Il governo di Siena. L’utopia della bellezza.
Nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti (1338) il bene della città prevale sulle ambizioni dei singoli.
Ne “La Lettura” del 24 luglio 2022, supplemento culturale del Corriere della Sera, a pag. 11 c’è un’analisi di Amedeo Feniello sul saggio interessantissimo della storica Gabriella Piccinni.
A Siena, nel palazzo del Comune, in una sala di potente suggestione, come in uno specchio, si fronteggiano due universi. Appaiono, l’una contro l’altra, le forme del buono e del cattivo governo. Un messaggio oppositivo e simmetrico, come avverte oggi nel volume di straordinaria ricchezza, “Operazione Buon Governo. Un laboratorio di comunicazione politica nell’Italia del Trecento”, (Einaudi, pp. 323, € 55), la storica Gabriella Piccinni, dove affiora una netta bipartizione concettuale del contenuto. Affresco che la gente del Medioevo non chiamò, come siamo abituati oggi, il Buongoverno, ma, per tutti, era il dipinto della pace e della guerra, dove, da un lato, scorre l’universo della vita e le mercatantie vanno con grande sicurtà; dall’altro, la dimensione del conflitto, fatto solo di storsioni, cioè distorsioni, economiche, sociali e politiche. Un ambito di decadenza e di morte. E nulla più.
L’autore di questa opera monumentale fu un figlio di Siena stessa, Ambrogio Lorenzetti, che visse in profondità quel periodo di chiaroscuri che fu il primo Trecento italiano, quando, non solo qui, si alternarono momenti di splendido fulgore e repentine cadute, fino allo shock della peste nera del 1348 che, a Siena come altrove, mieté migliaia di vittime, tra cui lo stesso Lorenzetti. L’autrice è ben consapevole che quest’opera racchiude una foresta di significati, così da formare una sinfonia pittorica, una poesia per pittura, dove alla rappresentazione reale si accompagnano una successione di allegorie, sempre oppositive, che vanno dall’immagine positiva della securitas, la sicurezza politica, economica e sociale, rappresentata come una giovane alata e seminuda (fra le prime allegorie nude in pittura), sino al contrasto con l’immagine della Tirannide, una grande figura demoniaca, dal volto contratto, gli occhi strabici, le zanne vistose, la testa cornuta. Poesia per pittura che doveva ammaestrare anche attraverso il ricorso alla scrittura, con cartigli, medaglioni e cornici scritte in minuscola gotica distribuite in segmenti anch’essi specularmente opposti, che divengono parte integrante degli affreschi pittorici.
Le interpretazioni su questo affresco si sono succedute nel tempo. Ma la Piccinni coglie l’occasione per narrare qualcosa di molto più sensibile e concreto. Non descrive semplicemente l’enorme palinsesto artistico, ma cala la pittura nella vicenda trecentesca senese, con un percorso interpretativo dalle molteplici chiavi di lettura. Comincia allora una sorta di viaggio immersivo in una città che è una contraddizione in termini, vittima di un gigantismo che l’aveva proiettata su scala europea come principale centro finanziario –ben prima degli sviluppi di Firenze-; per poi vedere ridimensionato questo ruolo, in un’altalena di brevi periodi di ripresa e di nuovi tracolli, dopo il crac del potentissimo clan bancario dei Bonsignori, nella prima decade del secolo. Una società che non riesce a pacificarsi, che trova nel governo dei Nove, espressione dei ceti più attivi, “i mercanti della mezza gente”, il perno di un’azione politica destinata sì alla sconfitta, ma alla ricerca di stabilità, di equilibrio sociale e, soprattutto, di fluidità di relazione tra i contesti economici, da ricercare tanto nel mondo del lavoro come tra ambito cittadino e produttive campagne circostanti.
Nasce così l’affresco, completato nel 1338, con un’operazione multifocale assai raffinata dal punto di vista della comunicazione politica. Operazione che fu affidata proprio a un senese come Ambrogio, che ben doveva conoscere, e verosimilmente aderire, al programma di governo. Egli fu chiamato a esporre i tratti di un’utopia politica proponendola come realizzabile nei fatti e trasponendola in un racconto dotato di credibilità. Con quale tema di fondo? Che per governare bisognasse superare gli egoismi, forieri di conflitto, e cercare il consenso, che è invece pacificatore. Ci sarebbe voluto in concreto uno sforzo titanico e difficilissimo per raggiungere questi obiettivi, che comunque vennero espressi tramite un’opera dall’alto tasso propagandistico: a conferma di una scelta costituzionale e di fiducia verso il programma politico espresso dal governo dei Nove, esibita in un affresco straordinario in grado di narrare “il benessere che può essere garantito dalla realizzazione del bene collettivo e negato dall’azione dell’interesse personale”.
Da questi aspetti deriva l’affascinante intuizione della Piccinni che il Buongoverno non va considerato come l’opera di un solo autore ma di una gamma di interpreti, di suggeritori, di committenti che si trasformano in un unico soggetto operante, capace di costruire insieme la sostanza concettuale del dipinto. Siamo dinanzi, insomma, al prodotto di un intero ceto di governo, consapevole soprattutto riguardo a uno dei principali ideali espressi in esso, la bellezza urbana concepita come cardine dell’azione politica, in cui la forma del paesaggio cittadino si riteneva dovesse trarre ispirazione da un intervento progettuale di governo: non solo “gli edifici imponenti che si affacciavano sui grandi spazi monumentali, ma anche ogni abitazione”, pure la più minuta o umile, avrebbe dovuto infatti, nell’idea dei reggitori, adeguarsi a questi principi regolatori generali. Un senso di bellezza, in definitiva, esaltato e promosso dalla politica, capace di generare un sentimento di appartenenza e di orgoglio municipale. Un grande –e, riuscitissimo, vista l’odierna bellezza di Siena- messaggio di civiltà, che ci piacerebbe fosse recuperato oggi dalla politica in Italia e in Europa.
Amedeo Feniello Gabriella Piccinni