“Cold case in Usa”. 1957. Il ragazzo in una scatola.

Tutta la vita in una scatola. Cold case in Usa.

Per 65 anni è stato soltanto “il ragazzo nella scatola”. Un corpicino di 4 anni trovato a Philadelphia il 25 febbraio 1957.

 

L’articolo di Marco Bruna è pubblicato ne “La Lettura” del 15 gennaio 2023, supplemento culturale del Corriere della Sera, alle pp. 36-37.

 

Sembrava una bambola”, ricordò 50 anni dopo l’agente della polizia di Philadelphia Elmer Palmer, il primo ad arrivare sulla scena del crimine. Fu lui a precipitarsi in auto in quella zona boscosa della città.

Faceva ancora molto freddo il 26 febbraio 1957. Il centralino registrò la telefonata di uno studente del college: “C’è un corpo abbandonato in una scatola, sul bordo della strada”. Prima di allertare gli agenti, il ragazzo, studente alla La Salle University, aspettò un giorno. Innanzitutto confidò la sua scoperta devastante a un prete, il primo modo che gli venne in mente per liberarsi da quell’incubo e dallo shock. Agli agenti disse che si trovava da quelle parti per controllare alcune trappole per conigli. Qualcuno ipotizzò che andasse lì a spiare le ragazze di un vicino centro di correzione.

“Sembrava una bambola”, fu la prima cosa che pensò l’agente Palmer quando, incredulo, scoprì cosa conteneva quella scatola adagiata nel silenzio dei boschi tra Verree e Susquehanna Road. La gente del luogo utilizzava quelle aree per scaricare rifiuti abusivi. Sul terreno c’era di tutto. Oggi, al posto dell’immondizia, sono stati costruiti piccoli condomini a schiera. Lì, dove un tempo giaceva il corpo senza vita di un bambino che poteva avere tra i 4 e i 6 anni, si trova il vialetto di accesso che porta a una casa dove forse vive una famiglia con bambini.

Dopo essere sceso dalla macchina, Palmer notò subito una scatola rettangolare tra le sterpaglie. Sopra c’era stampata la scritta “Fragile. Non aprire con il coltello”. Da uno dei lati, rimasto socchiuso, spuntavano una testa e la parte di una spalla. Le dimensioni minute fecero pensare subito al corpo di un bambino o di una bambina. Palmer ne era certo, anche a qualche metro di distanza.

Non era affatto una bambola.

Era morto ormai da giorni. Per 65 anni, fino alla sorprendente svolta nelle indagini annunciata un mese fa, l’8 dicembre, sarebbe stato soprannominato Boy in the Box, il ragazzo nella scatola, il bambino senza nome, senza una famiglia, senza una storia. Era il bambino abbandonato in un contenitore di cartone che l’America si trovava davanti quando chiudeva gli occhi. Era il bambino che ogni famiglia avrebbe potuto perdere. Era il bambino che appariva nelle foto segnaletiche sui giornali, sui poster appesi alle vetrine dei negozi e ai pali della luce. “Qualcuno sa chi è? Se esistono un padre e una madre si facciano avanti”.

Nessuno si fece avanti.

Ho provato a ricostruire i pezzi –ancora parziali- di quella che per molti divenne un’ossessione. Un’ossessione lo è stata senza dubbi per Bill Kelly. L’investigatore Bill Kelly non aveva neanche 30 anni quando gli venne affidato il caso. Quel giorno di febbraio si trovò davanti il corpo del piccolo per esaminarlo. Cominciò sollevando un piede minuto dalla barella di metallo su cui era stato adagiato, nell’ufficio del coroner. Il bambino aveva gli occhi blu, era alto circa un metro, non arrivava a 14 chilogrammi. Era talmente malnutrito che si rivelò difficile stabilire l’età. L’autopsia avrebbe svelato più tardi che era stato massacrato di botte, anche se non venne rinvenuta alcuna frattura alle ossa.

Quando lo studente lo trovò era senza vestiti, avvolto in una coperta di flanella di colore ruggine. I suoi capelli biondo cenere erano stati malamente accorciati: un taglio fatto in casa, segno di povertà; i resti di alcune ciocche erano ancora sul torso. Le unghie erano state spuntate. La pelle della mano destra e di entrambi i piedi era raggrinzita, come se fosse rimasta immersa nell’acqua per diverso tempo prima che il cadavere fosse spostato. Il corpo era segnato da cicatrici: una su una caviglia, un’altra sull’inguine, un’altra ancora, a forma di L, sotto il mento. Le temperature rigide avevano preservato il corpo e rallentato la decomposizione. Poteva essere morto tre giorni come due settimane prima. Vicino alla scatola venne trovato un cappello di stoffa da uomo.

Kelly era un veterano di guerra, aveva già incontrato la morte in Europa e in Corea. Ma quella morte, quel bambino scheletrico, picchiato, gettato in una scatola, sarebbe diventato una missione. Doveva scoprire che cosa gli era successo. Tanto più che Kelly aveva due figli –un bambino di 4 anni e una bambina di 3. Sua moglie Ruth era incinta di 5 mesi. Kelly era giovane ma già a capo dell’Unità identificativa del Dipartimento di polizia. Per arrotondare faceva anche il fotografo ai matrimoni.

Cominciò a studiare il corpo del bambino. Prese le impronte digitali delle mai e dei piedi, immergendo i polpastrelli nell’inchiostro. Era certo che qualcuno si sarebbe fatto avanti per denunciare la scomparsa.

Il caso di Boy in the Box dilagò in tutti gli allora 48 Stati americani (Alaska e Hawaii entreranno a fare ufficialmente parte dell’Unione nel 1959): vennero stampati, grazie al Philadelphia Inquirer, 400mila volantini con il volto del bambino sconosciuto. Nei successivi 65 anni vennero seguite decine e decine di piste: a un certo punto sembrava che il ragazzino fosse un rifugiato ungherese, un’altra pista portava a un bimbo rapito fuori da un supermercato di Long Island, nel 1955. Sotto la lente dei detective sono finiti una coppia di operai e una famiglia che gestiva un centro di adozioni, persino una comunità circense locale. Ma ogni traccia finiva in un vicolo cieco. A oltre mezzo secolo di distanza, le indagini su quell’omicidio sono ancora in corso.

La polizia scoprì, poco tempo dopo, che la scatola in cui era stato trovato il bambino conteneva originariamente una culla. Si scoprì anche che 11 esemplari di quel tipo di culla erano strati venduti a 7,50 dollari l’uno nel negozio J.C. Penney di Upper Darby, sobborgo di Philadelphia, tra il 3 dicembre 1956 e il 16 febbraio 1957. Vennero rintracciati 9 acquirenti –una vera impresa, considerato che il tracciamento dei pagamenti era ancora fantascienza prima dell’uso massiccio delle carte di credito- ma nessuno di loro destò sospetti o corrispondeva ai profili ricercati.

Kelly lavorò senza sosta, consultò centinaia di file, insieme con i registri delle nascite della città e dintorni –le impronte dei neonati qui sono registrate alla nascita. Assistito dall’investigatore Remington Bristow batté ogni pista possibile e impossibile. Consultarono persino una sensitiva, a cui cominciarono a fare visita regolarmente perché si erano convinti che sapesse qualcosa di più. La sensitiva parlò di una capanna di tronchi vicino a un laghetto.

Tempo dopo, Bristow rintracciò proprio una piccola capanna affacciata su uno stagno. Il portico era delimitato da una ringhiera di legno: un altro dettaglio al quale aveva fatto riferimento la sensitiva. Bristow si fece via via più sicuro che il bambino fosse cresciuto in una famiglia adottiva in quella casa e che la sua morte fosse stata un incidente: sarebbe caduto dalla finestra e atterrato nei pressi dello stagno (ecco spiegata la pelle raggrinzita della mano destra e di entrambi i piedi). La famiglia adottiva se ne sarebbe accorta soltanto ore dopo e, spaventata, avrebbe abbandonato il corpo in una scatola.

Ma Kelly non era affatto appagato dalla versione del suo collega. Il colpo di scena arrivò il 25 febbraio 2000, 43 anni dopo la chiamata dello studente alla polizia. Quel venerdì mattina la Divisione Omicidi di Philadelphia ricevette una telefonata da uno psichiatra dell’Ohio. Era preoccupato per una delle sue pazienti ambulatoriali. Kelly giurò di mantenere segreta l’identità della paziente e, parlando con i media e con la polizia, la ribattezzò Mary. La mattina del 43° anniversario della scoperta del corpo, Mary si svegliò in preda al panico e tirò su il telefono. Voleva denunciare un omicidio. Aveva bisogno di liberarsi di quel peso e contattò il suo psichiatra. Parlò di un bambino ucciso a Philadelphia nel 1957.

Con lo psichiatra che faceva da intermediario, gli investigatori iniziarono una corrispondenza di due anni con Mary, mettendo lentamente insieme i pezzi di quel rompicapo. Mary diceva di essere cresciuta a Lower Merlon, periferia di Philadelphia, figlia unica di insegnanti. Ricordava di avere 10 anni e di trovarsi in macchina con la madre, in un quartiere in cui non era mai stata. Era il 1954. A un certo punto parcheggiarono e bussarono a una porta. La donna che aprì teneva in braccio un bambino con un pannolino fradicio. Una voce maschile proveniente dall’interno della casa chiese: “Hai preso i soldi?”. La madre di Mary consegnò una busta e in cambio le venne dato il bambino. Lo portò a casa e lo rinchiuse nel seminterrato. Il ragazzino non disse mai una parola. Mary notò subito che c’era qualcosa di strano in lui, tanto che, anni dopo, si chiese se avesse sofferto di una paralisi cerebrale o di un ritardo cognitivo. Si ricordava che era terribilmente maltrattato e denutrito. Non sapeva perché la madre lo avesse chiuso nel seminterrato.

Kelly non poteva credere alle sue orecchie. Poi, il giorno prima della Domenica delle Palme del 2002, ricevette una lettera nella quale si faceva riferimento al nome della via dove era cresciuta Mary a Philadelphia. Non appena la messa finì, andò in fretta e furia a Lower Merlon. Bussò a ogni porta finché non ebbe la conferma che la famiglia di Mary avesse davvero abitato nella zona.

Nel giugno 2002, Mary accettò un incontro dal vivo. Kelly e il medico legale Joe McGillen noleggiarono un furgoncino e guidarono fino a Cincinnati, in Ohio (McGillen avava paura di volare). Erano circa otto ore di macchina.

Mary impiegò tre ore per raccontare la sua versione della storia. Aveva quasi 12 anni quando accadde. Si ricordò che il bambino, che in famiglia chiamavano Jonathan, vomitò dopo avere mangiato un piatto di fagioli al forno. Aveva davanti a sé l’immagine di sua madre, infuriata per il disordine: la donna gettò il bambino nella vasca da bagno, lo picchiò a sangue sbattendogli ripetutamente la testa contro il pavimento. Il piccolo emise un grido, l’unico suono che Mary gli abbia mai sentito emettere. Poi tacque. Sua madre lo ripulì, gli tagliò i capelli (un tentativo disperato di non farlo riconoscere?), lo avvolse in una coperta e lo caricò nel bagagliaio dell’auto. Guidarono verso un posto desolato. Mary era con lei. Indossava un impermeabile per ripararsi dalla pioggerella di febbraio. L’agente Palmer rammentò che nei giorni del ritrovamento del bambino l’aria era umida, pioveva spesso.

Scesero dall’auto e rimasero in piedi di fianco al bagagliaio. Sua madre si irrigidì quando un uomo fermò la macchina e abbassò il finestrino: “Avete bisogno di aiuto?”, chiese. Sua madre scosse la testa. Dopo che l’uomo se ne andò, la donna nascose il bambino in una scatola vuota, rimediata tra i rifiuti. Gli investigatori martellarono Mary, le chiesero se ricordasse altro, se avesse mai sentito il vero nome del bambino.

Nonostante alcuni dettagli inquietanti e plausibili, il Dipartimento di polizia decise di abbandonare quella pista, peraltro avallata dallo psichiatra: dopotutto, dissero gli investigatori, si trattava di una donna che aveva passato la vita dentro e fuori istituti psichiatrici. Inoltre molti dettagli di quel fatto, con il tempo, erano diventati di dominio pubblico. Non ci voleva molto a metterli insieme e a inventare una storia.

All’inizio Boy in the Box fu seppellito in una fossa comune, destinata ai condannati a morte e alle persone non identificate. Il corpo venne riesumato quattro decenni dopo, nel novembre 1998, per effettuare esami sul Dna e raccogliere nuovo materiale forense. Dopo le analisi venne sepolto nuovamente, ma all’Ivy Hill Cemetery di Mount Airy. Questa volta il bambino senza identità aveva una tomba e una lapide che lo ricordavano. Con la data in cui venne trovato: 25 febbraio 1957. Al funerale, oltre ad alcuni agenti, partecipò una piccola folla di persone comuni addolorate per quella tragedia. Qualcuno portò dei fiori.

La fiammella della speranza è tornata a riaccendersi poco tempo fa, nella prima settimana di dicembre. Dopo anni di ricerche e test sempre più accurati, la polizia ha annunciato che Boy in the Box ha un nome. Si tratta di Joseph Augustus Zarelli, quattro anni. Nato il 13 gennaio 1953, morto alla fine di febbraio del 1957. Forse la madre e il padre non erano sposati. Gli investigatori sono risaliti all’identità dopo che un cugino di secondo grado di Joseph ha caricato informazioni relative al proprio Dna su un database pubblico – molti americani incuriositi dal proprio albero genealogico mandano il loro Dna a siti come Ancestry.com o 23andMe.com.

La svolta che si aspettava da decenni è stata annunciata durante una conferenza stampa della polizia di Philadelphia: i progressi sono stati resi possibili grazie a un minuzioso lavoro investigativo e ad analisi approfondite, con tecnologie all’avanguardia che hanno permesso di isolare sequenze di Dna e confrontarle con altre (sistemi che hanno messo la parola fine a numerosi altri cold case). Quello che la polizia ha sempre definito uno dei più antichi omicidi irrisolti della città potrebbe avviarsi verso una soluzione. Il capitano Jason Smith ha detto che le indagini andranno avanti, perché ancora non si conoscono le circostanze esatte della morte. Joseph ha fratellastri ancora in vita sia del ramo paterno che di quello materno, ma i loro nomi sono stati tenuti segreti come misura precauzionale. “Abbiamo alcuni sospetti sull’assassino, ma sarebbe irresponsabile rivelarli, poiché c’è ancora un’indagine. Magari non arresteremo mai nessuno, ma faremo tutto ciò che è possibile”. Per rendere giustizia a Boy in the Box.

 

                                                        Marco Bruna

 

 

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