelli e contrasti, attraverso cui il microcosmo di una piccola comunità di provincia risulta poi una grande visione, insieme critica e nostalgica, dell’intera società americana e della sua storia.

Eppure quest’interpretazione, di per sé senz’altro legittima, se assunta come il carattere primo e ultimo del libro, finisce per assomigliare alla scorza realistica di una poesia che in mente ha altro: un discorso non sulla storia o sulla società, bensì sull’umano destino o, detto altrimenti, sulla comune condizione umana. E’ stato notato tante volte, ma vale la pena ripeterlo: i personaggi, pur tra loro così diversi e spesso in conflitto, sono però tutti dalla stessa parte, parlano dal regno dei morti, e dunque non solo da un punto di vista ultimo e definitivo, ma da una condizione che è la stessa per tutti. La morte, perché di questo poi si tratta, ha messo tutti quanti in pari. E proprio come quando si attraversa un cimitero (e l’Antologia è esattamente una lunga sequenza di epigrafi), leggendo queste poesie si è sempre accompagnati dal sentimento di una splendida e terribile, e certo comune, irrevocabilità, come una specie di ultima giustizia. Così facendo Lee Masters si è riallacciato direttamente non solo alle scaturigini della letteratura occidentale, ai classici, all’Antologia palatina, a Dante, ma anche alle più profonde aspirazioni e paure della nostra antropologia. La poesia nasce quasi sempre di lì. Giovanni Pascoli, che delle voci dei morti e di poesia s’intendeva come pochissimi altri, giusto a proposito della Commedia dantesca ha scritto: “Nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere con i morti”.

 

                                                        Roberto Galaverni

Questo articolo è stato pubblicato, a pag. 21, ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera del 27 /11 / 2022