America latina fuor di cliché
“E’ la regione più urbanizzata al mondo” spiega nel suo ultimo libro e in questa intervista Martìn Caparròs.
L’articolo-intervista, curato da Gabriella Saba, è pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 2 dicembre 2022, alle pp. 32-35.
Che cosa è davvero l’America latina? L’interrogativo percorre le 728 pagine di “Namerica” (Einaudi), ultima opera di Martìn Caparròs: per rispondere il giornalista e scrittore argentino osserva e analizza fenomeni generali e periferici, tracciando alla fine un grande affresco in cui il lettore può trovare gli strumenti per rispondere come meglio crede. E per interpretare “Namerica”: un neologismo con cui l’autore indica l’America che parla spagnolo. Perché alla fine, ci dice, “siamo quelli che hanno quella lettera (la N) nella propria vita”.
La prima immagine del libro è il mercato di Chichicastenango, in Guatemala. E’ un famoso mercato tradizionale e lei ironizza sul fatto che una guida assicura che in quel luogo si trova “l’autentico spirito latinoamericano”. Ma come si riduce una regione di 640 milioni di persone e 20 milioni di chilometri quadrati (compreso il Brasile anche se non fa parte di “Namerica”) a un unico spirito?
Si tratta della solita operazione di mettere insieme cose diverse nello stesso contenitore e che funziona soprattutto se le guardi dall’Europa. E’ anche vero però che i tratti comuni esistono e in questo libro cerco di trovarli: sia quelli reali che quelli falsi.
Cominciamo da quelli reali.
Per esempio, che ventun Paesi parlino la stessa lingua è un fenomeno che non esiste in nessun altro luogo al mondo. E’ più facile che in uno stesso Paese si parlino venti lingue.
Ce ne dica un altro.
Un modo comune di guardare al mondo che da duecento anni stiamo cercando di distruggere. La storia delle nazioni indipendenti è la storia della costruzione delle differenze. Per giustificare il nazionalismo, ogni Paese ha dovuto inventare che era molto diverso vivere da una parte o dall’altra di un fiume. Le nazioni sono nate perché le oligarchie volevano estendere il proprio potere.
E quindi, cosa significa oggi essere latinoamericano? E’ una domanda che lei si fa nel libro e aggiunge: “Si tratta di una domanda stupida ma ho imparato a rispettare soprattutto le domande stupide”.
Ho cercato di partire da quello che l’America latina è oggi e non quello che è nell’immaginario o nel passato. Le faccio un altro esempio: questo continente viene visto soprattutto come uno spazio della natura, mentre è la regione più urbanizzata del mondo. L’immagine dell’America latina bucolica-campesina aveva senso 50 anni fa, quando metà della popolazione era rurale. Ma oggi è ricordo, un cliché. Per capire la nostra identità dobbiamo partire dal fatto che siamo abitanti di grandi città destrutturate e con un alto tasso di diseguaglianza, con molti conflitti interni.
In effetti non ci sono tante regioni al mondo su cui i cliché si sprechino come per l’America latina. Come lo spiega?
E’ difficile da capire. Ricordo una scena di qualche anno fa a Roma. C’era una conferenza sull’America latina in cui si parlava del continente in termini mitici, come il luogo delle utopie. E questo è sempre stata per l’Europa: una terra in cui le utopie erano realizzabili. Da Colombo, che definì quella regione il paradiso, fino al Che. E ultimamente sono riusciti a inventare che una serie di governi molto autoritari sono di sinistra per il solo fatto di essere in America latina. Ora, è difficile dire che Daniel Ortega sia di sinistra, il suo è puro autoritarismo, o che lo sia Cuba in cui da più di 60 anni c’è al potere la stessa famiglia. La sinistra dovrebbe essere esattamente il contrario: è distribuzione del potere.
A proposito di utopie realizzate, vere o presunte. In diversi Stati latinoamericani governa la sinistra ma sono sinistre molto diverse. Eppure l’Europa esulta per la vittoria della sinistra in quella regione come si trattasse della stessa cosa. Come mai?
Perché è più facile credere che verificare.
Però è vero che una svolta a sinistra c’è stata.
La cosiddetta svolta a sinistra è da ridimensionare. La tendenza dei latinoamericani negli ultimi anni non è stata l’adesione alla sinistra, ma la sfiducia. Vedi l’esempio del Cile, dove alle elezioni più importanti del post-dittatura, e in cui ha vinto la sinistra, ha votato il 55% della gente: cioè il 45% ha un tale rifiuto del sistema da non prendersi il disturbo di recarsi in un seggio a depositare il voto. Un dato eloquente è che nelle ultime 16 elezioni presidenziali in America latina ha guadagnato l’opposizione.
Tornando alla ricerca di caratteri comuni. Per farlo, lei racconta molti fenomeni, dall’estrattivismo allo sviluppo dell’architettura andina. Da ognuno prende spunto per sviluppare una tesi. Si può dire sia un libro a tesi?
E’ possibile che mentre cerco di capire si sia prodotta una qualche tesi, che però vale per tutto il mondo. La più importante è che non abbiamo progetti ma siamo in un’epoca in cui guardiamo al passato e quello che ci aspetta ci pare una minaccia: la minaccia ecologica, quella demografica e quella della destra. Visto che non riusciamo a far sì che il futuro sia una promessa, ecco che diventa un pericolo.
Anche nel caso del Cile di cui parlava e in cui tante speranze sono riposte nel giovane presidente Boric?
In Cile c’è l’idea della costruzione di qualcosa di un po’ diverso dal sistema attuale. Ma nel migliore dei casi Boric realizzerebbe un Paese un po’ meno disuguale. Non ci sarebbe redistribuzione della ricchezza.
E il Brasile, dove ha appena vinto Lula? Cosa si aspetta da questo Paese così diviso, in cui Bolsonaro ha perso per poco?
Il Brasile è il Paese più ricco dell’America latina e insieme il più povero, e in questo non c’è nulla di nuovo. Un tempo lo chiamavano Belindia, ovvero un mix fra Belgio e India, dove il Sud ricco era il Belgio e il Nord povero l’India. E dunque: in Belgio ha vinto Bolsonaro, in India Lula. Quello che c’è di nuovo è proprio Bolsonaro, che non è un politico di destra qualunque ma con pulsioni britali da machista e razzista.
In effetti appartiene a una categoria politica poco comune nella regione, è semmai un personaggio antisistema del tipo di Trump.
Bolsonaro nasce dal fatto che la sinistra ha perso l’egemonia sulla ribellione, di cui invece si è appropriata la destra. La sinistra di oggi è dogmatica nel senso anche morale, impone molte convenzioni e la destra ne ha approfittato per presentarsi come lo spazio della ribellione. Il problema è come recuperare a sinistra quello che è sempre stato il nostro spirito: mettere in discussione lo status quo.
Tra gli aspetti comuni alle società latinoamericane c’è il razzismo. Sono passati più di 500 anni dalla “conquista”, ovvero l’arrivo dei colonizzatori bianchi sul continente, eppure avere la pelle chiara è ancora condizione necessaria per essere ricco e rispettato.
Per trecento anni il potere è stato dei bianchi che si erano impadroniti di tutto. Con il tempo le cose stanno migliorando, anche se lentamente. E ogni tanto assistiamo a improvvisi salti avanti come nel caso di Evo Morales, il primo presidente indigeno in Bolivia.
Un altro cliché sono però proprio i “popoli originari”, termine che lei critica perché “sembra siano nati sul ramo di una palma, che prima non ci fosse niente”. Ci sono ipocrisie in questa idealizzazione?
Ci sono molte ipocrisie. La più evidente è quella che utilizza il presidente messicano Lòpez Obrador, e che consiste nel dare la colpa dei problemi sociali del Messico alla Spagna. Ma il Messico è indipendente da 200 anni e gli unici responsabili dei problemi di quel Paese sono i politici messicani. Si tratta di un inganno classico del nazionalismo per cui la colpa l’hanno sempre quelli di fuori. L’altro inganno è quello di inventare un mondo precolombiano perfetto e armonioso, mentre era molto duro. L’invenzione di un mondo utopico serve a riaffermare che l’invasione spagnola fu brutale. Eppure la conquista non ha bisogno ci si inventi che il mondo di prima era innocente per dimostrare quanto fu spaventosa.
Il recupero dell’idea dei popoli originari non le piace proprio.
Mi disturba perché privilegia alcuni poveri rispetto ad altri. Non vedo perché le origini dovrebbero determinarne una differenza. Accettarlo significa respingere gli africani in Italia perché i bisnonni degli italiani vivevano da voi e i bisnonni degli africani no. Qualunque cosa implichi la purezza del sangue è pericolosa e sappiamo dove porta. La sfida non è discriminare alcuni poveri su altri ma fare in modo che si uniscano per migliorare la condizione di tutti.
Gabriella Saba Martìn Caparròs