Jusepe de Ribera. La dolcezza di Maddalena barbuta.

La dolcezza di Maddalena barbuta

Al Petit Palais di Parigi una mostra imperdibile di Jusepe de Ribera. Come difficilmente si vedrà nei prossimi anni.

 

Ne “La Lettura” del 26 gennaio 2025, a pag. 31, Edoardo Sassi visita e commenta una mostra parigina di Jusepe de Ribera.

 

Jusepe de Ribera (1591-1652): il pittore delle pelli rugose, delle unghie sporche, dei poveri disgraziati, dei vecchi smagriti con le clavicole sporgenti, dei santi torturati, della favola antica che –quando presente- è trattata alla stregua di un mero fatto di cronaca (d’altronde lui, spagnolo di nascita, visse in tempi di feroce Inquisizione, tra la natia Valencia, la Roma papalina e la cattolicissima Napoli, capitale del vicereame…).

Ribera, uno dei più grandi artisti del XVII secolo, cantore di un’umanità nuda e cruda in cui non c’è spazio per il sublime: nessun idillio nei suoi quadri, nessuna Venere pudica o discinta che sia, nessun corteo di angeli festanti, nessuna opulenza rubensiana (per dire di un quasi coetaneo). Piuttosto –nel nome del suo unico maestro, Caravaggio, che forse non incontrò mai e che però saprà superare quanto a radicalità dei soggetti- il cantico (grido?) del dolore e della sofferenza, che il suo pennello è però capace di trasformare in opere di straordinaria intensità e struggente bellezza.

Lo confermano, oltre al plurisecolare amore verso di lui nutrito da artisti, poeti, letterati, storici dell’arte, gli oltre centomila visitatori –numero superiore a ogni più rosea aspettativa degli stessi curatori, tanto più per un pittore mai assurto al rango di popstar– che in questi giorni stanno affollando la mostra allestita al Petit Palais di Parigi, “Ribera. Ténèbre et lumière”, un’imponente retrospettiva con oltre cento opere tra quadri e disegni provenienti da tutto il mondo, curata da Annick Lemoine, direttrice del museo di avenue W. Churchill, e Maité Metz, responsabile del dipartimento Pittura.

“Tre anni di lavoro intensissimo, ma credo che il risultato si veda”, commenta Lemoine. La quale ricorda come questa retrospettiva sia la prima mai dedicata, in Francia, all’artista. O forse addirittura la prima grande antologica in assoluto, considerando che nel 2002 è avvenuta una sorta di rivoluzione copernicana in merito agli studi sul pittore. Dieci anni prima infatti (1992) l’unione fra tre colossi mondiali –Galleria di Capodimonte, Prado e Metropolitan di New York- aveva dato vita a una retrospettiva in cui però la presenza di Ribera del periodo romano (il pittore approdò nell’allora capitale delle arti nel 1606, quindicenne, e ci restò dieci anni prima del trasferimento a Napoli) era ridotta al minimo. Quadri di quella stagione non si conoscevano, o si conoscevano a malapena.

Trascorsi due lustri, uno storico dell’arte fiorentino, Gianni Papi, impone una radicale rilettura dell’opera giovanile del maestro con una scoperta fondamentale che rovescia una teoria consolidata, in primis da Roberto Longhi. Lo fa, Papi, con un articolo sulla rivista “Paragone”, che peraltro dell’auctoritas longhiana è il tempio, dimostrando che tanti straordinari quadri fino ad allora attribuiti a un anonimo Maestro del Giudizio di Salomone (dal titolo della tela conservata alla Galleria Borghese), pittore forse di origini francesi, erano in realtà stati dipinti dallo Spagnoletto, nomignolo con cui Ribera fu celebre fin dagli esordi. Sessanta opere, tra cui non pochi capolavori, andarono d’un colpo ad arricchire il catalogo riberesco, sia pur con qualche sacca di resistenza tra gli studiosi. Oggi la mostra del Petit Palais non si distacca dalla lectio Papi, anzi omaggia lo studioso con un’intervista della curatrice in catalogo che è un tributo a quella scoperta. Parigi presenta dunque, di fatto, la prima antologica sull’intero cammino dell’artista.

Sette ambienti, allestimento e apparati didascalici di grande efficacia, ordine cronologico con qualche sezione tematica (tra le proposte clou del percorso, riunite per la prima volta, le tre versioni sul Compianto sul Cristo morto, National Gallery di Londra, Louvre, Thyssen-Bornemisza di Madrid, oltre a una spettacolare sala, l’ultima, dedicata ai martiri scorticati vivi). Tutto Ribera dunque, o quanto meno il meglio di un viaggio tra immagini potentissime che, al di là delle diatribe tra storici dell’arte, sprofondano il visitatore nel crudo realismo e nei drammatici chiaroscuri che appassionarono, tra i tanti, letterati come Byron (intingeva il suo pennello col sangue di tutti i santi) o Théophile Gautier (nulla può addolcire la tua feroce durezza. Lo splendido azzurro del cielo italiano non ha lasciato riflessi nella tua atroce pittura).

Dal 1616 Ribera visse fino alla morte a Napoli, allora possesso spagnolo, protagonista di una carriera fulminea. Ricercato dai viceré, dall’aristocrazia, dagli ordini religiosi, moltiplicherà gli incarichi anche per la sua patria, quella Spagna che non rivedrà mai. Tanti i capolavori esposti, a testimoniare grandezza e unicità (ben oltre il caravaggismo) di questo aedo del tormanto nato 155 anni prima di Goya. E non poteva mancare uno dei quadri più spregiudicati e irriverenti dell’intera storia dell’arte: La donna barbuta (Prado). Ovvero il ritratto di Maddalena Ventura che allatta, presente il marito, il figlio neonato. Il dipinto è datato 1631, anno in cui Ribera fu chiamato a corte dal viceré, duca di Alcalà, per testimoniare un evento ritenuto al tempo un bizzarro prodigio di natura, come riporta l’iscrizione ai piedi della tela. Abruzzese, vittima di disordini ormonali, Maddalena posò dal vivo, frontalmente, offrendo agli sguardi il contrasto tra la lunga barba nera e il seno bianchissimo, audacemente fuori dal corpetto.

 

                                                        Edoardo   Sassi