Gentile. La filosofia al servizio del Duce.
Opportunista, assetato di potere, organico fino alla fine. Mimmo Franzinelli traccia un ritratto impietoso del teorico del fascismo.
“La storia è un insieme di menzogne su cui ci si è messi d’accordo”, pare amasse ripetere Napoleone Bonaparte. Se in questa affermazione c’è almeno un po’ di verità, a Mimmo Franzinelli va riconosciuto una parte di merito nel far saltare il banco degli accomodamenti convenzionali e di non poche pacifiche verità che puntellano il quadro d’insieme della storiografia italiana contemporanea.
“Il filosofo in camicia nera. Giovanni Gentile e gli intellettuali di Mussolini” (Mondadori) segna per Franzinelli il ritorno a una linea d’analisi già sfiorata, quella del rapporto fra gli intellettuali e il duce, dopo aver stracciato più di un santino storiografico, dal Ventennio alle molte ferite della Repubblica. Già nel titolo l’astrattezza della speculazione filosofica stride con la plumbea concretezza della camicia nera: inevitabile partire da questo inedito, a tratti sconcertante, ritratto del filosofo di Castelvetrano.
Dunque Gentile fu un compagno di strada in camicia nera del duce?
La figura di Gentile è stata nel tempo defascistizzata, neutralizzata. Troppo spesso rappresentato come vittima, paciosa e imbelle, si è posto l’accento sulla viltà dell’uccisione, avallando così un implicito processo alla Resistenza. Questo Gentile non ha nulla a che vedere con il personaggio storico. Il suo rapporto con il duce fu totalmente asimmetrico, costellato di lettere servili, di piaggeria; amore incondizionato ma anche rapporto del padrone col servo, fondato su reciproca convenienza. Con un convitato di pietra, Benedetto Croce, la cui ostilità era il rovello del duce. La sponda che Mussolini, contro Croce, presta a Gentile offrì al regime un’agognata verniciatura culturale. Gentile fu ripagato con una carriera sfolgorante.
Sintonia politica, quindi, ma anche brama di onori?
Gentile ebbe in mano la Normale di Pisa, la Treccani. Fece incetta di gettoni e presidenze onorarie. D’altra parte, fu senza dubbio il maggiore organizzatore di cultura del ventennio: la sua intelligenza e abilità furono tali da attrarre i cervelli migliori del tempo, entro un disegno egemonico concordato direttamente con Mussolini, compreso il reclutamento di antifascisti nel progetto dell’Enciclopedia Italiana. Si rideva delle critiche dei settori radicali del regime. Il suo capolavoro fu il giuramento di fedeltà al fascismo imposto ai professori universitari nel 1931. Di pari passo al consolidarsi del regime, Gentile perfezionò una formidabile zattera su cui imbarcare frotte di ex crociani pentiti, che avevano aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925, traghettandole nell’ufficialità del regime.
Sembrano essere due soltanto i momenti in cui la sua fedeltà a Mussolini vacilla.
Nel 1924, dopo il delitto Matteotti, Gentile, come molti, dà Mussolini per finito ed esce dal governo. Ma il regime regge. Allora rientra nei ranghi e scrive al duce, dopo il discorso del 3 gennaio 1925: “Il Paese tutto si sveglia e torna a Lei”. Con il Paese, torna anche Gentile. La caduta di Mussolini nel 1943 lo prende alla sprovvista; monarchico, crede di individuare un suo uomo nel governo Badoglio, il ministro Leonardo Severi, che soffoca di raccomandazioni. Severi gli risponde accusandolo di avere asservito l’Italia alla dittatura e rende pubblica la lettera. L’immagine di Gentile è compromessa. Quando nel novembre del ’43 accetta di presiedere l’Accademia d’Italia è accecato dal desiderio di tornare a capo dell’Enciclopedia Italiana. Il duce, naturalmente, fa ponti d’oro.
Non più un Gentile ingenuo e pacioso, ma un volenteroso edificatore.
Gentile fu tutto fuor che un ingenuo. Era un uomo di potere, che puntò tutto su Mussolini, convinto che si dovesse cooperare tutti assieme per il fascismo, che era la Patria, la Nazione, ed avrebbe vinto. Carlo Morandi scriverà di Gentile che aveva finito col perdere ogni senso morale arrivando a giustificare “le torture inflitte ai miei allievi in carcere”. Contribuì ad edificare la dittatura dall’interno, con volontarietà e consapevolezza. Quando il 5 ottobre 1935 inizia la campagna d’Abissinia, mentre la retorica bellicista impazza nei suoi discorsi, briga in privato con Mussolini: alla fine, in Africa, i suoi figli non andranno. Il filosofo ebreo Karl Lowith dirà che solo la mancanza di serietà rendeva tollerabile il suo bellicismo.
Quale ruolo ebbe Gentile nella politica razziale del duce?
La vulgata esemplifica così il suo atteggiamento: omissivo in pubblico, soccorrevole in privato. Falso. Nel 1939 l’editrice Sansoni, di proprietà della famiglia Gentile, pubblica “Che cosa è la Massoneria?” di Francesco Gaeta. Il libro è del 1915 e su “La Critica” Croce lo descrive come il frutto di una mente malata, scagliandosi contro l’editore, cioè contro l’ex amico, per aver avallato un tale delirio antisemita. Il 3 aprile 1936, presidente dell’Istituto Fascista di Cultura, Gentile organizza e introduce la conferenza del ministro del Reich Hans Frank sulle radici naziste del nazismo: Gentile era organicamente inquadrato, e ben per tempo, nel meccanismo politico che porterà allo sterminio.
Che parte ebbe il figlio Federico nel tragico epilogo?
Federico, fedele all’ideale paterno, si era arruolato volontario e, dopo l’8 settembre 1943, era stato internato in Francia. Gentile è disperato, per liberarlo smuove il Pontefice, preme sulle autorità tedesche. Alla fine è Mussolini a offrire il proprio intervento, ma Preziosi e Pavolini, intimi dei tedeschi, lavorano in senso opposto, timorosi che Gentile possa orientare alla moderazione il duce. Compreso di essere divenuto uno strumento di pressione, tenta l’ultima mossa: l’esplicito abbraccio al “Condottiero della grande Germania”. E’ così che, con il discorso del 19 marzo 1944, si rende chiaramente identificabile come nemico della Resistenza.
Qual è, in conclusione, la chiave del suo omicidio?
Sulla morte di Gentile si è ricamato fin troppo, evocando un’infinità di piste: i fascisti, i comunisti, Mosca, Togliatti, i servizi: tutti e nessuno. Fuori da ogni dietrologia, credo che il delitto sia maturato nell’ambiente antifascista fiorentino. A Gentile non sfuggiva il clima da guerra civile del Paese, che pure sottovalutò. Convinto che il rapporto diretto con il potere lo immunizzasse, rinnovò i propri voti di fedeltà al fascismo e al nazismo entrando nel mirino degli antifascisti. Croce lo descrive come un Faust che finisce “vittima di quelle forze alle quali aveva dato l’anima sua”. Smarrì, nel cupo orizzonte della Repubblica Sociale, libertà e autonomia intellettuale, bruciate al fuoco del carisma di Mussolini, sole ingannatore, per Gentile non meno che per il popolo italiano.
Ennio Bruschi Mimmo Franzinelli
L’articolo è pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 28 maggio 2021, alle pp. 118-119.