Gli antichi romani non erano razzisti.

L’antica Roma sulla rupe della “Cancel Culture

Il saggio di uno specialista ci aiuta a riordinare le idee.

 

Il “Venerdì di Repubblica” del 26 maggio 2023, alle pp. 102-103, pubblica questo articolo-intervista di Cinzia Dal Maso al latinista Mario Lentano.

 

Gli antichi romani non erano razzisti. Non possedevano neppure un termine per “razza”. Ovviamente notavano le differenze di lineamenti e di colore della pelle, ma non vi associavano un concetto biologico né giudizi di valore. Attribuivano piuttosto le caratteristiche somatiche ai luoghi di provenienza degli individui: gli etiopi, come i romani chiamavano quelli dalla pelle scura, avevano il volto bruciato dal sole (dal greco aitho (brucio) e ops (viso)), mentre i nordici alti e biondi vedevano il sole troppo poco. Nulla più. Per non parlare di come i romani hanno costruito il loro impero, inglobando genti di continuo. Da Romolo che, pur di accrescere la popolazione della sua città, fondò un asylum  per avventurieri e schiavi fuggitivi, fino all’imperatore Caracalla che nel 212 d.C. concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. Roma è diventata grande proprio perché ha sempre accolto genti e culture diverse, come racconta il latinista Mario Lentano in “Classici alla gogna. I romani, il razzismo e la cancel culture” (Salerno Editrice). Un’invettiva appassionata che si legge tutta d’un fiato. Scavando nella sua profonda conoscenza della letteratura e della mitologia romane, Lentano offre solidi argomenti contro chi oggi vuole usare la scure della cancel culture (la pratica, nata nei social media, di cancellare le tracce di atteggiamenti offensivi nei confronti di minoranze discriminate) per abbattere anche i greci e i romani.

Ma i romani non erano razzisti neppure un po’? Eppure per loro il nero era il colore dell’oltretomba e della negatività.

E’ vero, ed è anche vero che in alcuni casi la negatività è stata associata alla pelle scura. Però sono eccezioni, come il caso del soldato di colore comparso nell’accampamento dei cesaricidi Bruto e Cassio alla vigilia della battaglia di Filippi del 42 a.C. A posteriori si è detto che era un presagio sfortunato, ma il solo fatto che quel soldato fosse lì dimostra che la sua presenza era percepita come naturale.

Perché i romani accoglievano tutti. Persino i loro miti delle origini parlano di accoglienza.

E non solo per Romolo, che veniva da Alba Longa, o per il suo progenitore Enea giunto da Troia. Per i romani erano arrivati da lontano anche gli abitanti più antichi del Lazio. E’ curioso che se si digita su Google Giano, il dio degli inizi, questi viene sempre descritto come divinità tipicamente romana. In parte è vero, perché non c’è un suo equivalente nel pantheon greco, ma nel mito originario si trattava di un principe giunto dalla Grecia. Cicerone dice che il suo nome deriva da Eanus, dal verbo eo, andare: era dunque un viandante. Poi nel Lazio è giunto Saturno, che Giove aveva scacciato dall’Olimpo. Poi gli Aborigeni, scesi dai monti. Ed Evandro, che era giunto con altri fuggitivi dall’Arcadia e ha poi accolto Enea. Questo è il racconto ufficiale della nascita di Roma. E il modo in cui una cultura immagina le proprie origini è il modo in cui si vuole rappresentare.

Cosa direbbe dunque un romano antico al ministro Lollobrigida che giorni fa ha parlato di “etnia italiana da tutelare” per la “prosecuzione della nostra identità culturale”? O a chi non gradisce i direttori stranieri per i nostri musei?

Dovrebbero leggere il discorso dell’imperatore Claudio del 48 d.C. a favore della richiesta dei Galli di avere propri rappresentanti in Senato. L’ala conservatrice era perplessa, diceva che si era già aperto il Senato a veneti e Insubri, non si poteva esagerare. Claudio risponde che la vocazione autentica e originaria di Roma è proprio “prendere il meglio da ogni luogo”, e a 800 anni esatti dalla fondazione (celebrati nel 47 d.C.) può ragionevolmente dire che è anche la ragione del suo successo. Aggiunge che le potenze di Atene e Sparta furono di breve durata proprio perché chiuse in se stesse. Lo stile della storia di Roma, invece, è quello inaugurato da Romolo e non va tradito.

Eppure Mussolini fece della romanità un uso che oggi definiremmo identitario, se non suprematistico. In che misura la retorica fascista condiziona l’immagine contemporanea dell’antichità?

Il fascismo si è innestato su una tendenza della tradizione culturale europea che risale già al Medioevo e vede la Grecia e soprattutto Roma come il fondamento del mondo moderno. E’ stato uno dei tanti usi ideologici della storia, anche se tra i più funesti. Tocca a noi togliere greci e romani dal piedistallo, ribadire che non c’è stato alcun miracolo greco né genio romano, e guardare invece alla loro storia, fatta di luci e ombre, con mente aperta. Senza scordare però quanto il loro contributo sia stato significativo per la nostra tradizione culturale. Questo è innegabile. E per questo io farei studiare la letteratura e la cultura di Roma in tutte le scuole secondarie d’Italia, non solo nei licei.

Ha legami con Roma anche la cosiddetta “cancel culture”, come lei racconta nel suo libro. Perché in fondo è una sorta di “damnatio memoriae”.

Certamente. I romani cancellavano ogni ricordo di personaggi per loro scomodi. Ma la cancel culture di oggi mi pare più affine a certe posizioni del cristianesimo delle origini, ai roghi dei libri, all’inquisizione. E’ un’applicazione retroattiva dei nostri criteri di valore del tutto antistorica, con in più la pretesa di voler proteggere la gente da idee o parole fuorvianti o pericolose. Ma il problema non si risolve riscrivendo i libri e creando così letterature fittizie. Il mio libro è un pamphlet proprio contro questo nuovo letto di Procuste, affinché si insegni piuttosto una sana presa di distanza da mondi culturali diversi dal nostro. Anche perché la nostra storia passata è piena di atteggiamenti sessisti e schiavisti. E’ un tiro al bersaglio sin troppo facile che di fatto appiattisce tutta la storia sul presente.

Che fare, dunque, per evitare che si buttino giù anche le statue di Cesare, Augusto, Traiano?

Superare l’idea dell’eccezionalità di greci e romani, e studiarli nel contesto delle altre culture con cui hanno dialogato. E ampliare gli sguardi, facendo sì che sempre più persone, provenienti da tradizioni culturali diverse, studino la Grecia e Roma. Possono porre domande scomode che noi, anche solo per affetto, tendiamo a evitare. Insomma, anche gli studi classici devono diventare multietnici e multilingue. Proprio come l’impero romano.

 

Cinzia Dal Maso                                          Mario Lentano