L’orologio di Dante nella “Commedia”. Inferno, ore 18.

L’orologio di Dante. Inferno, ore 18

Il pellegrinaggio ultramondano del poeta è scandito da orari precisi. Ed è lui stesso a disseminare gli indizi.

 

Nel “Robinson di Repubblica” del 18 marzo 2023, alle pp. 2-5, è pubblicato un suggestivo articolo dello studioso Gioachino Chiarini.

 

Come mai, nella Divina Commedia, troviamo tante descrizioni astronomiche, tanta insistenza sui movimenti e la posizione del sole e della luna in un determinato momento, frequenti suggerimenti sulla reciproca disposizione spaziale dei personaggi coinvolti in una determinata scena? Uniti alla bravura dell’autore nel descrivere incontri in cui Dante personaggio dialoga con anime condannate a stare in movimento continuo, se non addirittura scene di danza, ricorrendo per similitudine persino al funzionamento degli orologi meccanici?

Un poema di cento canti e oltre quattordicimila versi (meno dell’Iliade, ma di più dell’Odissea e ben di più dell’Eneide) poteva difficilmente aspirare a un armonico equilibrio tra forma e contenuto senza una preventiva, minuziosa, scrupolosa progettazione da parte dell’autore. E così certamente fu, se ha ragione Manfred Hardt a sostenere, per esempio, che un legame numerico significativo spesso viene a stabilirsi tra alcuni temi della Commedia (Cristo in rapporto alla Croce), il numero di un determinato canto, il numero di determinati versi al suo interno. Al punto da costringerci a immaginare che la definizione di tale legame in quei precisi versi e non in altri debba spesso aver preceduto la stesura effettiva del canto, come pure la sua ripetizione, dopo ampia campata, da una cantica all’altra.

Ma il problema è che la stragrande maggioranza dei diagrammi, dei disegni e dei dipinti relativi alla Commedia di qualsiasi epoca rappresentano i tre Regni attraversati da Dante con le sue rispettive guide dando a ciascuno una forma verticale, ovvero, dettagliata o sintetica che sia, eseguita in sezione, nella quale spazio e tempo non si incontrano mai, ma restano separati. Mostrano (o semplicemente indicano) scene relative a un determinato Cerchio o Cornice o Cielo (“qui avviene questo e questo”) ma non mostrano mai in che tratto del Cerchio, o Cornice, o Cielo, come pure da che ora a che ora abbiano luogo tali scene nelle intenzioni dell’autore e se varia la loro durata.

Il viaggio di dante nel Triregno inizia nel tempo umano attorno alle 6 di mattina del primo giorno ed esce dal tempo umano alle 6 di sera (le nostre 18) del settimo giorno, quando entra nella dimensione unificante, fuori dello spazio e del tempo, dell’Empireo. E’ questo un quadro di partenza che possiamo tenere per acquisito, essendovi una notevole concordia tra le letture più attente del poema. Seguiamo ora Dante personaggio nella sua traversata di ciascun Regno.

Scenari del pellegrinaggio e simbologie celesti.

Il viaggio, o pellegrinaggio, ultramondano di Dante e delle sue guide avviene in tre successive fasi: la prima di allontanamento da Dio, la seconda di riavvicinamento a Dio, la terza di ulteriore avvicinamento, che culmina nella visione di Dio stesso.

I Cieli che scandiscono l’ascesa all’Empireo di Dante e Beatrice sono immaginati, come lo erano ormai da millenni, a sfere concentriche, sul modello mesopotamico: la struttura nella sequenza prevista dall’ordine detto caldeo (dalla Luna a Saturno con il Sole al centro della scala) era sostanzialmente identica ai tempi di Dante a quella accolta dai greco-latini e dopo di loro dagli arabi. Sin dai Sumeri dalla forma celeste si era tentato di dedurre e pian piano definire per analogiam quella di un Aldilà invisibile immaginato inizialmente come un inferno, preferibilmente ma non sempre sotterraneo: sette terre, sette intercapedini o spazi delimitati, accessibili ciascuno da una sua specifica porta d’ingresso e, col passare dei secoli e millenni, tutti alfine convergenti in un comune vuoto circolare concentrico a forma di imbuto rovesciato.

Spinti dalla necessità, scientifica e religiosa insieme, di avvicinarsi il più possibile anche materialmente al Cielo, i mesopotamici presero ben presto a costruire torri terrazzate a gradoni sempre più numerosi (tre, quattro, cinque) finché nel 606 a.C. il re neobabilonese Nabucodonosor II, portando a termine un’iniziativa del padre, poté consacrarne una a sette gradoni (detta Etemenanki: Casa delle Fondamenta della Terra e del Cielo), con ciascuna cornice dedicata al culto del corrispondete pianeta e della divinità a esso legata. Sull’ultimo ripiano, il più in alto, un tempio dedicato a Marduk e ad altre divinità celesti (con ogni probabilità la Luna) fungeva da osservatorio astronomico.

Fu da questa o simile altra torre (la biblica torre di Babele?) che nel Medioevo la cultura araba trasse l’immagine di un Paradiso esclusivo per i maomettani che in vita fossero stati fedeli al Corano, luogo di ogni delizia, anche carnale. A mio avviso fu proprio dalla forma di questo Paradiso esclusivo a sette ripiani, o cornici, circolari e concentrici che Dante, oltre ad adottare l’immagine ormai universale a sfere concentriche dei Cieli e trarre quella degli inferi, dedusse (ricavandone l’immagine dal racconto popolare anonimo “Il Libro della Scala di Maometto”, VIII secolo d.C.) la struttura a ziggurat del suo Purgatorio: per gli arabi i suoi sette Giardini, cioè Cieli paradisiaci, stanno oltre le orbite dei sette pianeti, giungendo sino ai piedi del Trono di Allah.

Su tali basi Dante costruì le simmetrie, ineccepibili ma assolutamente uniche e sue, del cosmo che, per distinguerlo da tutti gli altri, chiamiamo teologico, muovendo dalla centralità, voluta dal Dio dell’Antico Testamento, di Gerusalemme (con al proprio centro ideale il Calvario: verso la chiusura dell’ultimo canto dell’Inferno Virgilio rivela a Dante che egli si trova in quel momento nell’altro emisfero, “ch’è contrapposto a quel che la gran secca (l’insieme delle terre emerse)/ coverchia, e sotto il cui colmo consunto / fu l’uom che nacque e visse sanza pecca”, Inf. XXXIV, 112-115, cioè nell’emisfero boreale).

In particolare, l’idea di porre specularmente, cioè agli antipodi delle terre emerse, il Monte del Purgatorio come luogo di passaggio obbligato per la purgazione delle anime anche all’ultimo pentitesi potrebbe essere stata suggerita da un celebre passo del “De coelo et mundo”, libro II, attribuito ad Aristotele, quello in cui si afferma che l’emisfero australe è dalla parte buona del cielo, poiché è lì che il Sole sorge da destra: concetto sottolineato con particolare vigore nel corso della seconda Cantica.

Il modello dei modelli: l’Eneide.

Ci si può chiedere a questo punto se il modello dei modelli di Dante, l’Eneide di Virgilio, offrisse qualche ulteriore argomento a quest’idea unificante di concentricità circolare, se pur ogni volta variata e specificamente temperata nell’applicazione a ciascuna delle tre Cantiche. Intanto, ci corre incontro, nel testo virgiliano, il celebre passo in cui, nel VI libro, il poeta dichiara che le anime dei trapassati son costrette e chiuse nell’Ade dalle nove spire della palude stigia: “Noviens Styx interfusa coercet” (VI, 439). Di certo Dante non ignorava che il commento tardo antico di Servio interpretava quei “nove anelli (concentrici) delle acque dello Stige” in chiave neoplatonica come un riferimento ai nove cieli (incluso dunque il Primo Mobile) che girano intorno alla Terra e costituiscono la scala che compiono le anime scendendo attraverso le porte della Galassia nella generazione terrena e risalendovi (avendolo meritato) dopo la separazione dal corpo.

Di tale credenza, che contava significativi precedenti nella simbologia dell’Antro delle Ninfe del canto XIII dell’Odissea, Dante trovava una conferma dettagliata nell’Eneide medesima, nella quale il periclitante viaggio di Enea da Antandro, il porto di Troia, alle foci del Tevere, non lontano da dove un giorno sorgerà Roma, è narrato come si trattasse di una discesa planetaria (dell’anima) di cielo in cielo e d’una successiva risalita: da Saturno, che simbolicamente chiude la guerra di Troia e inaugura il dopo, sino alla Terra.

Di questa perla speculativa (il viaggio di Enea interpretato come una discesa e risalita celesti), abilmente nascosta negli esametri del poema virgiliano, Dante fu uno dei pochi o forse per secoli l’unico ad accorgersi: come comprova il fatto che nella terza Cantica la caratterizzazione dei beati incontrati da Dante personaggio di cielo in cielo non è più o non tanto quella medievale che collegava ciascun pianeta a una distinta tra le sette Arti liberali (Convivio II, xiii), bensì in larga misura virgiliana e antica: in riferimento diretto cioè, secondo il modo dei grandi poemi dell’antichità, alle caratteristiche visibili di ciascun pianeta e ai significati o valori simbolici su quella base concordemente assegnati dagli astrologi.

Una precisa metrica simbolica

Una volta stabilita la coassialità dei Tre Regni, andava fissata, per ambientarvi con successo gli spostamenti di Dante personaggio, anche una precisa metrica simbolica delle distanze di ciacun Cerchio, Girone, Cornice o Cielo, coi rispettivi abitatori, nei confronti di Dio. Anche in questo sono prevalse scelte celesti, cioè in qualche misura visibili e conosciute.

Regolandosi sulla diversa ampiezza e vastità dei Cieli e sull’economia dello spazio-tempo a disposizione in rapporto alle tappe che ne avrebbero scandito l’itinerario, Dante stabilì, per l’Inferno, due tipi di permanenza da utilizzare lungo il cammino, immaginando che le viste ai dannati dovessero essere di circa due ore per ciascuna diversa pena sino a metà Cantica (entro il Canto XVII), di un’ora e mezza nella restante metà. Le due ore sono quelle necessarie al Sole per attraversare un dodicesimo dei 360 gradi dell’orizzonte (cioè 30 gradi circolari), proprietà assegnata ancora oggi a ogni singolo segno zodiacale; mentre un’ora e mezza è il tempo necessario al Sole per compiere un tratto di 22 gradi e mezzo, equivalenti a un quarto di quadrante: si può definire la durata di due ore, zodiacale, quella di un’ora e mezza, planetaria.

Nell’Inferno è dunque tutta una discesa, misurata sui percorsi più o meno inclinati (segmenti di Cerchio o di Girone) attraversati da Dante e Virgilio tenendo la propria sinistra (in armonia con i movimenti del Sole nell’emisfero settentrionale), e su quello verticale lungo l’asse Calvario-Lucifero nel passare, al termine della Cantica, da un emisfero all’altro (tutti spostamenti significativi sul piano della conoscenza diretta di ciascun peccato e della relativa pena). I movimenti radiali da un Cerchio o Girone al successivo non sembrano richiedere invece alcuna misurazione di tempo. E poiché l’autore ha previsto nell’Inferno anche discese tenendo la destra (dunque in direzione contraria al movimento del Sole), ne deriva che tali discese vengono misurate come fossero in controtempo, regressive, all’indietro, in senso antiorario. Tutta questa organizzazione spazio-temporale era tenuta da Dante autore sotto controllo grazie alla geniale idea di applicare alle mappe circolari viste dall’alto, in una sorta di controluce virtuale, il quadrante, circolare anch’esso, di un orologio meccanico, novità emergente dell’epoca, a ore e frazioni di ora tutte uguali.

L’orologio dantesco.

L’operazione riuscì agevolata dal fatto che l’orologio meccanico poteva essere interpretato, ed è proprio questo che Dante fece, come dotato di un quadrante suddiviso in quattro quadranti che allineasse sullo stesso asse –cioè agli estremi opposti del diametro orizzontale- la mattina e la sera, e agli estremi opposti di quello verticale il mezzogiorno e la mezzanotte: il che equivaleva per Dante all’immagine di una croce greca (“il venerabil segno / che fan giunture di quadranti in tondo”, Par, XIV, 101 e sg), e a sua volta significava leggere la mappa circolare di ciascuno dei tre Regni, a cominciare proprio da quella dell’Inferno, come fondata su una croce virtuale, segno indiscutibile che persino in quel luogo di crescente lontananza da Dio la giustizia e la volontà di Dio vigevano come in ogni altra parte dell’Universo.

Nell’insieme, l’applicazione di tempi zodiacali e loro multipli nel Paradiso e di tempi planetari e loro frazioni nell’Inferno intende sottolineare la progressiva, crescente distanza dei dannati da Dio, mentre l’applicazione ribaltata che ne viene fatta nell’ascesa del Monte del Purgatorio implica un progressivo, crescente avvicinamento a Dio, che trova pieno compimento nell’assunzione che caratterizza l’ascesa di Dante al Cristallino e all’Empireo attraverso i cieli dei pianeti prima e in quello dei segni zodiacali poi.

In tutto questo hanno un ruolo capitale le descrizioni astronomiche, le quali però esigono una grande circospezione da parte del lettore. Nell’Inferno il solo a vedere le congiunture astronomiche momento per momento è Virgilio, il quale sembra farvi regolarmente ricorso paventando ritardi (ad esempio della luna rispetto al sole) come strumento psicologico elementare per indurre Dante, che non ha modo di valutarne l’esattezza, a non ritardare i tempi loro concessi per la permanenza in quel singolo Cerchio o Girone: si pensi a quando i due pellegrini devono scendere nella Bolgia Quinta, dei Barattieri, e Virgilio ricorda che il plenilunio è già stato la notte precedente e dunque, è sottinteso, si rischia un ritardo di ben 50 minuti per la visita a quella Bolgia; oppure quando Virgilio afferma che il tempo per la Nona Bolgia è scaduto (“già la luna è sotto i nostri piedi”: anche qui, saremmo in ritardo rispetto al Sole, inizio di Inferno, XXIX) e resta ancora la Decima da visitare.

Del resto, al poeta latino preme allo stesso modo di non anticiparli, i tempi prestabiliti: si pensi alla sosta presso la tomba di Papa Anastasio II (inizio di Inferno, XI), o la visita agli Usurai suggerita a Dante da Virgilio prima della definitiva discesa in Malebolge in groppa a Gerione (fine di Inferno, XVII, proprio lì dove Virgilio e Dante, a mezzanotte, riprendono a scendere tenendo definitivamente la sinistra). Nel Paradiso non ci sono più brevi recuperabili ritardi (né arretramenti controtempo), ma tempi esatti di permanenza in ciascun Cielo inframezzati da istantanee assunzioni verticali. E in ogni nuovo Cielo, una luce sempre crescente, con sempre più musica, più danza, più canto: tutto un sinergico moltiplicarsi di elementi serenamente e misticamente entusiastici, di cui Dante può eccezionalmente godere per grazia momentanea: ogni senso e percezione esigono facoltà sovrumane sempre crescenti, sino al culmine di un’intuizione finale nell’Empireo, Cielo di pura luce, che riguarda, di certo, una qualche forma mediata e cangiante della Trinità, e poi, per un istante, il volto stesso di Cristo: “Ne la profonda e chiara sussistenza / de l’alto lume parvemi tre giri / di tre colori e d’una contenenza;/ e l’un da l’altro come iri da iri / parea riflesso, e il terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente spiri // (…) O luce etterna che sola in te sidi,/ sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!/ Quella circulazion che sì concetta / pareva in te come lume riflesso,/ da li occhi miei alquanto circunspetta,/ dentro da sé, del suo colore stesso,/ mi parve pinta de la nostra effige:/ per che ‘l mio viso in lei tutto era messo” (Par, XXXIII, 115-132).

 

                                                        Gioachino Chiarini

 

Gioachino Chiarini (Venezia, 1945) ha insegnato nelle università di Pisa, Venezia e Siena. Questo suo ultimo libro è in attesa di pubblicazione.