Davide: vuole essere tentato, ma non resiste.
Fin dai tempi più remoti, attraverso i suoi sacerdoti e i suoi profeti, il popolo ebraico –ricorda Ugo Volli nel poderoso e affascinante libro intitolato “Musica sono per me le Tue leggi. Storie di Davide, re d’Israele”- parla con Dio. Lo interroga prima delle battaglie, durante l’esilio, nel dubbio e nella disperazione.
L’Eterno, se non tace perché è in collera, risponde: “Gradisce essere consultato e premia chi lo fa continuamente come Davide, mentre non ama chi fa di testa sua o sulla base del buonsenso come spesso fa Saul. Le Sue istruzioni vanno però rispettate alla lettera. Chi se ne discosta anche solo in parte paga duramente questa colpa”.
Colpevole di essersi impossessato del bottino di guerra dopo aver sconfitto gli Amaleciti, Saul paga la sua disobbedienza con la lontananza da Dio. Che gli nasconde il suo volto. Figura gigantesca, storica e insieme mitica, del libro del profeta Samuele, Saul è tormentato da uno spirito cattivo che lo rende perennemente insoddisfatto, malinconico, iroso, infelice. “Non è un demone –scrive felicemente Volli tratteggiando questo carattere cupo- ma piuttosto una punizione, una nostalgia che accompagnerà Saul per tutto il resto della sua vita. Un dolore psichico”. Per alleviarlo, i cortigiani gli chiedono il permesso di cercare qualcuno che sappia suonare la cetra. Quando lo spirito cattivo ti investirà –gli dicono- lui si metterà a suonare e tu starai meglio.
Lui è Davide, il pastorello con i capelli rossi e gli occhi belli, ultimogenito di un tale Jesse, che la Bibbia e le leggende ebraiche dipingono come uomo di straordinaria cultura e pietà, “uno dei quattro uomini che nella storia sono morti senza aver commesso alcun peccato”. La scena in cui Samuele va a casa di Jesse, esamina uno per uno i suoi figli, e finalmente chiede del ragazzino che sta pascolando il gregge, è famosa.
L’Eterno posa i suoi occhi su Davide non solo perché è bello, coraggioso e sa suonare la cetra, ma perché è un pastore. Come Mosè. Davide è condotto al cospetto di Saul. Suona la cetra. Allevia il suo dolore. Si mostra deciso e coraggioso, al punto di sfidare a mani nude un gigante e vincerlo. Nell’anima malata del re lontano da Dio si insinuano l’invidia e il sospetto. Inizia, in tal modo, il racconto dell’amore-odio che lega Saul a colui che sarà il suo successore. Un periodo di tempo che dura anni, fatto di vittorie e sconfitte, di tranelli, di fughe, di ravvedimenti e ammissioni di colpa da parte del re furioso che vorrebbe annientare l’uomo che gli toglierà il regno ma che nello stesso tempo ama. L’uomo che cerca di uccidere con la lancia e insegue ovunque. L’uomo che potrebbe approfittare del buio di una caverna o del suo sonno notturno nell’accampamento, e invece non ne approfitta. L’uomo al quale, ormai quasi cieco dal furore che gli ottenebra la mente, si rivolge piangendo e dice: “E’ questa la tua voce, figlio mio?”.
Un racconto tanto più drammatico, tanto più ossessionante se si considera lo spazio limitato in cui si svolge, Un palcoscenico di pochi km quadrati stretto tra il mare, il deserto e le rocce delle colline di Giudea e Samaria. Un territorio arido, scosceso e aspro, nel quale si nascondono gole profonde e grotte; spuntano miracolosi fiori e altrettanto miracolose sorgenti; dominato da un cielo cobalto di giorno, di notte dal chiarore delle stelle, al centro del quale l’antico villaggio di Yabus che Davide, appena unto, ha comprato versando 600 scicli d’oro raccolti dalle tribù, è diventato la città della perfetta bellezza: Gerusalemme.
Davide ha 38 anni. Quando l’Arca dell’alleanza, ripresa dai filistei, arriva a Gerusalemme, lui si alza le vesti e, in preda al delirio, manifesta la sua gioia danzando davanti al corteo. In questi anni ha condotto molte guerre, ucciso molti nemici. Ama Dio, continua ad amarlo, a studiare di notte e a pregarlo, a scrivere i meravigliosi Salmi nei quali glorifica il suo splendore, implora la sua protezione e il suo aiuto. Ma quando si rivolge a Dio e gli dice: io vivo in un palazzo di cedro, l’Arca è sotto una tenda, non è giusto, fammi costruire un Tempio, la risposta è negativa. “Hai sparso molto sangue –gli dice l’Eterno- e hai combattuto grandi battaglie; non costruirai una casa per il Mio nome, perché hai sparso molto sangue sulla terra ai Miei occhi”. Davide non vedrà il Tempio. E’ il primo segno che Dio si sta allontanando.
Una sera, tardi, non riuscendo a dormire, Davide si alza dal letto e va a passeggiare sulla terrazza del suo palazzo. Dall’alto –come ci raccontano il libro di Samuele, i testi rabbinici e le leggende- su un’altra terrazza della reggia vede una bellissima donna che si sta lavando. Dobbiamo immaginare l’asperità del letto, l’insonnia, gli incubi del tempo che passa, la memoria del sangue versato, e la dolcezza, i profumi, le seduzioni della notte mediorientale, alla quale si unisce la seduzione della giovane donna nuda.
Si chiama Bathsheva, moglie di un soldato, Urìa, che in questo momento è in guerra: noi la conosciamo come Betsabea. Davide la manda a prendere. Perché Dio ha voluto che Davide, che ha già un numero spropositato di mogli e figli, commettesse adulterio? Perché, ancora una volta, lui glielo ha chiesto. Un giorno, spiega il Talmud, Davide dice a Dio: “Signore dell’universo, per quale motivo nella preghiera si dice “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” e non si dice Dio di Davide?”. Dio gli risponde: “I patriarchi hanno subito prove davanti a Me e tu no”.
Davide, allora, implora di essere sottoposto a una prova e Dio, conoscendo la lussuria del suo prediletto, gli comunica che lo sottoporrà alla tentazione di una donna sposata con la quale, appunto, i rapporti sono vietati. Davide, dunque, non resiste alla prova, commette un grave peccato. Ma non basta; quando Betsabea gli comunica di essere incinta, fa tornare dalla guerra il marito che però, mentre i suoi compagni combattono, si rifiuta di entrare in casa e giacere con la moglie. Quindi Davide ordina che torni in battaglia e, se non per le mani del nemico, venga ucciso.
E’ l’inizio della decadenza. A 70 anni Davide sente la morte vicina. Giace stremato nel letto, è cupo come Saul. Nel Salmo 116 scrive: “Mi hanno toccato le pene della morte,/ catturato i lacci della tomba,/ oppresso tristezza e dolore./ Chiamo il nome dell’Eterno:/ Ti prego, Signore, salvami”. Dio non lo salva. E neppure gli risponde quando Davide gli chiede quando morirà, perché l’uomo non deve saperlo. Soltanto una cosa gli dice: qual è il giorno della settimana in cui morirà. E questo è il sabato. Così, tutti i sabati, giorno e notte Davide prega. L’angelo della morte non può uccidere il sabato.
Ma poi, un giorno, succede qualcosa in giardino, un rumore strano, un ramo che si muove, un suono. Davide si alza per andare a vedere, scivola sui gradini, e l’angelo della morte lo ghermisce.
Giorgio Montefoschi
Questo articolo, contenuto ne “La Lettura” a pag. 33, supplemento culturale del Corriere della Sera, è stato pubblicato il 20 novembre 2022.